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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

12/03/16

L’eccezionalismo americano presenta elezioni infernali

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Se le elezioni presidenziali statunitensi finiscono con Hillary Clinton contro Donald Trump, e il mio passaporto viene confiscato e in qualche modo vengo costretto a scegliere o sono pagato per farlo, pagato bene… voterei per Trump. La mia preoccupazione principale è la politica estera. La politica estera statunitense è la peggiore minaccia a pace, prosperità e ambiente mondiali. E quando si tratta di politica estera, Hillary Clinton è un disastro diabolico. Da Iraq e Siria a Libia e Honduras il mondo è un posto assai peggiore per causa sua; tanto è vero che la chiamerei criminale di guerra che andrebbe perseguita. E non molto meglio ci si può aspettare sulle questioni interne di questa donna pagata 675000 dollari da Goldman Sachs, una delle più reazionarie aziende anti-sociali di questo triste mondo, per quattro discorsi, e ancor più con donazioni politiche in questi ultimi anni. Aggiungasi la disponibilità di Hillary ad essere per sei anni nel consiglio di amministrazione di Wal-Mart, mentre il marito era governatore dell’Arkansas. Possiamo aspettarci che cambi il comportamento delle imprese da cui prende soldi?
Il Los Angeles Times ha pubblicato un editoriale il giorno dopo le varie elezioni primarie del 1° marzo che iniziava: “Donald Trump non è adatto ad essere il presidente degli Stati Uniti“, e poi dichiarava: “La realtà è che Trump non ha nessuna esperienza di governo“. Quando devo aggiustare la mia auto cerco un meccanico con esperienza sul modello della mia auto. Quando ho un problema medico preferisco un medico specializzato nella parte del corpo malata. Ma quando si tratta di politici, l’esperienza non significa nulla. L’unica cosa che conta è l’ideologia della persona. Tra chi votare per una persona per 30 anni al Congresso di cui non si condivide alcuna opinione politica e sociale, e vi si è anche ostili, e qualcuno che non ha mai avuto un incarico pubblico prima, ma è un compagno ideologico su ogni importante questione? I 12 anni di Clinton ai vertici del governo non mi significano nulla. The Times ha continuato su Trump: “Ha una vergognosamente scarsa conoscenza delle questioni del Paese e del mondo”. Anche in questo caso, la conoscenza è ingannata (non intesa) dall’ideologia. Da segretaria di Stato (gennaio 2009-febbraio 2013), con ampie conoscenze, Clinton svolse un ruolo chiave nel 2011 nel distruggere il moderno Stato sociale e laico della Libia, schiantandola nel caos più totale da Stato fallito, disperdendo nel caotico Nord Africa e Medio Oriente il gigantesco arsenale che il leader libico Muammar Gheddafi aveva accumulato. La Libia è ora un santuario dei terroristi, da al-Qaida allo SIIL, mentre Gheddafi ne era stato uno principali nemici. Saperlo cos’è servito alla segretaria di Stato Clinton? Le bastava sapere che la Libia di Gheddafi, per diverse ragioni, non sarebbe mai stato uno Stato cliente obbediente a Washington. Fu così che gli Stati Uniti, insieme alla NATO, bombardarono il popolo della Libia ogni giorno per più di sei mesi, avendo come scusa che Gheddafi stava per invadere Bengasi, il centro dei suoi avversari, e così gli Stati Uniti salvarono la gente di quella città dal massacro. Il popolo e i media statunitensi, naturalmente ingoiarono questa storia, anche se alcuna prova convincente del presunto massacro imminente è mai stata presentata. (La cosa più vicina a un resoconto ufficiale del governo degli Stati Uniti sulla questione, un rapporto del Congressional Research Service sugli eventi in Libia dell’epoca, non fa alcuna menzione su minacce di massacri) (1). L’intervento occidentale in Libia fu ciò che il New York Times disse che Clinton “sosteneva”, convincendo Obama a “ciò che fu probabilmente il momento di maggiore influenza da segretaria di Stato” (2). Tutta la conoscenza che aveva non le impedì l’errore disastroso in Libia. E lo stesso si può dire del sostegno a un cambio di regime in Siria, il cui governo è in lotta contro SIIL e altri gruppi terroristici. Ancora più disastrosa fu l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, che da senatrice supportò. Tali politiche sono naturalmente delle chiare violazioni del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite.

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Un’altra politica estera di “successo” della Clinton, i cui svenevoli seguaci ignorano, i pochi che lo sanno, fu il colpo di Stato per abbattere ila moderatamente progressiva Manuel Zelaya in Honduras nel giugno 2009. Una storia vista molte volte in America Latina. Le masse oppresse finalmente misero al potere un leader impegnato a cambiare lo status quo, determinato a cercare di porre fine a due secoli di oppressione… e in poco tempo i militari rovesciarono il governo democraticamente eletto, mentre gli Stati Uniti, se non la mente dietro il colpo di Stato, non fecero nulla per punire il regime golpista, in quanto solo gli Stati Uniti possono punire. Nel frattempo i funzionari di Washington fecero finta di essere molto turbati da questo “affronto alla democrazia“. (Vedasi Mark Weisbrot su la “Top Ten dei modi con cui si può dire da che parte il governo degli Stati Uniti fu attivo nel colpo di Stato militare in Honduras“) (3). Nel suo libro di memorie, “Scelte difficili”, del 2014, Clinton rivela quanto indifferente fosse al ritorno di Zelaya alla sua carica legittima: “Nei giorni successivi (al colpo di Stato) parlai con i miei omologhi in tutto l’emisfero… preparammo un piano per ristabilire l’ordine in Honduras e garantire che elezioni libere ed eque si svolgessero in modo rapido e legittimo, rendendo la questione di Zelaya discutibile”. La domanda di Zelaya era tutt’altro che irrilevante. I leader latino-americani, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e altri organismi internazionali con veemenza ne chiesero l’immediato ritorno in carica. Washington, tuttavia, subito riprese normali relazioni diplomatiche con il nuovo Stato di polizia di destra, e l’Honduras da allora è diventato un importante fonte di bambini migranti che attualmente si versano negli Stati Uniti. Il titolo dell’articolo della rivista Time sull’Honduras alla fine dello stesso anno (3 dicembre 2009) riassume così: “La politica in America Latina di Obama sembra quella di Bush“.
E Hillary Clinton si presenta da conservatrice. E da molti anni; almeno dagli anni ’80, quando era la moglie del governatore dell’Arkansas, quando sosteneva con forza i torturatori degli squadroni della morte noti come Contras, l’esercito di ascari dell’impero in Nicaragua. (4) Poi, durante le primarie presidenziali del 2007, la venerabile rivista conservatrice degli USA, National Review di William Buckley, pubblicò un editoriale di Bruce Bartlett. Bartlett fu consigliere politico del presidente Ronald Reagan, funzionario del Tesoro col presidente George HW Bush e ricercatore presso due dei principali think-tank conservatori, Heritage Foundation e Cato Institute. Cogliete il quadro? Bartlett diceva ai lettori che era quasi certo che i democratici avrebbero vinto la Casa Bianca nel 2008. Allora, cosa fare? Sostenere il democratico più conservatore. Scrisse: “La destra disposta a guardare oltre, cerca ciò che probabilmente ha le sue identiche visioni tra i candidati democratici, ed è abbastanza chiaro che Hillary Clinton è la più conservatrice”. (5) Nelle stesse primarie vedemmo sulla rivista leader della più ricca corporatocrazia degli USA, Fortune, la copertina con foto della Clinton e il titolo: “Hillary ama il Business“. (6) E cosa abbiamo nel 2016? Tutti i 116 membri della comunità di sicurezza nazionale del Partito Repubblicano, molti dei quali veterani delle amministrazioni Bush, firmare una lettera aperta minacciando che, se Trump viene nominato, diserteranno e alcuni passerebbero a Hillary Clinton! “Hillary è il male minore, con ampio margine“, dice Eliot Cohen del dipartimento di Stato di Bush II. Cohen aiuta i neocon a firmare il manifesto “Dump-Trump”. Un altro firmatario, l’ultra-conservatore autore di politica estera Robert Kagan, dichiara: “L’unica scelta sarà votare per Hillary Clinton“. (7) L’unica scelta? Cosa c’è di sbagliato in Bernie Sanders o Jill Stein, il candidato del Partito Verde?… Oh, capisco, non sono abbastanza conservatori.
E Trump? Molto più di un critico della politica estera degli Stati Uniti di Hillary o Bernie. Parla di Russia e Vladimir Putin come forze positive e alleate, e vi sarebbero assai meno probabilità di entrare in guerra contro Mosca che non con Clinton. Dichiara che sarebbe “imparziale” nel risolvere il conflitto israelo-palestinese (al contrario del sostegno illimitato di Clinton ad Israele). S’è opposto a chiamare il senatore John McCain “eroe” perché fu catturato. (Quale altro politico oserebbe dire una cosa del genere?) Definisce l’Iraq “un completo disastro”, condannando non solo George W. Bush, ma i neocon che lo circondavano. “Hanno mentito. Hanno detto che c’erano armi di distruzione di massa e non c’erano. E sapevano che non ce n’erano. Non c’erano armi di distruzione di massa“. Ed alla domanda se “Bush ci ha tenuti al sicuro”, risponde che “Che piacesse o no Saddam, uccideva i terroristi“. Sì, è personalmente antipatico. Avrei avuto molta difficoltà ad essergli amico. Ma che importa?

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Il motto della CIA: “Orgogliosamente tentiamo di rovesciare il governo cubano dal 1959

