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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

29/12/17

In Niger! Ma a fare cosa?

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Nel XIX secolo molte potenze europee hanno avviato discutibili operazioni militari in Africa anche al fine distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni.
L’Italia, come il bambino che tenta di scimmiottare i “grandi”, lo ha fatto anche nella prima metà del XX secolo con la Libia e, soprattutto, con la sconclusionata operazione in Etiopia. Ora mi sembra di essere di fronte a un dejà vu!
Da giorni i media ci forniscono dettagli in merito all’Operazione “Deserto Rosso” in Niger, con numeri di soldati, loro dislocazione e loro equipaggiamenti. I giornali forniscono anche dettagli su tipologia di unità (genio, sanità, paracadutisti, numero  automezzi e mezzi da combattimento e numero di aeromobili , eccetera) e un sacco di altri dettagli insignificanti. Insignificanti, sì! Perché l’unica cosa che dovremmo sapere come cittadini e come contribuenti sarebbe quale missione gli viene assegnata e con quali regole d’ingaggio dovrebbero operare!
Dobbiamo sapere “quale missione” per renderci conto se è una missione che veramente possa giovare agli interessi nazionali. Dobbiamo sapere a “quali regole d’ingaggio” si conformerà il comportamento dei nostri militari, sia per sapere se tali regole d’ingaggio ne assicureranno l’incolumità in un teatro non scevro di rischi, sia soprattutto per essere certi che tali regole d’ingaggio (se troppo restrittive in merito all’uso della forza) non ne inficino l’efficacia e la credibilità, come troppe volte avviene ad esempio alle operazioni a guida ONU.

Carte-Niger-Madama-360x245Su tali punti essenziali vedo solo nebbia e contraddizioni. Incominciamo dal compito dei nostri soldati in Niger. Intanto in quale contesto internazionale opereranno? Non appare troppo chiaro, e ciò già preoccupa.
Il contesto di riferimento potrebbe essere la Risoluzione ONU n.2359 de 2017 che ha riconosciuto la “Force Conjointe du G5 du Sahel” di 5.000 uomini di Mauritania (paese pilota del progetto), Niger, Ciad, Burkina Faso e Mali (tutti paesi francofoni). Non è però chiaro cosa c’entri l’Italia.
Quindi gli italiani dovrebbero inserirsi in un contesto a guida francese (che da anni già hanno nella regione dai 3 ai 4 mila uomini, nell’ambito dell’operazione “Barkhane”) per supportare/addestrare i contingenti di questi paesi francofoni. Quanto ciò risponda più agli interessi di Parigi che di Roma lo ha già spiegato su questa testata Gianandrea Gaiani.
Diamo per scontato che andiamo lì per generosità nei confronti di Parigi, il ché in un’ottica di “do ut des” ci può decisamente stare (il “do” da parte nostra c’è sempre, in merito al “des” da parte degli altri abbiamo finora visto qualche défaillance, ma è colpa nostra!).
Andiamo ai compiti sul terreno. Il Presidente Gentiloni avrebbe indicato come obiettivi: “consolidare quel paese, contrastare il traffico di essere umani ed il terrorismo”. Ora mi sembra che contrastare il traffico di esseri umani e combattere il terrorismo richiedano assetti, procedure e regole d’ingaggio ben diverse. Nonostante le connessioni finanziarie tra i due fenomeni, non penso si possano adottare procedure simili per intercettare una colonna di migranti illegali o un team terroristico!

Fort-MadamaDal canto suo, il Capo di SMD avrebbe dichiarato che “non si tratterebbe di una missione combat” (allora non capisco perché non ci vadano i boyscout cari a Renzi) e che i nostri avrebbero solo compito di “addestrare le forze nigerine e renderle in grado di contrastare efficacemente il traffico di migranti ed il terrorismo”.
I membri del G5 del Sahel stiano mettendo in piedi una forza multinazionale per combattere il terrorismo ma non ho trovato riferimenti nei loro documenti pubblici al contrasto dei flussi migratori clandestini. Che si tratti di un qualcosa messo lì per rendere l’operazione più gradita al pubblico italiano?
Infatti, il senatore Latorre , presidente della Commissione Difesa del Senato, ha dichiarato: “lo scopo sarà di realizzare un’attività di training, che non avrà l’obiettivo di contenere i flussi migratori, ma di governare i confini di paesi che sono transito di flussi”.
Quindi non molto a che fare con il contrasto dei flussi migratori illegali (che comunque, a parere di chi scrive resta un’attività di competenza della polizia e non dell’esercito!)
Il Decreto del Consiglio dei Ministri, un po’ più tecnico delle dichiarazioni alla stampa, stabilisce che la missione si prefigge di “rafforzare le capacità di controllo del territorio delle autorità nigerine e dei paesi del G5 Sahel e lo sviluppo delle forze di sicurezza nigerine per lo sviluppo di capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza”.

