L’iniziativa italiana è finita nella sabbia, bloccata per lo più a causa di incoerenza e insufficiente decisione del governo. Più difficile spostare da noi il processo
C’è una questione della quale i ministri del governo Renzi parlano spesso e a voce alta ma che in realtà pare essere piuttosto bassa nelle priorità dell’esecutivo. È il caso dei marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, trattenuti da oltre due anni in India con l’accusa di omicidio di due pescatori mentre erano in missione antipirateria. Gli sviluppi delle ultime ore indicano che l’iniziativa italiana è finita nella sabbia, bloccata per lo più a causa di incoerenza e insufficiente decisione del governo. Come se il caso fosse stato derubricato da questione nazionale, sulla quale l’Italia si gioca la reputazione internazionale, a seccatura della quale parlare ma sulla quale non decidere. Il guaio è che non basta un buon incontro con il presidente Obama per ritrovare un ruolo internazionale.
Ieri, la Corte Suprema di New Delhi ha ritenuto ammissibile
il ricorso presentato dai due fucilieri italiani contro l’utilizzo
della polizia antiterrorismo Nia nel loro processo. In apparenza una
piccola vittoria per gli italiani. In realtà, una sconfitta o comunque
una battuta d’arresto seria della strategia italiana di ricorso a un
arbitrato internazionale. Cioè della strategia portata avanti, con
dichiarazioni forti, dalle ministre degli Esteri Federica Mogherini e
della Difesa Roberta Pinotti e condivisa da Matteo Renzi. Per
internazionalizzare il processo, infatti, occorre rifiutare a tutti i
livelli la giurisdizione indiana sul caso: prendere una serie di
iniziative tese a ricostruire una controversia con New Delhi,
controversia che era venuta meno nel marzo del 2013, quando i marò
furono rimandati in India, dunque accettando il diritto di Delhi di
processarli. Su questa strada sono stati fatti molti passi, negli scorsi
mesi. Ma poi l’Italia è caduta in una trappola che in gran parte si è
costruita da sola e la giustizia indiana ne ha brillantemente
approfittato.
Lo scorso 6 marzo, Girone e Latorre - probabilmente consigliati dal team dei loro legali indiani - hanno presentato alla Corte un ricorso contro l’utilizzo della Nia (National Investigation Agency)
nel processo. Con ciò riconoscendo ovviamente la legittimità della
giustizia indiana, alla quale si sono appellati, a procedere nel caso. È
a questo punto che il massimo tribunale del Paese non ha fatto altro
che ammettere la legittimità del ricorso e dare il via a una procedura -
prossimo appuntamento tra un mese - per entrare nel merito delle loro
eccezioni. Difficile, in questa situazione, sostenere da parte
dell’Italia che l’India non ha giurisdizione mentre la Corte Suprema di
Delhi si appresta a discutere un caso sollevato dai due marò stessi. Non
solo. Gli indiani potrebbero anche sostenere, davanti a un giudice
internazionale, di essersi dimostrati benevoli nei confronti di Girone e
Latorre. Prima infatti hanno escluso la pena di morte, poi la legge
antiterrorismo Sua Act e ora garantiscono di stare ad ascoltare i due
militari, accusati di omicidio, sulla questione della Nia.
Si sarebbe dovuta ricostruire una controversia,
Delhi potrebbe al contrario dire di essere nella migliore disposizione
d’animo verso gli italiani. A questo punto ricorrere a un arbitrato
internazionale per l’Italia è molto rischioso. È che Roma non si è
mossa in modo coordinato come avrebbe dovuto. Nella vicenda è mancata la
guida decisa del governo, e dunque hanno prevalso i consigli del team
legale indiano dei marò, che probabilmente amerebbe mantenere il
processo a New Delhi. Ieri, Palazzo Chigi ha ribadito «con forza» la
rivendicazione della giurisdizione italiana sul caso e ha di nuovo
chiesto «l’immediato ritorno dei nostri militari in Italia». In realtà, a
questo punto la strategia pare sottosopra. Come minimo, i tempi per
internazionalizzare il processo diventano più lunghi e le chance di
successo minori. E torna in campo l’ipotesi che sia l’India, alla fine, a
giudicare i due fucilieri. Pasticcio grave, per Girone e Latorre, che
erano in missione antiterrorismo, in divisa e sotto la bandiera
italiana. E grave per la reputazione del Paese. All’origine, mancanza di
convinzione e di leadership.
fonte: http://www.corriere.it
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