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Ora cosa? Forse si pensa che gli Stati Uniti siano finalmente cresciuti capendo che possono in realtà condividere l’emisfero col popolo di Cuba, accettando la società cubana senza discuterla come fa col Canada? Il Washington Post (18 febbraio) riferiva: “Nelle ultime settimane, i funzionari dell’amministrazione hanno chiarito che Obama si recherà a Cuba solo se il suo governo fa ulteriori concessioni nei diritti umani, accesso ad internet e liberalizzazione del mercato“. Immaginate se Cuba insistesse sul fatto che gli Stati Uniti facciano “concessioni sui diritti umani”; questo potrebbe significare che gli Stati Uniti s’impegnino a non ripetere roba come questa:
Invadere Cuba nel 1961 con la Baia dei Porci.
Invadere Grenada nel 1983 e uccidere 84 cubani, principalmente operai edili.
Far esplodere un aereo passeggeri cubano nel 1976. (Nel 1983, la città di Miami tenne una giornata in onore di Orlando Bosch, una delle due menti dell’atto terribile, l’altro autore, Luis Posada, è protetto a vita nella stessa città)
Dare agli esuli cubani, per usarlo, il virus della peste suina africana, costringendo il governo cubano a macellarne 500000.
Infettare i tacchini cubani con un virus che produce la fatale malattia di Newcastle, provocandone la morte di 8000.
Nel 1981 un’epidemia di febbre emorragica dengue afflisse l’isola, la prima grande epidemia di DHF mai avutasi in America. Gli Stati Uniti da tempo ne sperimentavano l’utilizzo come arma. Cuba chiese agli Stati Uniti il pesticida per debellare la zanzara responsabile, ma non l’ebbe. Oltre 300000 casi furono segnalati a Cuba con 158 decessi.
Questi sono solo tre esempi della pluridecennale guerra chimica e biologica (CBW) della CIA contro Cuba. (8) Dobbiamo ricordare che il cibo è un diritto umano (anche se gli Stati Uniti l’hanno ripetutamente negato) (9). Il blocco di Washington su beni e denaro per Cuba è ancora forte, un blocco che il consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Clinton, Sandy Berger, nel 1997 definì “le sanzioni più pervasive mai imposte a una nazione nella storia del genere umano”. (10) Tentò di assassinare il Presidente cubano Fidel Castro in numerose occasioni, non solo a Cuba, ma a Panama, Repubblica Dominicana e Venezuela (11). Con un piano dopo l’altro negli ultimi anni, l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (AID) di Washington cercò di provocare il dissenso a Cuba e/o di fomentare la ribellione, con l’obiettivo finale del cambio di regime. Nel 1999 una causa cubana chiese 181,1 miliardi di risarcimento agli Stati Uniti per morte e ferimento di cittadini cubani in quattro decenni di “guerra” di Washington contro Cuba. Cuba chiese 30 milioni in risarcimento diretto per ciascuna delle 3478 persone che dice furono uccise dalle azioni degli Stati Uniti e 15 milioni ciascuno per i 2099 feriti, ha anche chiesto 10 milioni per ciascuna delle persone uccise e 5 milioni per ciascuno dei feriti, per ripagare la società cubana dei costi che ha dovuto subire. Inutile dire che gli Stati Uniti non hanno pagato un centesimo.
Una delle critiche yankee più comuni allo stato dei diritti umani a Cuba era l’arresto di dissidenti (anche se la grande maggioranza fu rapidamente rilasciata). Ma molte migliaia di manifestanti anti-guerra ed altri furono arrestati negli Stati Uniti negli ultimi anni, come in ogni momento della storia statunitense. Durante il movimento Occupy, iniziato nel 2011, più di 7000 persone furono arrestate il primo anno, molte furono picchiate dalla polizia e maltrattate durante la detenzione, i loro gazebo e librerie fatti a pezzi (12); il movimento Occupy continuò fino al 2014; così il dato di 7000 è un eufemismo). Inoltre, va ricordato che con tutte le restrizioni alle libertà civili che vi possano essere a Cuba, rientrano in un contesto particolare: la nazione più potente nella storia del mondo è a sole 90 miglia di distanza ed ha giurato, con veemenza e ripetutamente, di rovesciare il governo cubano. Se gli Stati Uniti erano semplicemente e sinceramente interessati a fare di Cuba una società meno restrittiva, la politica di Washington sarebbe chiara:
– Fermare i lupi, i lupi della CIA, i lupi dell’AID, i lupi ruba-medicine, i lupi ladri di giocatori di baseball.
– Pubblicamente e sinceramente (se i capi statunitensi ricordano ancora cosa significa questa parola) rinunciare ad utilizzare CBW e agli omicidi. E chiedere scusa.
– Cessare l’incessante ipocrita propaganda, sulle elezioni, per esempio. (Sì, è vero che le elezioni cubane non hanno Donald Trump o Hillary Clinton, né dieci miliardi di dollari, e neanche 24 ore di pubblicità, ma non è un motivo per ignorarle?)
– Pagare le compensazioni, molte.
– Sine qua non, la fine del blocco demoniaco.
Per tutto il periodo della rivoluzione cubana, dal 1959 ad oggi, l’America Latina ha assistito a una terribile sfilata di violazioni dei diritti umani, torture sistematiche; legioni di “scomparsi”; squadroni della morte sostenuti dal governo che uccidevano individui prescelti; stragi di contadini, studenti e altri. I peggiori autori di tali atti in quel periodo furono le squadre paramilitari e associate ai militari di El Salvador, Guatemala, Brasile, Argentina, Cile, Colombia, Perù, Messico, Uruguay, Haiti e Honduras. Tuttavia, neppure i peggiori nemici di Cuba accusano il governo dell’Avana di simili violazioni; e se si considera istruzione e sanità, “entrambi”, ha detto il presidente Bill Clinton, “funzionano meglio (a Cuba) che nella maggior parte degli altri Paesi” (13), garantiti da “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” delle Nazioni Unite e dalla “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, sembrerebbe che in oltre mezzo secolo di rivoluzione, Cuba ha goduto delle migliori condizioni sui diritti umani in tutta l’America Latina. Ma mai abbastanza buono per i capi statunitensi per parlarne in alcun modo; la citazione di Bill Clinton è un’eccezione in effetti. E’ una decisione difficile normalizzare le relazioni con un Paese la cui polizia uccide i propri civili inermi quasi quotidianamente. Ma Cuba deve farlo. Forse può civilizzare un po’ gli statunitensi, o almeno ricordargli che per più di un secolo furono i massimi torturatori al mondo.

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Note

1. “Libia: transizione e politica degli Stati Uniti“, 4 marzo 2016
2. New York Times, 28 febbraio 2016
3. Mark Weisbrot, “La Top Ten dei modi con sui si può dire da che parte il governo degli Stati Uniti si è attivato sul colpo di Stato militare in Honduras“, Common Dreams, 16 dicembre 2009
4. Roger Morris, ex-membro del Consiglio Nazionale di Sicurezza, Partners in Power (1996), p.415. 5. Per una panoramica completa su Hillary Clinton, vedasi il nuovo libro di Diane Johnstone, Queen of Chaos.
6. National Review, 1 maggio 2007
7. Fortune, 9 luglio 2007
8. Patrick J. Buchanan, “Gli oligarchi uccideranno Trump?“, Creators, 8 marzo 2016
9. William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti. Guida all’unica superpotenza del mondo (2005), capitolo 14
10. Ibid., p.264
11. Casa Bianca, conferenza stampa, 14 novembre 1997, US Newswire
12. Fabian Escalante, Azione esecutiva: 634 modi per uccidere Fidel Castro (2006), Ocean Press (Australia)
13. Huffington Post, 3 maggio 2012
14. Miami Herald, 17 ottobre 1997, p. 22A
Ogni parte dell’articolo può essere diffuso senza autorizzazione, a condizione dell’attribuzione a William Blum e di un link a Williamblum.org.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

William Blum - 11 marzo 2016

11/03/16

Sapete di cosa discute il Palazzo mentre l’Italia annaspa nelle emergenze?



Siamo in prima linea su profughi, crisi Libica, crollo demografico. Camera e Senato però si occupano di unioni civili e varie proposte in tema di eutanasia e droghe “leggere”


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Solo per capire se siamo pazzi. Tutti segnalano che stiamo vivendo il momento più difficile per l’Unione Europea da quando è stata istituita. Tra le prime ragioni di implosione è la drammatica incapacità di gestire l’emergenza immigrazione: sono bastati 300 mila profughi provenienti in larga parte dalla Turchia per mettere in crisi la scorsa estate una realtà di 500 milioni di persone, per renderne evidenti le divisioni interne, per certificare la mancata individuazione di soluzioni. Su questo fronte è superfluo ricordare che l’Italia, come la Grecia, è in prima linea; e lo sarà ancora di più se nel giro di poche settimane gli Stati balcanici sigilleranno i confini meridionali e orientali.Tutti concordano che quanto accade oggi in Libia non ha eguali in altri paesi sovvertiti dalle cosiddette primavere del 2011. La frammentazione è tale da far coniare neologismi, non essendo più sufficiente il termine di balcanizzazione. Pure sul fronte libico è l’Italia a correre i rischi più gravi: per la ramificata presenza dell’Eni, per il rilievo che quel territorio ha sul nostro fabbisogno energetico, per le poche miglia marine che ci separano da esso in linea d’aria, perché la sua costa è il luogo di partenza via mare di coloro che puntano ad arrivare da noi, per l’assoluta inadeguatezza della nostra presenza sul posto (come attesta l’epilogo del rapimento dei quattro tecnici nostri connazionali).
Sul fronte interno, non ha ancora avuto una spiegazione l’incredibile sbilancio dei 110 mila morti in più registrati fra il 2015 e il 2014: soprattutto non ha ricevuto la più flebile attenzione politica, come se si fosse trattato di uno scroscio di pioggia; eppure l’interrogativo sulla condizione del nostro welfare (in particolare sanitario) è ineludibile vista la consistenza del dato, che affianca quelli riguardanti il crollo dei matrimoni e delle nascite.
Sarebbero sufficienti queste voci – ce ne sono tante altre, dalla sicurezza alla giustizia – per giustificare settimane di intenso impegno del parlamento, teso alla più adeguata analisi, allo studio delle cause, al confronto tra le forze politiche per individuare soluzioni efficaci. Passiamo in rassegna l’ordine del giorno della Camera e del Senato: non rintracciamo nulla, neanche una informativa del governo o una sottospecie di mozione, che evochi da lontano qualcuna delle voci accennate. Troviamo invece, alla Commissione Giustizia della Camera, iscritti per la trattazione, il ddl sulle unioni civili e varie proposte in tema di eutanasia; al Senato sta per avviarsi la discussione di un ddl che reca numerosissime firme, e che punta alla legalizzazione delle droghe cosiddette leggere. L’intenzione di andare avanti su questi tre fronti è concreta; per il ddl Cirinnà i tempi di esame si prospettano brevi: l’onorevole Micaela Campana non ha mancato di notare nella sua relazione come, nonostante la formale eliminazione della stepchild adoption, «l’attuale formulazione fa salva la giurisprudenza in merito che consente ai giudici, dopo una valutazione caso per caso, di poter concedere l’adozione anche al genitore sociale per i bambini che sono presenti nelle coppie omosessuali». Alla faccia di chi ha vantato come un successo lo stralcio dell’adozione!
Se dall’esterno qualcuno mettesse a confronto le emergenze reali dell’Italia e quelle che sono ritenute priorità dal parlamento e dal governo sarebbe logico che si chiedesse quale grave sindrome di distacco dalla realtà ha colpito le nostre istituzioni. Appare materia più da esorcista che da medico, visto il filo conduttore profondamente antiumano, di fatto diabolico, che lega le materie in discussione nelle aule parlamentari col sostegno di Palazzo Chigi. Ma noi non siamo spettatori esterni; siamo parti della tragedia in corso. Noi, come i milioni di famiglie che per due volte, il 20 giugno 2015 e il 30 gennaio scorso, hanno riempito le più grandi piazze del paese, patiamo l’assenza nelle istituzioni di chi si fa portavoce del buon senso e dei problemi concreti. Questa esigenza deve trovare seguito, non improvvisato né isolato. Serve il parto di una rappresentanza coerente con le necessità dell’Italia di oggi. Un parto, non un aborto.
Foto Ansa


Alfredo Mantovano - 11 marzo 2016
 

10/03/16

Il risiko della Libia: un presente (e un futuro) da decifrare

 

Bernardino Leon, U.N. special envoy for Libya, attends a meeting with members of the Libyan General National Congress in Tripoli 

A chi interessa la giungla libica, divisa e percorsa da guerre intestine, con due governi, che però non spaventa tanto quanto attira il suo petrolio? La risposta è: a tanti. All’Italia, che con la Libia ha un rapporto particolare (contiamo tanto da suscitare fastidio tra gli alleati europei), alla Francia, alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. E poi al mondo arabo, all’Egitto, e al Qatar e agli Emirati, che giocano a Risiko coi loro soldi e i morti degli altri. Roma intrattiene rapporti con Tripoli da sempre, e le relazioni si sono intensificate dal 1988, quando tra la Libia e l’Occidente calò il gelo dopo l’abbattimento del volo Pan Am sui cieli della Scozia. L’Italia è rimasta costantemente legata alla nazione nordafricana, per retaggio coloniale e per interessi strategici, ben curati dal triangolo Eni, Enel e Saipem. Al contrario di quel che si pensa, l’Italia sa che cosa accade in Libia, molto meglio d’altri. Gli uomini dei servizi, che proteggono i lavoratori italiani sul terreno libico, svolgono una vitale azione d’intelligence per il nostro Paese. L’attuale capo dei servizi segreti della Repubblica italiana, Alberto Manenti, in Libia ci è nato.