AP TM nEwsViene ribadito che”il controllo delle frontiere rimarrà un compito delle forze di sicurezza nigerine”.  È ovvio, infatti, che nessuno Stato Sovrano sia disposto a delegare ad autorità esterne il controllo dei propri confini! Naturale, pertanto, che il controllo delle frontiere resti responsabilità nazionale, cui i nostri potrebbero concorrere eventualmente con apparati per il controllo di aree estese. Comunque, anche se i nostri intercettassero (volutamente o incidentalmente) dei terroristi non potrebbero che avvisare i nigerini per intervenire. Non potrebbero, infatti, arrestarli in quanto poi non saprebbero come gestirli: non sarebbe loro consentito, una volta arrestati, consegnarli alle autorità del Niger (ove è sia pure solo formalmente in vigore la pena di morte) né potrebbero inviarli in Italia per il processo (cosa che credo i terroristi gradirebbero).
Se nell’ambito degli apparati di polizia nigerina, come da molti sostenuto, vi sono stati casi non sporadici di collusione con i trafficanti, appare ovvio che l’addestramento da solo può servire a ben poco. A meno che si avvii un processo globale di Security Sector Reform (come avviato in Afghanistan e Iraq per l’intero apparato di sicurezza dei due paesi), di cui nessuno ha parlato per Niger e Mali, il problema non si risolve!
Si è detto anche che l’intervento serve a bloccare i foreign fighters di ritorno.  A parte il fatto che non ce li vedo i foriegn fighters che tornano in Europa mischiandosi a carovane  nel deserto, mi sembra che le aree da cui oggi stanno evacuando gli “ex – foreign fighters” siano essenzialmente Siria e Iraq. Perché mai per rientrare in Europa dovrebbero passar per il Sahel?
In conclusione, non appare ben chiaro che cosa si vada a fare in Niger né perché ci si vada.Purtroppo, ancor meno si sa in merito al comando (verosimilmente francese) sotto il quale opereranno i nostri soldati.

Af_Ner_115_Fort_de_MadamaRegole d’ingaggio? Queste ovviamente discendono dal compito e dal contesto in cui si opera. Se il compito è confuso, le regole d’ingaggio non potranno certamente essere efficaci.
Occorre tener presente che le regole d’ingaggio sono sì funzionali alla sicurezza dei nostri militari (e già ciò basterebbe a farle tenere nella massima considerazione), ma sono soprattutto funzionali all’assolvimento della missione (innumerevoli sono le operazioni militari, soprattutto a guida ONU, che sono fallite miseramente  a causa anche di regole d’ingaggio non adeguate: fallimenti che, come nel caso di UNPROFOR in Bosnia dal 1992 al ‘95, hanno avuto come conseguenza migliaia di vittime civili che avrebbero potuto e dovuto essere evitate).
L’insistenza sul fatto che sarà una missione “non-combat” mi fa temere che sia la foglia di fico per mandare soldati allo sbaraglio con compiti non chiari e con regole d’ingaggio non adeguate.
Inoltre, se i nostri non saranno combat, come si interfacceranno con chi combat lo è (francesi, ma anche statunitensi e poi, ovviamente, i nigerini).
Essere “non-combat” in un teatro dove gli altri combattono è come essere un vaso di terracotta tra quelli di ferro, come scriveva Manzoni. Per prima cosa vieni escluso da buona parte del flusso informativo (no need to know!) e ciò si riverbera sulla sicurezza dei nostri contingenti. Peraltro, mentre non si sa bene che cosa esattamente andranno a fare i nostri soldati in Niger, si sa che saranno al massimo 470 (quindi si stima una forza media annuale di 250) e, comunque, non da subito!
Tra l’altro, in un contesto d’impiego così lontano ed isolato, una componente non indifferente e poco comprimibile del contingente dovrà inevitabilmente essere connessa con l’assolvimento di compiti di supporto nazionale (National Support Element, collegamenti con l’Italia), di sostegno logistico e di sicurezza. Quindi per numeri piccoli, si rischia che l’output operativo o addestrativo diventi davvero marginale.  Ovvero, parafrasando Pierre De Coubertin, l’importante è partecipare, non fornire un contributo significativo!