La Libia è una miniera d’oro, che sforna il 38% del petrolio dell’Africa, che corrisponde all’11% dei consumi europei. A estrarre questo petrolio, a largo di Zuwarah, nell’est del Paese, c’è solo Eni. E questo agli alleati europei non va affatto bene. Non aggrada alla Francia, che ha avviato una conquista un po’ velata, quasi segreta, con le sue truppe speciali sul territorio libico da mesi, come ha rivelato Le Monde la scorsa settimana, suscitando l’ira dei vertici della difesa. In realtà, l’invidia d’oltralpe per la capillare e storica presenza italiana sul territorio libico è nota. Da quando Gheddafi impiantò la sua tenda nel cortile dell’Eliseo, nell’inverno 2007, sino al fragoroso intervento di Sarkozy, appoggiato da Cameron, il 19 marzo 2011, il passo è breve. E ora sappiamo, grazie alle prove emerse dal server dell’account mail dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton, che cos’accadde davvero. Sarkozy inviò i suoi Rafale in Libia, senza neanche farci una telefonata, perché era intenzione di Gheddafi istituire una nuova valuta panafricana per tutti gli Stati filo-francesi del Sahel, compromettendo così Parigi, dove le ex colonie detengono il 65% delle loro riserve valutarie. Insomma ognuno fa i suoi interessi in Libia, da anni. Ma quel che si profila all’orizzonte per l’Italia ha tutta l’aria d’essere un “andate avanti voi”, una spinta, un incoraggiamento dietro le quinte. La conferma è la quantomeno inopportuna intervista dell’ambasciatore USA in Italia pubblicata dal Corriere della Sera. Phillips parla di un invio di 5 mila uomini italiani sul terreno. Frasi smentite da Palazzo Chigi, per quel che può contare. Ma la tendenza c’è, il terreno è pronto, e la Tripolitania ci aspetta.

Con le sue ricchezze energetiche la Libia vale 130 miliardi di dollari ora, e tre o quattro volte di più se tornasse ai livelli dell’èra Gheddafi, quando aveva l’indice di sviluppo umano ONU più alto di tutta l’Africa. È comprensibile che Francia e Gran Bretagna non vogliano lasciare tutto a noi. Per questo sono già sul terreno, la Gran Bretagna in Cirenaica e la Francia nel Fezzan, parte del suo Sahel, da mesi con truppe speciali e in gran segreto. Ci aspettano, perché non vogliono certo fare il lavoro sporco da sole. Il progetto è delineato, si punta alla creazione di uno Stato confederale, fatto dalle tre principali regioni divise tra Italia, Gran Bretagna e Francia, per spartirsi il controllo sulle risorse energetiche e lo spazio geopolitico. A noi la Tripolitania, agli inglesi la Cirenaica e ai francesi, naturalmente, il Fezzan. Nei pozzi, insieme all’Eni, la Francia vuole Total, Londra invece BP e Shell. (Fonte cartina: Il Sole 24ore).

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Nel frattempo, il mondo arabo gioca la sua partita. Al-Sissi supporta il generale Haftar, padre padrone della Libia orientale, rappresentante del governo di Tobruk (internazionalmente riconosciuto) ed ex condottiero di Gheddafi in Africa. Oltre al Cairo c’è il Qatar, che incanta coi suoi dollari gli islamisti di Tripoli, e gli Emirati, che hanno comprato l’appoggio dell’inviato ONU Bernardino Léon verso il governo di Tobruk. Questo disegno complicato, cui si aggiunge la Turchia, che dalla Siria ha rimandato i jihadisti in Libia, non tiene conto di diversi fattori. Primo, i libici. Il popolo libico è fatto di tribù, uomini che si combattono tra loro strenuamente, ma che impiegherebbero un secondo a rivoltarsi contro qualsiasi potenza straniera che tenti d’impossessarsi delle loro ricchezze. Secondo, l’ISIS. Il Califfato sguazza nel pantano libico, guadagna terreno alle porte dell’Europa, combatte contro una stremata ma gloriosa Tunisia, che difende in queste ore la sua democrazia a Ben Guerdane, ultima città prima dell’inferno libico. Terzo fattore, ma non meno importante, gli altri attori regionali. Oltre alla Tunisia, ci sono l’Algeria, il Marocco e gli altri Stati del Sahel. L’ex colonia francese, guidata dall’ottuagenario presidente Bouteflika, può saltare da un momento all’altro sotto le pressioni dell’instabile vicino libico. Non coinvolgere il Marocco in un’eventuale risoluzione del conflitto libico sarebbe poco saggio.
Da ultimo, gli Stati dell’area del Sahara sono estremamente instabili; una divisione della Libia in tre regioni provocherebbe implicite alleanze tra queste e le nazioni vicine, per motivi di protezione. Un Fezzan allo sbaraglio, anche se pieno di truppe francesi, è il più potenziale bacino di sfogo per Boko Haram, che aumenta la sua mortale presenza in Niger, con cui la regione del Fezzan confina. I disegni di spartizione porterebbero sì al quadruplo delle ricchezze d’ora in Libia, ma anche a un canale privilegiato del terrorismo, una fascia diretta che viaggia nel deserto, tra Califfato nero a jihadisti del Sahel. Non si può concepire scenario peggiore.
Tutto questo non significa che l’Italia, attore con interessi strategici enormi in Libia, tanto quanto la sua esposizione al pericolo terrorismo, debba stare ferma a guardare. L’abbiamo fatto nel 2011, e non è andata bene. Un qualsiasi intervento dovrà essere estremamente ponderato, valutato nei suoi costi, pensato nel suo significato, concordato con le Nazioni Unite e con interlocutori ufficiali in Libia. Dobbiamo difendere i nostri interessi, i nostri connazionali (basti pensare ciò che è successo a due di loro pochi giorni fa) e soprattutto il Paese, esposto enormemente al jihadismo attraverso le migrazioni dalla Libia. Però non bisogna cadere nella trappola (perché tale è) dell’invio di truppe da soli, allo sbaraglio, con Parigi e Londra che guardano da altre sponde.
La Libia non è la Siria. Lì ognuno combatte per un ideale, chi per l’ipotetica gloria del suo Dio, chi per un’agognata rivoluzione, chi per Assad. In Libia non c’è ideale, c’è l’inferno, il caos delle fazioni, che trovano ragione delle loro lotte solo nella ricchezza che quell’oro nero, che sgorga dai deserti bollenti, gli dona.

di Luca Orfanò - 10 marzo 2016

fonte: http://thefielder.net


Le opzioni per un intervento italiano in Libia



Voci, indiscrezioni e qualche notizia concreta consentono di ipotizzare quale potrebbe essere l’impegno militare italiano in una eventuale operazione in Libia. Operazione internazionale ma a guida italiana su cui premono (pure troppo !) gli Stati Uniti ma che per Roma non è attuabile finché non si concretizzeranno i prerequisiti richiesti per dare il via al dispiegamento di una missione di stabilizzazione e cioè la nascita e l’insediamento a Tripoli del governo di salvezza nazionale guidato da Fayez al-Sarraj. Ipotesi che appaiono oggi piuttosto remote.
I piani elaborati dal Comando Operativo di Vertice interforze contemplano diverse opzioni, in base allo sviluppo degli eventi, anche se nessuna decisione sia stata finora presa dal vertice politico.
Le forze navali già in campo con l’Operazione Mare Sicuro includono una mezza dozzina di navi, fucilieri di Marina e forze speciali (circa mille effettivi) destinati a proteggere le piattaforme off-shore ed eventualmente del terminal del gasdotto Greenstream di Melitha, a ovest di Tripoli.

 

Qualora il governo di al-Sarraj riuscisse a nascere con il supporto di tutte le fazioni libiche e a chiedere l’intervento  internazionale, l’Italia potrebbe assumere la guida di una missione di stabilizzazione approvata dalle Nazioni Unite ponendovi al vertice un generale di corpo d’armata.
La missione, che dovrebbe prendere il nome di Lybian International Assistance Mission (LIAM), verrebbe strutturata su più componenti con l’obiettivo di fornire sicurezza ad alcune aree e infrastrutture strategiche (come pozzi e terminal di gas e petrolio, sedi istituzionali e infrastrutture strategiche) oltre ad assicurare istruttori e consiglieri militari alle forze libiche che dovranno combattere lo Stato Islamico.

 

L’Italia è in grado di trasferire in Libia il comando della Divisione Acqui come quartier generale multinazionale. Si tratta di un comando costituito e preparato proprio per essere proiettabile ma per l’eventuale operazione in Libia pare metterebbe a disposizione solo i suoi veicoli e le strutture campali poiché il personale verrebbe probabilmente fornito dalla Divisione Friuli che non dispone di strutture per schierarsi all’estero e in Italia ha alle sue dipendenze le brigate Ariete, Friuli e Pozzuolo del Friuli.
Si tratta delle brigate che sembrano destinate a fornire contributi al contingente il cui grosso sarà probabilmente costituito dalla brigata paracadutisti Folgore e dai fucilieri di Marina della brigata San Marco oltrte ai consueti assetti di forze speciali.

 

Lo staff della Divisione Friuli si è del resto recentemente addestrato a Bracciano (esercitazione per posti comando Pegaus) simulando uno scenario “reso sempre più reale e aderente ai contesti operativi attuali”, come recita un comunicato pubblicato sul sito dell’Esercito.
Tra i mezzi non è certo vi siano limitate forze corazzate e d’artiglieria ma sarebbero previsti elicotteri multiruolo  NH-90, da trasporto CH-47 e da attacco AW-129D Mangusta.
Alla forza terrestre sono pronte a partecipare anche unità britanniche (con alcune posizioni loro assegnate nel comando) e tedeschi che vorrebbero schierare istruttori in Tunisia per addestrare le forze libiche.  Londra sta inoltre inviando in Tunisia 20 consiglieri militari per migliorare il controllo della frontiera libica attraversato dai miliziani dello Stato Islamico men te anche la Francia potrebbe essere della partita

 

La componente aerea potrebbe venire basata inizialmente a Trapani per poi trasferirsi eventualmente in un aeroporto libico ritenuto sicuro mettendo in campo aerei cargo C-130, velivoli teleguidati Predator e Reaper oltre a cacciabombardieri AMX  (4 sono già stati rischierati a Trapani per ogni evenienza) e Tornado da impiegare per compiti di ricognizione anche sui territori controllati dallo Stato Islamico.
La componente navale della LIAM verrebbe probabilmente assicurata inglobando la missione italiana Mare Sicuro e quella europea Eunavfor Med (già a comando italiano), nata per contrastare i trafficanti di immigrati clandestini ma che finora è risultata piuttosto inconcludente anche perché non è autorizzata a operare nelle acque libiche. Nel complesso l’Italia potrebbe mettere in campo da 3 a 5 mila uomini (per lo più dell’Esercito ma con componenti di Marina, Aeronautica e Carabinieri).