141210_bkh_pose-madama-3_article_pleine_colonne-10Ci si premura comunque di assicurare che saranno contestualmente ridotti i militari in Iraq (circa 1.500 uomini). Peccato! Non mi sembra che a Bagdad il compito di addestrare le FA irachene sia completato né che ad Erbil si possa abbassare già la guardia! Non capisco perché, se proprio l’aritmetica deve tornare, non si vadano a rivedere i nostri impegni militari in Kosovo (missione KFOR, più di 500 militari) o i pattugliatori che navigano al largo del Sinai (Multinational Force of Observers –MFO-circa 80 marinai)!
Ma non si vorrà mica andare a cancellare missioni che ormai sono di tutto riposo, senza rischio e che consentono di elargire benefit economici al personale (soprattutto sotto elezione)! Quindi, vada per la riduzione in Iraq.
Tra l’altro, ridurre il contingente in Iraq anziché quello della MFO al largo delle pericolosissime acque di Sharm el Sheik può essere gradito sia a pacifisti vari e sia al personale militare.
Se fosse una questione di numeri di soldati impegnati all’estero (ma non lo è) allora si potrebbe considerare che senso abbia continuare ad impegnare 900 uomini in Afghanistan (Operazione Resolute Support).
Non so chi possa ritenere tale operazione ancora funzionale alla sicurezza nazionale, dopo sedici anni dall’intervento (i primi soldati italiani vi si recarono a dicembre 2001). In Afghanistan mi pare che ci restiamo ancora solo perché ce lo chiedono gli USA. Legittimo?
Forse. Peraltro poi non siamo in grado di sfruttare a nostro favore tale impegno, perché ci inimichiamo Washington in mille modi (da ultimo con il voto alle Nazioni Unite con cui si condanna Washington in merito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele).

2017-12-13t143019z_996703584_rc15149faa20_rtrmadp_3_africa-security-sahelAnche questo è perfettamente legittimo. Ma la politica di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte perché non sappiamo dove vogliamo arrivare non porterà certo vantaggi.
Inoltre, se, come viene detto, lo spostamento della gravitazione del nostro dispositivo all’estero verso l’Africa risponde agli “interessi nazionali italiani” non si capisce perché non sia avvenuto prima, dato che il “fronte sud” è da tempo percepito come estremamente vulnerabile. Analogamente, in tale ottica, non si comprende la nostra ritrosia ad un impegno militare serio in Libia, che finora non mi pare esserci stato.
Se il Niger è veramente una priorità strategica italiana, allora impegnarvi solo 470 uomini, di cui i primi 120 non prima di febbraio/marzo e i rimanenti non prima di giugno non mi sembra un grande sforzo! Ma tanto, mi si obietterà, che se ne inviino 100 o 2.000 i titoli sui giornali sono gli stessi e allora … perché sprecarsi?
Infine, viene ripetuto ossessivamente che l’intervento serve per “contare di più in Europa”.  Il ché significa che visto che non siamo in grado di esprimere una politica estera che sappia farsi valere in Europa (né altrove), tentiamo di compensare inviando soldati ovunque ce lo chiedano anche se non sappiamo a cosa serva. Tanto i soldati ubbidiscono!

Foto: AP, AFP e Ministero Difesa Francese

28 dicembre 2017 - di i


28/12/17

Il “male nostrum”