 

La determinazione di Roma di evitare il coinvolgimento in operazioni belliche contro lo Stato Islamico rappresenta però un limite alle ambizioni di guidare la missione internazionale ma potrebbe venire aggirata separando nettamente la LIAM dalle forze da combattimento che singoli Stati volessero mettere in campo.
Già ora le forze speciali francesi, britanniche, statunitensi e egiziane presenti in Libia rispondono a comandi nazionali. Una missione di stabilizzazione e una di combattimento,  come è già accaduto nei primi anni dell’intervento della NATO in Afghanistan quando la missione Isaf non aveva compiti di combattimento assegnati invece all’operazione “parallela” statunitense Enduring Freedom.
Nel 2011, in Libia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti mantennero forze da combattimento aeree, terrestri e navali sotto il comando nazionale che operavano in modo autonomo dal comando NATO di Napoli.
Differenziando compiti e missioni l’Italia avrebbe il suo “posto al sole” ma francesi, britannici, egiziani e statunitensi manterrebbero mano libera per operazioni militari tese a perseguire interessi nazionali, non necessariamente coincidenti con quelli italiani.

 

Non si può del resto escludere che il fallimento del governo di al-Sarraj induca gli alleati a scatenare un’operazione militare contro lo Stato Islamico in Libia anche senza “l’invito” di un governo locale. In tal caso l’Italia dovrebbe scegliere se chiamarsi fuori o partecipare alle operazioni ma, come nel 2011, con un ruolo che difficilmente sarebbe di leader.
In tal caso Roma potrebbe mettere in campo le forze d’élite, qualche centinaio di uomini per colpi di mano e incursioni dal mare e dal cielo, appoggiati dalle navi già oggi assegnate a Mare Sicuro e da una forza aerea di almeno una quindicina di velivoli tra AMX, Tornado ed elicotteri da attacco Mangusta:  un dispositivo non dissimile da quello attivato nel 2011 per le operazioni contro le forze di Gheddafi.
(con fonte Il Mattino)

di Gianandrea Gaiani - 5 marzo 2016,
fonte: http://www.analisidifesa.it

Gianandrea GaianiGianandrea Gaiani

Giornalista nato nel 1963 a Bologna, dove si è laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 ha collaborato con numerose testate occupandosi di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportages dai teatri di guerra. Attualmente collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Foglio, Libero, Il Corriere del Ticino e con il settimanale Panorama sul sito del quale cura il blog “War Games”. Dal febbraio 2000 è direttore responsabile di Analisi Difesa. Ha scritto Iraq Afghanistan - Guerre di pace italiane.

09/03/16

Se l’omicidio è gay, va detto. Per dovere di cronaca


luca varani 

Di solito non mi occupo di fatti di cronaca, però in questo caso faccio un’eccezione e mi riferisco al terribile omicidio di Luca Varani. La versione che è stata diffusa all’inizio e che ha creato enorme sensazione è quella che il ragazzo sia stato ucciso da Manuel Foffo e Marco Prato “per vedere l’effetto che fa”. Col passare delle ore però sono emersi altri aspetti tutt’altro che secondari.
I due omicidi non erano semplici amici, erano gay. Ma non tutti i giornali lo hanno scritto. Non tutti i giornali hanno scritto che facevano pesante uso di stupefacenti, di cocaina e di GHB meglio nota come la droga dello stupro. Non tutti i giornali hanno scritto che la vittima avrebbe accettato un incontro omosessuale in cambio di 100 euro.
Soprattutto Repubblica ha brillato per ipocrisia e omissioni. Non una riga su questi aspetti. Ma perchè? Perchè non raccontare tutti i dettagli raccolti dai cronisti sulla base di testimonianze e delle solite confidenze degli inquirenti?
Il Corriere della Sera, ad esempio, ha raccontato tutto e nei toni giusti. Repubblica invece no. E chi lo ha denunciato per primo, come Mario Adinolfi, è stato sommerso da critiche e insulti.


adinolfi


Il Fatto Quotidiano ha ripreso le sue denunce ma in modo davvero subdolo, usando tecniche ben note agli esperti di comunicazione, ad esempio facendo notare nel sommario dell’articolo che Adinolfi è l’ideatore del movimento No Gender nelle scuole ma è “un giocatore professionista di poker” e sin dalle prime righe dell’articolo che è uno degli animatori del Family Day, ma si è risposato a Las Vegas; insomma mettendo in dubbio implicitamente la credibilità dell’autore. Tecnica subdola ma sempre molto efficace, che mira a far sorgere nel lettore il pensiero: “Ah, ma è Adinolfi, un retrogrado”. Dunque, qualunque cosa scriva non ha legittimità.
Il problema è che ci troviamo di fronte agli eccessi del “politicamente corretto” che sfocia nel pensiero unico e settario. Qui non si tratta di criminalizzare i gay (ci mancherebbe altro!) ma di adempiere fino in fondo al proprio dovere di cronaca. Se questo omicidio fosse maturato sulo sfondo di relazioni eterosessuali, magari per gelosia, anche “Repubblica” avrebbe pubblicato tutto e con dovizia di dettagli. Invece in questo caso ha preferito l’omissione, totale, per ragioni fin troppo ovvie, evidenziando così un paradosso della nostra epoca. I gay, fortunatamente, possono vivere la propria sessualità senza più nascondersi e con ampia, diffusa accettazione da parte della popolazione. E’ una conquista civile, che comporta inevitabilmente anche parità di trattamento mediatico in casi drammatici di cronaca come quello di Roma.
Dovrebbe essere un requisito normale in una società libera e rispettosa. E di una stampa davvero oggettiva, davvero libera. Anche dai propri pregiudizi che sfociano in un’ingiustificata censura. 


Libia, Egitto e altre operazioni nel Mediterraneo



Confusione strategica in Libia
Lo Stato islamico in Libia, presente a Sirte, Sabratha al confine con la Tunisia, e presso Derna dalla seconda metà del 2015, quando lo SI iniziava a tentare di occupare o distruggere le stazioni petrolifere di Mabruq, Dahra, Ghani e Bahi, allo scopo “di danneggiare l’ancora di salvezza economica del Paese per indebolire lo Stato e così i Paesi europei fortemente dipendenti dal petrolio libico”. Lo Stato islamico si diffondeva in Libia, occupando Sirte e assorbendo Ansar al-Sharia, filiale di al-Qaida, controllando 125 km di coste libiche, combattendo a Bengasi e Derna e cercando di occupare Aghedabia, snodo dei collegamenti tra i porti e i giacimenti di gas e petrolio. Lo Stato islamico aveva circa 3000 combattenti in Libia. L’11 dicembre, il primo ministro francese Manuel Valls invocava sforzi internazionali per schiacciare lo SI che si estendeva sul Paese nordafricano, “Siamo in guerra. Abbiamo un nemico che dobbiamo combattere e schiacciare in Siria, Iraq e presto Libia”. A novembre, gli statunitensi avevano bombardato Derna, cercando di uccidere un capo dello SI.
Il 16 dicembre i parlamenti di Tripoli e Tobruq firmavano un accordo a Sqirat, in Marocco, sponsorizzato da ONU, Qatar, Turchia, Italia, Spagna, Marocco e Tunisia, per la formazione di un governo di unità nazionale, un Consiglio di Presidenza, una Camera dei Rappresentanti ed un Consiglio di Stato. A Roma, il 13 dicembre, si erano incontrati su questo tema i rappresentanti di Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina, Francia, Germania, Spagna, Algeria, Ciad, Marocco, Niger, Qatar, Tunisia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti. Ma su 156 parlamentari di Tobruq, solo 90 firmavano l’accordo, mentre dei 136 di Tripoli, espressione della fratellanza musulmana, poco più della metà, 69, l’approvava. I contrari erano appoggiati da Abdalhaqim Belhadj il capo del Gruppo Islamico Combattente Libico, dal Consiglio della Shura dei Mujahidin di Derna, e dalle milizie salafite filo-turche di Misurata; mentre Haftar, capo dell’esercito di Tobruq, definiva i negoziati “una perdita di tempo”, in ciò sostenuto da Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Secondo il cugino del defunto leader libico Muammar Gheddafi, Ahmad al-Dam Gaddafi, enormi quantità di gas Sarin furono sequestrate e inviate a Tripoli dai terroristi dello SI. Al-Dam aveva detto che i terroristi avevano già utilizzato il Sarin in Libia nel 2014, ma “ciò fu trascurato dalla comunità mondiale“. Il 14 dicembre un commando di 20 soldati degli Stati Uniti, in missione segreta in Libia, giungeva nella base aerea di Watiyah, ma si ritirava su pressione dei comandanti locali, avendogli negato il permesso di usare la base aerea. I 20 soldati erano sbarcati “in stato di prontezza al combattimento indossando giubbotti antiproiettile e armi avanzate“. Watiyah è vicina a Sabratha, la base più occidentale dello Stato Islamico in Libia. Nelle settimane precedenti, velivoli da ricognizione francesi e statunitensi avevano sorvolato Sabratha, Sirte, Bengasi e Derna. Una dichiarazione del Pentagono diceva: “Con il concorso di funzionari libici, militari statunitensi si erano recati in Libia il 14 dicembre per impegnarsi nel dialogo con i rappresentanti dell’Esercito Nazionale Libico. Mentre erano in Libia, i membri di una milizia locale hanno chiesto che il personale degli Stati Uniti se ne andasse. Nel tentativo di evitare il conflitto è partito senza incidenti”.
Secondo un autore di Foreign Affairs, Joseph Micallef, “La Libia ha sempre un posto di rilievo nei piani d’espansione dello Stato islamico. Le prime tre province straniere dello Stato islamico sono tutte in Libia. Il 13 novembre 2014, Abu Baqr al-Baghdadi annunciava la creazione di tre nuovi wilayat o province dello Stato islamico, in Libia (Wilayat al-Barqah, Wilayat al-Tarabulus e Wilayat al-Fizan). I tre wilayat corrispondevano alle tre regioni storiche della Libia (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan). Nelle ultime settimane vi sono state indicazioni che la città libica di Sirte diverrebbe la nuova capitale dello Stato Islamico se Raqqa dovesse cadere in mano alle forze anti-SIIL“. Nel frattempo, la Francia aveva dispiegato 3500 soldati in una nuova base, a 45 km dal confine meridionale con la Libia. Secondo The Guardian, “funzionari occidentali si attivano per ottenere l’autorizzazione per attacchi aerei sulla Libia nei prossimi giorni, prima che lo Stato islamico catturi l’importante città di Aghedabia, porta di accesso alla ricchezza petrolifera del Paese. Aspri combattimenti infuriano in città, che si trova su un altopiano roccioso che domina i porti petroliferi orientali. La sua cattura darà allo SI il comando del bacino di Sirte, che ospita la maggior parte dei giacimenti petroliferi della Libia. Jet statunitensi, inglesi e francesi sono in stand-by per colpire dalle basi nel Mediterraneo, con droni e aerei da ricognizione già in volo. Forze speciali statunitensi sono nel deserto libico, con un’unità inavvertitamente fotografata nella base aerea occidentale di al-Watiyah, la scorsa settimana. … F-15 statunitensi avevano bombardato una riunione di al-Qaida ad Aghedabia, a luglio, partendo dalle basi in Italia. Tornado e Typhoon della RAF a Cipro, assegnati ai bombardamenti in Siria, possono essere rivolti a sud con rifornimenti in volo dalle aerocisterne. Aerei da ricognizione francesi sorvolano le basi dello SI e forze speciali degli Stati Uniti incrociano nella regione”. Gli Stati Uniti perseguivano gli sforzi per aumentare la presenza militare del Comando Africa (AFRICOM), con migliaia di truppe, la costruzione di basi e di piste aeree, operazioni di raccolta delle informazioni e la formazione di partnership con regimi locali.
Il 6 gennaio, un convoglio di 12 veicoli del SI tentava di occupare Ras Lanuf, venendo respinto dalle Guardie petrolifere, ma un deposito del terminal petrolifero di Sidra veniva distrutto da un’autobomba. Già il 4 gennaio, il SIIL aveva occupato Bin Jawad, 30km a ovest di Sirte, sulla strada dalla roccaforte di Sirte, da cui aveva organizzato gli attacchi ai porti petroliferi Sidra e Ras Lanuf, i più grandi della Libia, capaci di produrre 500000 barili di petrolio al giorno. La Libyan National Oil Company (NOC) aveva chiesto aiuto per affrontare lo Stato islamico, “siamo impotenti e non possiamo fare nulla contro la distruzione deliberata degli impianti petroliferi di Sidra e Ras Lanuf”. Sirte e 125 km di coste libiche erano controllate dallo SI. L’ONU chiedeva ai parlamenti di Tobruq e Tripoli di accettare l’accordo per condividere il potere, creando un governo di unità nazionale guidato dall’imprenditore Fayaz al-Saraj a Tripoli. Il Daily Mirror riferiva che team dello Special Reconnaissance Regiment delle SAS inglesi operavano in Libia preparando il terreno per l’invio di circa 1000 soldati inglesi, nell’ambito di un’operazione italo-anglo-francese, “Questa coalizione fornirà ampi mezzi di sorveglianza, per le operazioni contro lo Stato islamico che avanza ampiamente in Libia”. Sempre il 7 gennaio, lo Stato islamico compiva un attentato suicida contro un centro di addestramento della polizia di Zlitan, uccidendo 75 persone, il peggiore attentato dall’assassinio di Muammar Gheddafi nel 2011. Il 19 febbraio, 2 cacciabombardieri F-15E del 48.th Fighter Wing dell’US Air Force, decollati da Lakenheath nel Regno Unito, bombardavano la base dello Stato islamico nel quartiere Qasr Talil di Sabratha, uccidendo 49 persone. Il Ministro degli Esteri della Serbia dichiarava che l’attacco aveva ucciso Sladjana Stankovic e Jovica Stepic, impiegati dell’ambasciata serba rapiti l’8 novembre 2015 a Sabratha. “Purtroppo, in conseguenza di questo attacco allo Stato islamico in Libia, i due hanno perso la vita“.
A gennaio l’Italia s’impegnava a consentire ai droni armati statunitensi di decollare dalla base di Sigonella per intervenire contro lo SI in Libia. Nei 18 mesi precedenti Washington aveva ripetutamente richiesto all’Italia di effettuare operazioni sulla Libia con droni armati da Sigonella. Il governo italiano dichiarava che parteciperà ad operazioni militari in Libia solo su richiesta del governo libico legittimo. Dalla base dell‘US Navy di Sigonella, la Naval Air Station Sigonella, decollavano gli UAV statunitensi Reaper che effettuavano i raid contro lo Stato islamico in Libia. La base di Sigonella ospita la 12.th Special Purpose Marine Air-Ground Task Force dei Marines, il cui compito è addestrare e istruire le forze armate dei Paesi africani partner degli USA nella ‘Guerra al terrore’. Sigonella ospita 2000 militari statunitensi, velivoli da pattugliamento marittimo P-3C Orion, velivoli da trasporto C-130 Hercules, convertiplani V-22 Osprey, 3 UAV Global Hawk e 6 UAV Reaper. Secondo il Military Technical Agreement del 2006, che regolarizza le attività di Sigonella, ogni operazione va autorizzata dalle autorità italiane. I Global Hawk, presenti a Sigonella dal settembre 2010, sono droni da ricognizione strategica a lungo raggio, con un’apertura alare di 40 metri e un peso di 15 tonnellate, che volano alla quota operativa di 18000 m e con autonomia di oltre 24 ore. I Global Hawk sono dotati del radar AN/ZPY-2 MP-RTIP (Multi-Platform Radar Technology Insertion Program), con capacità GMTI (Ground Moving Target Indicator), per inseguire bersagli terrestri, e capacità SAR (Sintetic Aperture Radar), cioè mappare il terreno sorvolato con una risoluzione di 1 metro. Il velivolo può essere equipaggiato per l’intelligence elettronica (COMINT ed ELINT). Il Reaper, di stanza a Sigonella dal 2012, ha un peso massimo al decollo di oltre 4,6 tonnellate, un’apertura alare di 20 metri, ed ha un’autonomia di 14 ore e vola alla quota operativa di 8000 m. Il Reaper può trasportare 1,7 t di armi come missili aria-superficie Hellfire, bombe laserguidate e bombe a guida satellitare. Il velivolo è dotato del radar Lynx, con capacità SAR e GMTI, e di una gondola di puntamento e designazione obbiettivi dotata di videocamera agli infrarossi, TV, telemetro ed illuminatore laser per guidare missili e bombe. Nel frattempo, forze speciali francesi arrivavano nella base aerea di Benina, ad est di Bengasi, per sostenere il generale Qalifa Balqasim Haftar e le operazioni dell’LNA. Un centro operativo comune veniva istituito tra le forze libiche del generale Haftar, sotto il comando del colonnello Salim al-Abdali, ed unità del Commandement des Opérations Spéciales (COS) del 1.er Régiment de Parachutistes d’Infanterie de Marine, e agenti della Direction du Renseignement Militaire (DRM), ovvero l’intelligence dello Stato Maggiore delle Forze Armate francesi, ed unità del Service Action (SA), reparto armato della Direction des Opérations (DO), componente della Direction Générale de la Sécurité Extérieure (DGSE), l’intelligence estera francese dipendente direttamente dal Presidente della Repubblica francese. Al ritorno dagli Emirati Arabi Uniti, Haftar annunciava il rafforzamento delle operazioni militari e l’occupazione di Aghedabia e del porto di al-Muraysah. L’offensiva di Haftar contro Ansar al-Sharia e Fajir al-Libya era stata possibile con il supporto logistico dell’Egitto, che inviava al generale armi e combattenti zintani trasportati via aerea dal jabal al-Nafusa. Nel Fizan, nel frattempo, operavano le squadre da ricognizione francesi della base avanzata Madama nel Niger, nell’ambito dell’operazione Barkhane. Madama opsita 300 legionari francesi del 2.me REP (Régiment Étranger de Parachutistes), del 3.me RPIMa (Régiment de Parachutistes d’Infanterie de Marine), e delle forze speciali del 13.me Régiment de Dragons Parachutistes, supportati da elicotteri, aerei da trasporto e unità di genieri. Dal 2015 l’Aeronautica Militare francese rifornisce le milizie di Zintan nel jabal al-Nafusa.
A Sabratha, il 27 febbraio, le forze della LNA eliminavano 11 terroristi del SIIL. Mentre Ali Ramadan Abuzaquq, ministro degli Esteri del governo islamista di Tripoli, affermava che il suo governo sarebbe stato contento se l’Italia avesse guidato l’intervento in Libia, la Gran Bretagna inviava in Tunisia una squadra di 20 istruttori della 4.ta Brigata di fanteria. Il governo islamista di Tripoli contava sull’appoggio della coalizione Fajir al-Libya e dell’Unione dei Rivoluzionari di Misurata di Salahudin Badi, ex-comandante dell’intelligence militare libica e fratello musulmano.
L’Unione dei Rivoluzionari di Misurata avrebbe avuto a disposizione 40000 effettivi dotati di una cinquantina di carri armati T-55, qualche centinaio di blindati BMP e BTR, lanciarazzi multipli BM-21 Grad, sistemi controcarro, un migliaio di pickup armati con armi antiaeree da 14,5mm e 23mm, cannoni senza rinculo M40 da 106mm e cannoncini antiaerei M55A4B1 da 20mm.
Fajir al-Libiya avrebbe avuto a disposizione 20000 uomini effettivi, mortai, obici, lanciarazzi da 107mm e da 122mm, oltre 1000 pickup armati.
A Tripoli erano attive altre tre milizie: il Consiglio Militare di Tripoli di Abdalhaqim Balhaj, ex-capo del Gruppo Combattente Islamico libico ed agente del Qatar, che avrebbe avuto a disposizione 10000 miliziani che controllavano l’aeroporto Mitiga e l’aeroporto internazionale di Tripoli; la milizia berbera del Congresso Generale Nazionale di Nuri Abusahmain; la LROR (Sala Operativa dei Rivoluzionari della Libia), composta da 2000 miliziani dotati di una cinquantina di blindati Nimr-II e qualche carro armato T-55; la RADA o Forza di Deterrenza Speciale salafita. In Cirenaica era attiva la Brigata Martiri del 17 Febbraio, milizia della Fratellanza musulmana formata da 5000 elementi. Nel Fizan, il governo di Tripoli contava sulle milizie tuareg.
Il governo di Tobruq contava sull’Esercito Nazionale Libico del generale Qalifa Haftar, formato da 30000 effettivi dotati di arri armati T-55, T-62 e T-72, 300 blindati BMP-1, 50 BTR-60PB, 20 M113, 100 Nimr-II, 300 BRDM-2, 200 Humvee e i blindati Puma forniti dall’Italia, una ventina di veicoli M53/59 Praga dotati di cannoni antiaerei da 30mm, il tutto supportato da un’aviazione formata da 8 caccia MiG-21, 4 caccia MiG-23, 2 cacciabombardieri Su-24 e una decina di elicotteri d’attacco Mi-24 e d’assalto Mi-8 schierati nelle basi aeree di Benina (Bengasi), Labraq, Martubah (Derna) ed al-Nasir (Tobruq). La Marina militare di Tobruq doveva disporre della motomissilistica Shafaq, della corvetta Tariq Ibn Ziyad e di un dragamine. Principale alleato di Haftar era il Consiglio Militare dei Rivoluzionari di al-Zintan, composto da 23 milizie di Zintan e jabal Nafusa, in Tripolitania, che riunivano 30000 effettivi dorati di centinaia di tecniche, cannoncini antiaerei, mortai, pezzi di artiglieria e lanciarazzi. Inoltre vi erano le 20000 Guardie petrolifere di Ibrahim Jadran che sorvegliano gli impianti petroliferi della Cirenaica. Altri alleati di Tobruq erano le milizie Warfala e Warshafana di Bani Walid e di Sirte, e le milizie tebu del Fizan.
Infine vi erano Ansar al-Sharia, aderente ad al-Qaida nel Maghreb Islamico formata da 5000 elementi, tra Bengasi e Derna, dotati di tecniche, 30 cannoni D30 da 122mm e 50 lanciarazzi BM-21 Grad. Alleata di Ansar al-Sharia era la liwa Umar al-Muqtar composta da circa 250 miliziani guidati da Ziyad Balam, attiva a Derna, Aghedabia e Bengasi. Infine lo Stato islamico che disponeva di basi ad Hun, tra Sirte e Sabha, e di 8000 effettivi dotati di pickup armati.
Il 2 marzo, nello scontro tra Stato Islamico e Fajir al-Libya venivano uccisi 2 tecnici italiani rapiti a Sabratha, Salvatore Failla e Fausto Piano. La vedove di Failla, Rosalba Castro, dichiarava “Salvo mi mandò un messaggio su whatsApp il 20 luglio, appena arrivato in Libia dopo essere stato in Sicilia: ‘Non sono ancora arrivato al cantiere, ti chiamo più tardi’, mi scrisse. Tante volte mi sono interrogata su quello strano spostamento, da Tripoli al campo base, fatto di sera e non di mattina presto come al solito. Io sono convinta che, in tutti questi mesi, mia marito sia rimasto a Sabratha. E lì era, ne sono certa, quando il 19 febbraio i droni americani hanno buttato le bombe”.