Il “male nostrum”L’unico pensiero confortante in chiusura di un anno per niente brillante come vogliono farci credere (anzi) è che finalmente tra due mesi si voterà. Per il resto il 2017 non è stato l’anno della svolta, della raccolta di chissà quale semina, dell’uscita dalla caverna nella quale siamo strutturalmente costretti da sempre. Parliamo ovviamente di quei mali ottusi del Paese che, più o meno dal Nord al Sud, rappresentano un “Sistema Italia” tarlato da vulnus mai riformati per ipocrisia politica. Perché sia chiaro, per quanto mediocre e opportunista sia la politica, il “Male Nostrum” lo conosce bene eccome. Conosce l’assurdità di un apparato pubblico mostruoso, inefficiente, inadeguato e, come spesso vediamo dalle cronache, in parte corrotto e furbetto. I politici conoscono bene le patologie di una giustizia lenta, ingiusta e a tratti arrogante per via di poteri che sanno più di arbitrio che di autonomia. Sorvoliamo “sull’indipendenza” della magistratura, perché servirebbe un dizionario dei dubbi e degli esempi d’incertezza.
La politica è perfettamente a conoscenza delle opacità nel mondo del credito e della vigilanza, non fosse altro perché da decenni c’è un passaggio bidirezionale di poltrone a tutti i livelli. Per non parlare di quanto sappia dei veri motivi dello sfascio previdenziale, fiscale, burocratico e amministrativo del Paese. Insomma, è arcinoto che il debito irrefrenabile sia dovuto soprattutto a un eccesso di spesa pubblica, di spreco, di sperpero e di malaffare. Ecco perché su questo tema l’evasione, che pure c’è e va combattuta, non c’entra niente. L’eccesso di spesa non si combatte come fa la sinistra attraverso l’ossessione e la persecuzione fiscale, ma passando dalla cultura dell’assistenza e dello statalismo a quella dello sviluppo e dello Stato minimo. Ecco dove è il “Male Nostrum”; è nella devastazione di una cultura statalista, assistenzialista, clientelare, parrocchiale, da socialismo reale che il centrosinistra e il cattocomunismo hanno voluto in Italia.
Da noi lo Stato costa una follia e non funziona, esaspera e non aiuta, complica e non semplifica, sbaglia e non paga, se ne buggera alla faccia di tutto e tutti. Vale in ogni settore pubblico diretto o indiretto, dalla vigilanza bancaria alla previdenza, dalla amministrazione sanitaria a quella giudiziaria e universitaria. Vale per comuni, regioni, province, aziende municipalizzate e partecipate, enti, organismi e ogni altra follia ove per forza è stato fatto entrare lo Stato. È stato fatto entrare per assumere dove non serviva, per costruire aziende inutili ed enti pressoché fantasma solo per assegnare poltrone. Ecco il “Male dell’Italia” che il cattocomunismo ha inventato e scaricato sulla pelle dei privati, ecco perché senza quelle riforme strutturali che nessuno mai ha avuto la forza di fare non cresceremo mai come dovremmo. Con il voto di marzo, magari, si potrà cambiare, entrando in cabina basterà ricordare il sistema fiscale, Equitalia, le file in ospedale, agli sportelli, la Legge Fornero, gli scandali, l’Ilva di Taranto, le banche, i centri d’accoglienza, la giustizia ingiusta e i furbetti del cartellino. Basterà ricordare...

Natale nelle casette inabitabili: quel consorzio di Firenze che inguaia i terremotati


Piove sul bagnato

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Doveva essere un Natale “più normale” per le popolazioni colpite dal terremoto in Centro Italia. Sotto l’albero, infatti, gli abitanti di alcuni centri delle Marche avrebbero dovuto trovare, dopo enormi ritardi, le famose casette, in gergo tecnico chiamate Sae (soluzioni abitative d’emergenza). Ad alcuni sembrava troppo bello per essere vero e infetti le cose non sono andate proprio così. Lo sanno bene soprattutto i sindaci di Visso, Sarnano e Caldarola, comuni del maceratese. Il 22 dicembre i comuni hanno ricevuto il verbale della consegna e la documentazione del termine dei lavori dove si affermava che tutto era in ordine e le Sae erano pronte per la consegna delle chiavi. Ma dai sopralluoghi pre-consegna è emerso tutt’altro.
Sporcizia ovunque, sanitari non installati, caldaie non funzionanti, casette senza elettricità. E basta vedere la pendenza dei tetti (quasi inesistente) per capire che le casette non sono certo adatte a posti dove l'inverno porta sempre abbondanti nevicate. Questo è lo spettacolo piuttosto indecente che si è palesato agli occhi dei primi cittadini: “Si dice che a Natale bisognerebbe essere più buoni, ma non ce la faccio proprio: delle 12 sae consegnate ieri nessuna è abitabile. Consegnarle in queste condizioni è inaccettabile” sbotta il sindaco di Visso Giuliano Pazzaglini. Dello stesso tenore sono i commenti dei suoi colleghi, anche perché la situazione è praticamente la stessa: “E’ uno scandalo! All’esterno vialetti ancora da sistemare, cumuli di terra, terrapieni da ultimare, reti da cantiere, asfaltatura rovinata, pezzi di catrame sulle aiuole; all’interno, oltre alla sporcizia, parte del mobilio e dei complementi d’arredo previsti nel capitolato non montati o addirittura assenti. In teoria i lavori delle casette, arredi compresi, sarebbero stati ultimati lo scorso 22 dicembre, ma lascio a ognuno giudicare se sia possibile considerare terminati i lavori” commenta desolato il sindaco di Sarnano Franco Ceregioli che avrebbe dovuto consegnare proprio oggi le Sae e invece si è trovato costretto a far saltare la consegna delle chiavi, documentando il tutto in alcuni video postati sulla sul suo profilo Facebook. “Fosse stato per me avrei spostato ancora la data di consegna, perché ognuno di noi ha una dignità e lo stato attuale delle cose offende la dignità dei caldarolesi” dice il sindaco di Caldarola Luca Maria Giuseppetti.
Insomma, il quadro è chiaro. Così come è chiaro il destinatario delle invettive dei sindaci: quel consorzio Arcale, già nel mirino dell’assessore alla protezione civile della Regione Marche Angelo Sciapichetti per i notevoli ritardi nella consegna delle casette, e che in molti vogliono vicino al Pd, soprattutto al suo segretario Matteo Renzi.
E non solo perché la ditta ha origini fiorentine: qualche tempo fa, infatti, il Fatto Quotidiano ha riportato il testo di alcuni sms che sarebbero stati inviati nel settembre 2016 dal presidente della renziana Fondazione Open, l’avvocato Alberto Bianchi, all’allora ad di Consip Luigi Marroni in cui si chiedeva di verificare se il primo classificato della gara di appalto per le casette fosse in grado di portare a compimento l’opera: "Il secondo classificato (Arcale) mi dice che il primo non è in grado di costruirle in tempo" diceva Bianchi che però, contattato da Repubblica si è difeso: “Ho semplicemente segnalato che il rappresentante di Arcale mi aveva detto che era in grado di consegnare le casette tre mesi prima. Dopo quello scambio di sms con Marroni non mi sono più interessato della cosa”. Sarà anche così, ma senza entrare tanto nel merito della questione, i ritardi e i danni stanno dimostrando l’esatto contrario. I terremotati ne sanno qualcosa. E i sindaci sono sul piede di guerra e chiedono a gran voce che “qualcuno paghi per questi disagi”. 

Carlo Mascio

27/12/17

CHE C'ENTRANO I FALSI PROFUGHI?





Ma che c’entrano i falsi profughi con la Natività? E la “tenerezza rivoluzionaria” alla “Che” Guevara? Perfino nel "discorso politico", camuffato da omelia del santo Natale, il (falso) papa Bergoglio non ha saputo trattenersi di Francesco Lamendola  


Ma che c’entrano i falsi profughi con la Natività?

di

Francesco Lamendola

 