Ridislocamento geopolitico nel Mediterraneo
Mentre si svolgevano i negoziati tra Rosoboronexport (azienda per l’esportazione della Difesa russa) e governo egiziano per dotare di sistemi di comunicazione e controllo le portaelicotteri Mistral vendute all’Egitto, Cairo continuava a rinnovare la geopolitica egiziana. Secondo l’analista egiziano Samir Ayman, il governo del Generale al-Sisi apriva contatti con Hezbollah e l’Iran per sviluppare un coordinamento sulla sicurezza in relazione alla crisi in Siria. “L’obiettivo della visita si concentrava sulla creazione di stretti rapporti tra Egitto ed Hezbollah in linea con gli interessi comuni. Data la potenza ed efficienza nella regione araba e il sostegno al governo siriano contro l’aggressione straniera, il governo egiziano ora tenta di aprire un canale di comunicazione con Hezbollah e Iran“, affermava Samir concludendo che Egitto ed Hezbollah affrontavano il ruolo negativo di Riyadh e Ankara nella crisi in Siria. Questo avveniva nel quadro regionale che vedeva anche il sequestro della nave battente bandiera del Togo Kuki Boy carica di armi destinate al Libano. La nave da carico trasportava 6 container con migliaia di armi, munizioni ed esplosivi, veniva sequestrata dalle autorità greche al largo di Creta, il 28 febbraio, dopo aver salpato dal porto turco di Izmir alla volta del Libano. In due casi precedenti la polizia aveva confiscato fucili Winchester SXP: nel settembre 2015, quando i greci sequestrarono la nave da carico Haddad 1 che ha trasportava 5000 fucili per gli islamisti in Libia, e nel novembre 2015, quando la polizia italiana scovò 800 fucili dello stesso tipo su un autocarro olandese proveniente dalla Turchia. Difatti, i libanesi alcuni mesi prima avevano arrestato un principe saudita che trasportava 2 tonnellate di Captagon sul suo aereo privato. Il Captagon è la droga utilizzata dai terroristi attivi in Siria. I sauditi reagivano ritirando i 3 miliardi di dollari di prestiti promessi ai militari libanesi per acquistare armi dalla Francia. E una settimana prima del sequestro, gli Stati del Golfo Persico avevano avvertito i propri cittadini di lasciare il Libano. L’Arabia Saudita agendo in tal modo, cercava di vendicarsi del Libano che non l’aveva seguita nella condanna di Hezbollah. Sui 3 miliardi di dollari promessi all’esercito libanese, con cui comprare armi francesi, il 5 marzo il ministro degli Esteri saudita Adil al-Jubayr affermava “Non abbiamo rotto il contratto. Sarà attuato ma il cliente sarà l’esercito saudita. Abbiamo deciso che i 3 miliardi di euro (in equipaggiamenti) non saranno consegnati all’esercito libanese ma saranno reindirizzati all’esercito saudita. Siamo di fronte ad una situazione in cui le decisioni vengono dettate da Hezbollah libanese. Le armi andranno all’Arabia Saudita, e non ad Hezbollah“.
La nave da carico del Togo, probabilmente, rientrava in un’operazione saudita-turca per scatenare una nuova guerra civile libanese, possibilmente presso Tripoli, aprendo un nuovo fronte contro l’Asse della Resistenza. Inoltre, l’Arabia Saudita avrebbe cercato di costituire una milizia settaria sunnita in Libano reclutando profughi siriani. Probabilmente una copertura per giustificare la comparsa di forze taqfirite da infiltrare ed attivare agli ordini dei sauditi in Libano. In precedenza, il segretario di Stato degli USA John Kerry, in una testimonianza alla Commissione Affari Esteri, aveva accennato a un “piano B” per la Siria, un’“opzione militare per rendere difficile a Damasco ed alleati continuare l’assalto contro i ribelli sostenuti dagli Stati Uniti”. Kerry, rispondendo al commento del presidente della Commissione Bob Corker che i russi avevano “realizzato i loro obiettivi” in Siria, sostenne che i russi e il governo siriano avrebbero avuto il controllo di Aleppo ma che, “controllarne il territorio è sempre stato difficile“, e che i russi non potevano impedire all’opposizione di avere le armi necessarie per continuare la guerra, finché Stati Uniti ed alleati li sostengono. E intanto il ministro degli Esteri saudita Adil al-Jubayr e il capo dell’intelligence saudita Qalid al-Hamidan, compivano una visita segreta in Israele per discutere di azioni congiunte israelo-saudite contro Iran, Siria e Libano, incontrandosi con i funzionari del Mossad e il primo ministro Biniyamin Netanhayu. In precedenza funzionari israeliani avevano visitato la capitale saudita Riyadh. Già nel 2015 si erano svolti cinque incontri israelo-sauditi in India, Italia e Repubblica Ceca.
Concludendo, i 6 Stati (Arabia Saudita, Bahrayn, Quwayt, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti) del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) definivano il movimento di Resistenza libanese Hezbollah un’organizzazione “terroristica”. Ciò perché Hezbollah è al fianco del governo del Presidente Bashar al-Assad contro i terroristi taqfiriti (SIIL, al-Qaida, ecc). L’Algeria si rifiutava di seguire le petromonarchie wahhabite, durante la riunione del 2 marzo 2016 a Tunisi dei ministri degli Interni arabi, dove Libano e Iraq si astenevano dal definire Hezbollah organizzazione terroristica. Il Ministero degli Interni algerino avvertiva che “qualsiasi distorsione della posizione algerina sarà considerata dall’Algeria come azione volta a scatenare dei conflitti regionali”, mentre il portavoce del Ministero degli Esteri Abdalaziz Ben Ali Sharif affermava che qualsiasi decisione su Hezbollah deve venire dai libanesi stessi, “L’Algeria per cui la non interferenza negli affari interni di altri Paesi è uno dei principi guida della politica Estera, vieta qualsiasi interferenza in questa materia e si rifiuta di parlare al posto dei libanesi nel caso che li riguarda in modo esclusivo“. Hezbollah è “un movimento politico e militare parte del paesaggio sociale e politico del Libano e partecipa agli equilibri fragili pazientemente e faticosamente negoziati in quel Paese, nel quadro degli accordi di Taif, a cui aveva partecipato“. E il 7 marzo arrivava la risposta alla dichirazione algerina; lo SIIL attaccava la città di Ben Gardan, in Tunisia, al confine con la Libia, dove 35 terroristi, 7 civili e 11 poliziotti rimanevano uccisi. “Questo è un attacco senza precedenti, pianificato e organizzato. Il suo obiettivo era probabilmente prendere il controllo di questa zona e annunciare un nuovo emirato“, dichiarava il presidente tunisino Baji Qaid al-Sabsi. “L’attacco è stato un tentativo dei terroristi dello SIIL di ritagliarsi una roccaforte al confine“, dichiarava il primo ministro Hasid al-Sid. E le forze armate algerine aumentavano l’allerta a seguito dell’attacco a Ben Gardan. Secondo il quotidiano al-Qabar il presidente algerino Abdalaziz Butafliqa ordinava al comando dell’esercito di adottare misure per garantire la sicurezza dei confini algerini ed eliminare le minacce alla sicurezza nazionale, dopo che i servizi di sicurezza algerini avevano avuto informazioni su possibili attacchi terroristici da Libia e Mali.
Nel frattempo, i Paesi europei, davanti all’evolversi della situazione in Siria, decidevano di cambiare atteggiamento. Negli ultimi quattro mesi varie delegazioni dei servizi segreti di diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, avrebbero segretamente visitato la Siria, per cercare un rapporto di collaborazione con i servizi di sicurezza e il Ministero degli Interni della Siria nella lotta al terrorismo, ottenendo dati sui terroristi europei presenti in Siria e i terroristi siriani che potrebbero infiltrarsi con i rifugiati in Europa. La delegazione unitaria dei servizi segreti italiani e svedesi, che aveva segretamente visitato Damasco, chiese ai funzionari siriani i fascicoli giudiziari di tutti i cittadini siriani giunti in Italia, Svezia e Norvegia fin dal 2011. Il servizio d’intelligence tedesco invece non aveva mai rotto i rapporti con i servizi segreti siriani e mostrava interesse per il traffico di petrolio dello SIIL. Anche il Canada, primo Paese non europeo, ha voluto instaurare una cooperazione sulla sicurezza con il governo siriano per combattere i terroristi che cercassero di entrare nel territorio canadese camuffati da rifugiati siriani. Il governo siriano dava priorità alla cooperazione con i servizi segreti tedeschi, mentre alle richieste di Italia, Svezia e Canada non dava una risposta. Riguardo la Francia, il Paese europeo più ostile alla Siria, Damasco ha posto chiare condizioni per stabilire una cooperazione. Una delegazione del servizio d’intelligence francese aveva visitato Damasco per migliorare le relazioni sulla sicurezza, ma la risposta della Siria era che tale cooperazione deve avvenire attraverso canali diplomatici presso l’ambasciata francese a Damasco, ancora chiusa, o un’ambasciata che rappresenti gli interessi della Francia in Siria. Così, la Siria chiariva che senza il riconoscimento politico non sarà possibile stabilire alcuna collaborazione. Quindi non era un caso che il 2 marzo, le autorità turche vietassero all’elicottero con a bordo la ministro della Difesa della Germania, Ursula von der Leyen, di atterrare nell’aeroporto di Mitilene sull’isola greca di Lesbo. Von der Leyen aveva intenzione di visitare l’isola il 6 marzo per valutare la situazione dei rifugiati, e poi, tramite l’elicottero della NATO, volare verso la nave tedesca Bonn dispiegata nel Mare Egeo. In precedenza, a un aereo privato fu negato il sorvolo della Repubblica di Turchia con a bordo il Primo Ministro greco Alexis Tsipras, che viaggiava verso l’Iran.

Alessandro Lattanzio - 9/3/2016
fonte: https://aurorasito.wordpress.com/

08/03/16

Gay killer per droga e noia: e se parlassimo di “eterofobia”?

gay

Fa ancora discutere l’assurda morte del giovane Luca Varani, ucciso a coltellate e martellate dai due gay Marco Prato e Manuel Foffo dopo essersi rifiutato di un rapporto sessuale a tre.