Perfino nella omelia del santo Natale, il (falso) papa Bergoglio non ha saputo trattenersi; e, invece di offrire ai fedeli uno spunto di spiritualità, di trascendenza, il senso verticale di Dio che si fa uomo e degli uomini che aspirano a Dio, ci ha restituito, per la centesima, per la millesima volta, come sempre, come ormai quasi ogni giorno, il senso della orizzontalità, della secolarizzazione, della immanenza. Non ha parlato di Gesù che nasce, ma dei falsi profughi che cercano accoglienza presso i nostri cuori, duri ed egoisti, e che bussano alle nostre porte, di noi ricchi e indifferenti cittadini del Nord del mondo, che ce ne infischiamo delle loro sofferenze e pensiamo solo al Presepio, ai regali e al pranzo natalizio. Eh, sì:; che vergogna. Come quando si è recato a Lampedusa, ha gettato una corona di fiori nel mare delle “stragi” (chi sa perché stragi, poi? il vocabolario non dà questa definizione di “strage”) e ha detto a voce alta, con tono tagliente, sdegnato, da giudice implacabile, lui così misericordioso: Vergogna!
Insomma, anche l’omelia di Natale è diventata un sermone politico e un ennesimo spot a favore della cittadinanza agli stranieri. Ancora una vola ha strumentalizzato il Vangelo, lo ha piegato nella direzione da lui voluta: da lui, o da quelli che lo hanno messo, sfortunatamente, sul seggio pontificio, a occupare la cattedra di san Pietro. Guarda caso, è la stessa direzione che sta seguendo la politica di George Soros e che rientra nei pani dell’élite finanziaria globale. E non si creda che queste sono le critiche, acide e forse ingenerose, di qualche ultratradizionalista; sono anche le critiche di un pensatore marxista come Diego Fusaro, secondo il quale il papa si sta mettendo al servizio della “mondializzazione” e dello “sradicamento capitalistico”; di più: che giudica il suo discorso di Natale più ispirato a Soros che a Cristo”. Questa, sì, che è una vergogna incancellabile, la vergogna suprema, perfino dal suo punto di vista: che il papa cattolico si faccia accusare di essere al servizio del supercapitalismo proprio da un filosofo marxista; lui che gongolava tutto quando il presidente marxista della Bolivia, Morales, gli ha regalati un Crocifisso costruito dentro una falce e martello, e lo ha preso con gioia, facendosi fotografare come se fosse perfettamente a suo agio con quel dono fra le mani.
Ed ecco la sua omelia natalizia, ad eccezione delle prime battute introduttive:
Per decreto dell’imperatore, Maria e Giuseppe si videro obbligati a partire. Dovettero lasciare la loro gente, la loro casa, la loro terra e mettersi in cammino per essere censiti. Un tragitto per niente comodo né facile per una giovane coppia che stava per avere un bambino: si trovavano costretti a lasciare la loro terra. Nel cuore erano pieni di speranza e di futuro a causa del bambino che stava per venire; i loro passi invece erano carichi delle incertezze e dei pericoli propri di chi deve lasciare la sua casa. E poi si trovarono ad affrontare la cosa forse più difficile: arrivare a Betlemme e sperimentare che era una terra che non li aspettava, una terra dove per loro non c’era posto. E proprio lì, in quella realtà che era una sfida, Maria ci ha regalato l’Emmanuele. Il Figlio di Dio dovette nascere in una stalla perché i suoi non avevano spazio per Lui. «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11). E lì… in mezzo all’oscurità di una città che non ha spazio né posto per il forestiero che viene da lontano, in mezzo all’oscurità di una città in pieno movimento e che in questo caso sembrerebbe volersi costruire voltando le spalle agli altri, proprio lì si accende la scintilla rivoluzionaria della tenerezza di Dio. A Betlemme si è creata una piccola apertura per quelli che hanno perso la terra, la patria, i sogni; persino per quelli che hanno ceduto all’asfissia prodotta da una vita rinchiusa. Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi. Vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire. Vediamo le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra. In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri, questa partenza ha un nome solo: sopravvivenza. Sopravvivere agli Erode di turno che per imporre il loro potere e accrescere le loro ricchezze non hanno alcun problema a versare sangue innocente. Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza. Colui che nella sua povertà e piccolezza denuncia e manifesta che il vero potere e l’autentica libertà sono quelli che onorano e soccorrono la fragilità del più debole. In quella notte, Colui che non aveva un posto per nascere viene annunciato a quelli che non avevano posto alle tavole e nelle vie della città. I pastori sono i primi destinatari di questa Buona Notizia. Per il loro lavoro, erano uomini e donne che dovevano vivere ai margini della società. Le loro condizioni di vita, i luoghi in cui erano obbligati a stare, impedivano loro di osservare tutte le prescrizioni rituali di purificazione religiosa e, perciò, erano considerati impuri. La loro pelle, i loro vestiti, l’odore, il modo di parlare, l’origine li tradiva. Tutto in loro generava diffidenza. Uomini e donne da cui bisognava stare lontani, avere timore; li si considerava pagani tra i credenti, peccatori tra i giusti, stranieri tra i cittadini. A loro – pagani, peccatori e stranieri – l’angelo dice: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11). Ecco la gioia che in questa notte siamo invitati a condividere, a celebrare e ad annunciare. La gioia con cui Dio, nella sua infinita misericordia, ha abbracciato noi pagani, peccatori e stranieri, e ci spinge a fare lo stesso. La fede di questa notte ci porta a riconoscere Dio presente in tutte le situazioni in cui lo crediamo assente. Egli sta nel visitatore indiscreto, tante volte irriconoscibile, che cammina per le nostre città, nei nostri quartieri, viaggiando sui nostri autobus, bussando alle nostre porte. E questa stessa fede ci spinge a dare spazio a una nuova immaginazione sociale, a non avere paura di sperimentare nuove forme di relazione in cui nessuno debba sentire che in questa terra non ha un posto. Natale è tempo per trasformare la forza della paura in forza della carità, in forza per una nuova immaginazione della carità. La carità che non si abitua all’ingiustizia come fosse naturale, ma ha il coraggio, in mezzo a tensioni e conflitti, di farsi “casa del pane”, terra di ospitalità. Ce lo ricordava San Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo» Nel Bambino di Betlemme, Dio ci viene incontro per renderci protagonisti della vita che ci circonda. Si offre perché lo prendiamo tra le braccia, perché lo solleviamo e lo abbracciamo. Perché in Lui non abbiamo paura di prendere tra le braccia, sollevare e abbracciare l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato, il carcerato (cfr Mt 25,35-36). «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo». In questo Bambino, Dio ci invita a farci carico della speranza. Ci invita a farci sentinelle per molti che hanno ceduto sotto il peso della desolazione che nasce dal trovare tante porte chiuse. In questo Bambino, Dio ci rende protagonisti della sua ospitalità. Commossi dalla gioia del dono, piccolo Bambino di Betlemme, ti chiediamo che il tuo pianto ci svegli dalla nostra indifferenza, apra i nostri occhi davanti a chi soffre. La tua tenerezza risvegli la nostra sensibilità e ci faccia sentire invitati a riconoscerti in tutti coloro che arrivano nelle nostre città, nelle nostre storie, nelle nostre vite. La tua tenerezza rivoluzionaria ci persuada a sentirci invitati a farci carico della speranza e della tenerezza della nostra gente.