In poche settimane si parla di un altro omicidio – dopo quella della professoressa Gloria Rosboch per mano di Gabriele Defilippi e del suo compagno – compiuto da due omosessuali. Questo dovrebbe far riflettere quanti attribuiscono il valore di una violenza o di un assassinio in base al sesso o all’orientamento sessuale del killer o della vittima: la morte è sempre uguale e la rilevanza penale dovrebbe essere trattata allo stesso modo.
Se Manuel Foffo ha confessato la tragica serata a base di vodka e cocaina conclusa con le sevizie e la morte di Luca Varani, occorre precisare che Marco Prato dev’essere ancora ascoltato dagli inquirenti dal momento che è stato ritrovato nella stanza di un hotel di piazza Bologna privo di sensi dove ha provato a togliersi la vita.
I due, secondo il racconto di Manuel Foffo, dopo aver sniffato 10 grammi di cocaina avrebbero stretto un patto criminale con l’obiettivo di uccidere qualcuno per vedere l’effetto che fa. E lo scenario in cui è stato ritrovato Luca Varani è difficilmente immaginabile: “Circostanze inquietanti” le ha definite il Colonnello dei Carabinieri Giuseppe Donnarumma, comandante del Reparto operativo di Roma. Sangue dappertutto, il corpo della vittima nudo e sfigurato dalle martellate in testa, i segni delle coltellate sul corpo, con quella letale piantata nel cuore. Difficile ipotizzare che tutto questo sia stato compiuto da una persona sola.  Ad avvalorare l’ipotesi di una presunta eterofobia da parte di Marco Prato c’è la testimonianza di un omosessuale sul sito gay.it (leggi qui). “Una sera io e il mio compagno andammo a casa sua. Il suo amico era etero ma sembrava disposto a fare sesso a quattro. Poi spuntò fuori la cocaina… Tantissima. Era chiaro che Marco Prato aveva tanti soldi. Io e l’amico che era con me non ne facciamo uso… volevamo fare solo del sano sesso“.
L’amico di Marco Prato, però, sosteneva di essere eterosessuale: “Diceva di esserlo, ma sembrava come ipnotizzato da quel Marco Prato che era un grande manipolatore. Mi piacque davvero poco come persona: era chiaro che si divertiva a coinvolgere ragazzi etero con la scusa della droga per manipolarseli e fare giochi erotici. Gli faceva il lavaggio del cervello e questi ci cascavano: così almeno fu in quell’occasione“.
E forse è stato così anche per la morte di Luca Varani. Tragicamente profetiche sembrano le parole scritte su Facebook da Marco Prato a settembre scorso: “Roma sta morendo, e sentirne le grida agonizzanti è davvero straziante!”. Chissà se anche le urla di Luca Varani fossero così strazianti.

Luca Cirimbilla -

L’EVOLUZIONE DELLA BRIGATA MARINA SAN MARCO



La Brigata Marina San Marco sta completando un processo di riorganizzazione funzionale e di modifiche ordinative che mira a razionalizzare l’intera componente anfibia della Forza Armata ed a renderla di impiego più flessibile ed efficace.
Come noto la Brigata ingloba la Forza da Sbarco e raggruppa sotto un unico comando le funzioni di proiezione di forza dal mare, di supporto alle operazioni di interdizione marittima ed antipirateria e quelle di difesa delle basi ed installazioni della Marina. Con un organico complessivo di circa 3.800 uomini, dipende dal punto di vista operativo e funzionale dal Cincnav, il comando in capo della squadra navale, e costituisce l’intelaiatura portante della Capacità Nazionale di Proiezione dal Mare.
Al momento della sua recente costituzione, avvenuta il 1° marzo 2013, la Brigata San Marco includeva, oltre al Comando Brigata con elementi di staff appartenenti anche all’Esercito Italiano ed all’Infanteria de Marina spagnola, il Quartier Generale, il Battaglione di Supporto al Comando, il Gruppo Mezzi da Sbarco e tre Reggimenti, ciascuno con compiti e funzioni differenti.


La Brigata
 

Il Quartier Generale  assicurava il funzionamento e la gestione delle infrastrutture in Patria, mentre il Battaglione Supporto al Comando raggruppava alcuni assetti specialistici pregiati, quali la Compagnia Recon UDT (già Compagnia Operazioni Speciali e successivamente COSLA – Compagnia Operazioni Speciali Lotta Anfibia) incaricata delle operazioni di ricognizione avanzata  prima dello sbarco, la Compagnia C4 per la gestione delle telecomunicazioni e la  Compagnia Supporto Tecnico per gli interventi manutentivi e di riparazione su tutte le apparecchiature elettroniche, optoelettroniche e gli armamenti.
Il Gruppo Mezzi da Sbarco includeva invece il personale destinato alla condotta e gestione di mezzi da sbarco e battelli pneumatici a scafo rigido (RHIB), oltre ad assicurare l’organizzazione della spiaggia di sbarco.

Il 1° Reggimento San Marco, erede delle tradizioni del glorioso Battaglione San Marco e  pedina di manovra della brigata, comprendeva un Battaglione Assalto, il “Grado”, su tre compagnie assalto ed una compagnia armi, il Battaglione Combat Support, con mortai pesanti, guastatori e capacità controcarro, ed il Battaglione Combat Service Support, in grado di fornire la logistica di aderenza con le compagnie supporto logistico, trasporti e sanità. Completava l’organico reggimentale la Compagnia C2 Supporto Aerotattico e Fuoco, che raggruppava vari elementi per il coordinamento del fuoco di supporto aereo, terrestre e navale.

Il 2° Reggimento San Marco, con i due battaglioni Operazioni Navali e Force Protection, entrambi su due compagnie, comprendeva i Boarding Team ed i Nuclei Militari di Protezione ed era  incaricato di fornire alle navi della flotta i team di sicurezza per gli abbordaggi e le ispezioni, i controlli di  vigilanza pesca ed il contrasto all’immigrazione clandestina, oltre ad assicurare la costituzione dei nuclei di protezione anti pirateria da imbarcarsi sui mercantili battenti bandiera italiana.
Il 3° Reggimento San Marco, infine, assumeva la duplice funzione di assicurare la formazione del personale, grazie al Battaglione Scuole “Caorle”, e di garantire la protezione delle basi, delle installazioni e dei siti sensibili della Marina, inglobando il precedente Servizio Difesa Installazioni.  Il reggimento poteva inoltre concorrere ad attività di ordine pubblico e sicurezza sul territorio nazionale.

Nella seconda metà del 2015, dopo pochi anni di vita, la composizione della brigata è stata oggetto di un ulteriore processo di revisione organica, dettato dall’esperienza operativa. Ne sono scaturite diverse modifiche ordinative, che hanno interessato in maniera particolare la componente di proiezione, resa più autonoma, flessibile e modulare.
Nell’ambito del 1° Reggimento San Marco è stato infatti costituito un secondo Battaglione Assalto, il “Venezia”, identico al “Grado” ed ottenuto per trasformazione del Battaglione Combat Support e con la ridistribuzione delle armi di sostegno di quest’ultimo tra le compagnie fucilieri dei due reparti.
Naturalmente in tempi di revisione della spesa e di contrazione degli organici non era possibile programmare un incremento numerico complessivo degli effettivi del  reggimento. Pertanto i due battaglioni assalto annoverano, almeno al momento, ciascuno due sole compagnie assalto, tutte dotate di assetti e supporti al combattimento identici.

Nonostante l’assenza di una terza pedina di manovra la nuova struttura consente comunque una maggiore flessibilità di impiego del reggimento o di sue aliquote, assicura una turnazione tra i due battaglioni in presenza di operazioni di stabilizzazione di lunga durata e permette di suddividere la componente operativa fra due differenti missioni.
Nell’adozione di questo provvedimento non deve essere risultata estranea l’esperienza maturata nell’estate-autunno del  2011, quando il battaglione Grado, con pochi rinforzi, dovette fornire contemporaneamente e non senza difficoltà una Task Force di battaglione alla missione ISAF in Afghanistan ed assetti aggiuntivi in stand-by con i quali poter fronteggiare eventuali emergenze improvvise. Era infatti in corso l’intervento militare in Libia (operazione Odyssey Dawn), che avrebbe potuto richiedere missioni di Personnel Recovery o di bonifica e messa in sicurezza delle installazioni estrattive poste al largo della costa africana.
Per assicurare al 1° Reggimento un maggior livello di autonomia operativa sono inoltre confluite nel suo organico la Compagnia Comunicazioni e la Compagnia Recon/UDT, quest’ultima destinata ad includere gli specialisti del controllo del Supporto Aerotattico e Fuoco ed a subire l’ennesimo cambio di denominazione.

Privato di queste due pedine operative il Battaglione di Supporto al Comando è stato quindi sciolto, trasferendo le sue funzionalità residue al Quartier Generale.
Esaminando più nel dettaglio l’organizzazione del 1° Reggimento San Marco, notiamo che la sua struttura di comando è più complessa ed articolata di quella di un analogo reparto dell’esercito, avvicinandosi per taluni aspetti a quella di una brigata di manovra.
Dal comandante, un Capitano di Vascello, dipendono infatti, oltre agli Aiutanti ed alla Segreteria, sia un Comandante in Seconda ad incarico esclusivo che un Capo di Stato Maggiore (Capo Ufficio Comando), cui fanno capo le abituali sezioni di staff S1-Personale, S2-Informazioni, S3-Operazioni, S4Logistica, S6-Comunicazioni ed S8-Amministrazione.
Il Comandante in Seconda dirige e coordina alcune pedine di supporto: la Compagnia Comunicazioni, che assicura al reggimento ed all’intera brigata i collegamenti verso le unità dipendenti ed i comandi superiori, il Plotone Guastatori, che garantisce alle forze operative la necessaria libertà di movimento e costituisce i nuclei di bonifica ostacoli esplosivi di tipo tradizionale ed improvvisati, e la Cellula Humint e di Cooperazione Civile-Militare.

Direttamente dal Comandante dipendono invece i due Battaglioni Assalto “Grado” e “Venezia”, il Battaglione Logistico di Supporto al Combattimento “Golametto” e la Compagnia Nuotatori Paracadutisti NP.
Quest’ultima unità nasce dalla fusione dei precedenti reparti Recon/UDT e Supporto Aerotattico e Fuoco, e svolge compiti di ricognizione, bonifica ostacoli antisbarco, preassalto, messa in sicurezza della spiaggia, osservazione ed acquisizione obiettivi e coordinamento e direzione di tutte le sorgenti del fuoco di supporto: aereo, terrestre o navale. A tal fine comprende due Plotoni Recon/SDO (Sommozzatori Demolitori Ostacoli) e due Plotoni SALT – Supporting Arms Liaison Team, ognuno su 3 squadre FCT, Firepower Control Team, i nuclei per l’osservazione, direzione e controllo del fuoco.
I due Battaglioni Assalto comprendono, oltre al Comando ed alla segreteria, la Compagnia Supporto al Comando e due Compagnie Assalto: 1° Bafile e 2° Tobruk per il battaglione Grado, 3° An Nassiriya e 4° Monfalcone per il battaglione Venezia.

Le Compagnie di Supporto al Comando di entrambi i reparti includono due plotoni: un Plotone Supporto al Comando, che assicura la funzionalità del posto comando, garantisce le comunicazioni sia in sede che in operazioni e fornisce un primo livello di logistica di aderenza, ed un Plotone A.A.V. dotato di cingolati anfibi AAV-7, che permette al battaglione di operare almeno parzialmente in veste meccanizzata.
Le compagnie assalto sono strutturate in modo identico su quattro plotoni: tre assalto ed uno di supporto. I plotoni assalto comprendono tre squadre di 8 uomini, composte da due gruppi di fuoco dotati ciascuno di una mitragliatrice leggera Minimi in calibro 5,56 o 7,62mm, più una quarta squadra che costituisce nucleo comando, per un totale di 31 uomini. Ogni plotone dispone al proprio interno di elementi specializzati come soccorritori, addetti alla bonifica NBC e tiratori scelti, questi ultimi muniti di fucili HK 417.

Nel quarto plotone  è integrata una squadra mortai, che porta l’organico complessivo a 40 uomini.
Il personale assegnato a questo reparto dispone generalmente di una maggiore esperienza operativa e di servizio, che ne rende possibile l’impiego, secondo le necessità specifiche della missione, come quarta pedina fucilieri o come elemento per il supporto di fuoco, potendo disporre di sistemi missilistici controcarro Milan e Spike e di mortai da 60, 81 e 120 mm lisci.
Quello che emerge da questi provvedimenti è pertanto un reggimento in grado di operare con breve preavviso in completa autonomia logistica e con l’apporto di  numerosi assetti organici di supporto al combattimento.

Incrementare le capacità operatuve
Queste modifiche organizzative, per quanto opportune e funzionali, non sono certamente sufficienti, di per sé, a realizzare e concretizzare quel salto qualitativo auspicato dalla Marina Militare, che mira sempre più a fare della propria componente anfibia una nicchia di eccellenza, riconosciuta non solo in ambito nazionale.

Lo Stato Maggiore ha deciso pertanto di promuovere un’analoga spinta propulsiva ed innovativa nel settore della formazione del personale, al fine di elevare gli standard qualitativi e professionali a tutti i livelli.
In particolare, è stato deciso di attribuire ad entrambi i Battaglioni Assalto del 1° Reggimento San Marco la capacità “Commando”, ossia di specializzare le compagnie assalto nella conduzione di incursioni e raid anfibi e di mettere  gli uomini e le unità in condizione di operare in  tutte le condizioni, in ambienti non permissivi ed in completa autonomia, fino ai minimi livelli organici.
Due plotoni assalto del reggimento sono stati inoltre destinati ad assumere il suolo di “Combat Support”, ossia di fornire, in caso di necessità, appoggio diretto e supporto tattico ai distaccamenti del Gruppo Operativo Incursori di Comsubin impegnati nell’esecuzione di un’Operazione Speciale in ambiente marittimo. Tale capacità è stata raggiunta in seguito ad uno specifico ed intenso ciclo addestrativo con le Forze Speciali, teso a sviluppare tecniche, tattiche e procedure congiunte.

Queste  innovazioni consentono alla componente di proiezione della Brigata di svolgere un’ampia gamma di missioni, che spaziano dalle operazioni anfibie tradizionali a quelle di supporto alle crisi, dall’evacuazioni di connazionali da zone ad alto rischio al soccorso alle popolazioni colpite da gravi calamità naturali.
Specializzato nella conduzione di raid anfibi, il reparto può essere impiegato quale “Initial Entry Force” per la creazione di una testa di punte in cui far  successivamente affluire forze terrestri nell’ambito di un’operazione di più vasta portata, oltre ad essere utilizzabile in operazioni di tipo prettamente terrestre,  quale unità di fanteria leggera specializzata.
Per quanto riguarda il 2° Reggimento si è deciso inoltre di innalzare significativamente la capacità di interdizione marittima dei Boarding Team, già oggi tutti in grado di operare in contesti non cooperativi (ossia con l’equipaggio della nave da ispezionare che non segue le direttive ricevute), per metterli progressivamente tutti nella condizione di affrontare anche scenari “obstructed”, ossia caratterizzati dall’aperto contrasto all’attività ispettiva del BT.

Sono inoltre in formazione, previa selezione degli elementi più capaci, alcuni Boarding Team abilitati a condurre anche abbordaggi in condizioni “opposed”, ossia quando l’equipaggio della nave reagisce con le armi da fuoco all’azione ispettiva.
A tal fine vengono posti in essere moduli addestrativi a cura degli Incursori del GOI che contemplano scenari di complessità crescente e prevedono movimento e combattimento in ambienti ristretti a livello di squadra e tattiche di tiro dinamico a bordo di unità navali.
Il Battaglione Scuole “Caorle”, reso ora autonomo e posto alle dirette dipendenze del Comando Brigata, ha ampliato  di molto la propria offerta formativa, rivolta ogni anno a circa 2500 allievi provenienti sia dalla Marina Militare che da altre forze armate nazionali ed estere, e dedica particolare attenzione e cura nel costante miglioramento del livello qualitativo dei vari corsi gestiti.
Selezione e addestramento
Dal 2014 il Battaglione, oltre a svolgere corsi specialistici impegnativi e selettivi per la formazione dei futuri Fucilieri di Marina, ha assunto infatti la responsabilità della preparazione del personale di nuova immissione nella Forza Armata.

I VFP1 appena arruolati affluiscono ora direttamente a Brindisi per un periodo di 7 settimane. Le prime tre sono dedicate all’inquadramento preliminare ed alla formazione militare di base, mentre le successive quattro, trascorse in completo isolamento al fine di massimizzare il rendimento del corso, portano al conseguimento dell’abilitazione alla Force Protection (FP), con un’intensa attività fisica e lezioni pratiche e teoriche di impiego delle armi e sulle tecniche e procedure per la difesa delle installazioni.
Lo stesso corso FP viene svolto anche a favore degli allievi dell’Accademia Navale di Livorno e della Scuola Marescialli, durante un modulo denominato “FP ed Arte del Comando”.
La formazione di base dei Fucilieri di Marina prosegue invece, dopo il corso FP, con una successiva fase addestrativa di 13 settimane che intensifica ed approfondisce la formazione tecnica e professionale degli allievi e porta al conseguimento delBrevetto di  Abilitazione Anfibia.

Prima dell’ammissione al corso gli aspiranti fucilieri vengono selezionati sulla base di test di ammissione che prevedono, tra l’altro, 5000 metri di corsa piana da eseguire nel tempo massimo di 28 minuti, 5 trazioni alla sbarra in un minuto, 50 addominali in massimo due minuti, prove di nuoto, apnea e galleggiamento.
Gli argomenti coperti includono addestramento individuale al combattimento, topografia, formazione avanzata sull’uso delle armi, tattiche e procedure della squadra fucilieri, addestramento anfibio, tecniche di combattimento terrestre, superamento ostacoli verticali ed impiego degli elicotteri.  Costanti le marce in assetto tattico su distanze crescenti.
Per buona parte del personale questo è solo un traguardo intermedio, cui farà seguito la formazione avanzata, svolta sia al Grado che al reparto di impiego.

In particolare, per quanto riguarda gli elementi assegnati al 1° Reggimento San Marco, l’iter prevede come accennato in precedenza il progressivo incremento del livello operativo ed il raggiungimento delle capacità “commando”.
Tale obiettivo viene perseguito con un progressivo affinamento della forma fisica, sia a terra che in acqua, che culmina con l’effettuazione di marce di resistenza di 40 chilometri ed esercitazioni di nuoto in mare aperto per un miglio, e con la frequenza di specifici moduli tattici sulla conduzione di raid anfibi, incursioni, colpi di mano, sulle procedure di movimento e combattimento negli abitati ed in ambiente montano e boschivo.
Il Battaglione Scuole offre molti altri corsi di alta specializzazione istituiti per il personale già brevettato, al fine di elevarne le caratteristiche professionali e metterlo in condizione di ricoprire i veri incarichi specifici previsti nell’organico della brigata.
Tra questi:
-    Corso abilitazione RECON per operatori della Compagnia NP. Della durata di 18 settimane, abilità i frequentatori ad effettuare missioni di ricognizione anfibia avanzata ed azioni dirette  nell’ambito di un’operazione anfibia. Copre in particolare gli aspetti legati alla topografia e navigazione terrestre, alle operazioni continuative in ambiente non permissivo, alla conduzione della pattuglia da ricognizione ed all’impiego degli apparati per le comunicazioni. Costituisce la prima fase, terrestre, della formazione degli operatori, che proseguirà con il conseguimento dei brevetti SDO presso Comsubin e Paracadutismo con fune di vincolo a Pisa.

-    Corso per Tiratori Scelti Anfibi per qualificare personale destinato sia al 1° che al 2° Reggimento all’impiego di armi di precisione, sia in ambiente terrestre che da bordo di unità navali e degli elicotteri della Forza Armata. Della durata complessiva di 5 settimane, comprende un modulo terrestre di tre ed uno navale di due.
-    Corso Osservatori Fuoco di Supporto – Joint Fire Observer, che abilita alla richiesta, aggiustamento e controllo del fuoco di superficie, aereo, terrestre e navale. Della durata di 8 settimane, include anche lezioni di topografia, comunicazioni, riconoscimento mezzi ed impiego di puntatori/designatori laser.
-    Corso di Abilitazione Anfibia per Padroni di Barchini di 4 settimane, abilita alla condotta  di battelli e barchini  in ambiente operativo durante un’operazione anfibia.

-    Modulo Basico per Boarding Team di 10 settimane, per far acquisire ai team ispettivi del 2° Reggimento la capacità di operare in contesti “non cooperativi” in concorso con i Tiratori Scelti Anfibi. Il livello raggiunto, come abbiamo visto in precedenza, viene successivamente approfondito con un corso avanzato, volto a far acquisire la capacità di operare in ambienti apertamente ostili (“obstructed”).
-    Corso di Medicina da Combattimento di 4 settimane per ufficiali sanitari ed infermieri, per metterli in condizione di effettuare le attività di soccorso a personale ferito in un contesto operativo e ad alto rischio.
-    Corso di abilitazione anfibia per Ufficiali di vascello.  23 settimane destinate ad abilitare i giovani ufficiali frequentatori a condurre le minori unità, quali plotoni e pattuglie, in attività di combattimento nell’ambito di un’operazione anfibia. Le tematiche di base, simili a quelle previste per tutti i i Fucilieri di Marina, sono integrate da lezioni ed addestramenti specifici legati al ruolo di comando da ricoprire.
-    Corso di Specializzazione Anfibia per Ufficiali di 25 settimane, finalizzato ad approfondire la preparazione e le capacità di pianificazione operativa, di sviluppo del processo decisionale e di comando e controllo dei Tenenti di Vascello impiegati nel settore della lotta anfibia.

Foto Marina Militare

di *Alberto Scarpitta - 7 marzo 2016


Alberto Scarpitta
* Nato a Padova nel 1955, ex ufficiale dei Lagunari, collabora da molti anni a riviste specializzate nel settore militare, tra cui ANALISI DIFESA, di cui è assiduo collaboratore sin dalla nascita della pubblicazione, distinguendosi per l’estrema professionalità ed il rigore tecnico dei suoi lavori. Si occupa prevalentemente di equipaggiamenti, tecniche e tattiche dei reparti di fanteria ed è uno dei giornalisti italiani maggiormente esperti nel difficile settore delle Forze Speciali. Ha realizzato alcuni volumi a carattere militare ed è coautore di importanti pubblicazioni sulle Forze Speciali italiane ed internazionali.