In questo discorso, nel quale invano si cercherebbe un sia pur minimo afflato spirituale, un sia pur minimo senso della trascendenza, ma dove si trova sempre e soltanto quella che Antonio Socci ha chiamato “l’ossessione” di Bergoglio per il tema dei migranti, al novanta per cento falsi profughi i quali non sono affatto “costretti”, come dice il (falso) papa, a scappare dai loro Paesi, perché niente e nessuno li insegue e li forza, ma che sono guidati unicamente da ragioni di carattere economico, e in non pochi casi, da ragioni di delinquenza e di terrorismo, in questo discorso, dunque, Bergoglio paragona Gesù Bambino, con sua Madre e il suo padre adottivo, a una famiglia di profughi che vengono da molto lontano e che affrontano in terra straniera, fra mille difficoltà e incomprensioni, vittime di infiniti pregiudizi e di forme si sfruttamento, un destino ignoto, in cerca di una vita migliore. Niente di più falso; niente di più menzognero. Lo stesso Bergoglio ha ricordato, sulla base del racconto evangelico, che Maria e Giuseppe si misero in cammino verso Gerusalemme e Betlemme perché l’imperatore romano aveva indetto un censimento di tutta la popolazione. La coppia dei giovani sposi doveva uscire dalla Galilea, aggirare il territorio dei Samaritani (coi quali gli Ebrei non se la intendevano per niente) e poi salire a Gerusalemme, da cui Betlemme dista pochi chilometri, dopo aver costeggiato la sponda del fiume Giordano. Niente profughi, niente fuga, niente speranza di una vita migliore in un mondo diverso: ma tutto all’interno della Palestina, un Paese molto piccolo (l’odierno Stato d’Israele ha una superficie di 20.000 kmq: poco più del Veneto) e costantemente a contatto con gente della stessa razza, della stessa lingua, della stessa fede religiosa. Altro che migranti, traversate del deserto e del Mar Mediterraneo, barconi, viaggi clandestini a bordo dei Tir, magari nascosti sotto i veicoli, semi-assiderati dal freddo e semi-soffocati dai vapori di scarico. Non si vuol dire, con questo, che quello di Maria e Giuseppe sia stato un viaggio comodissimo; si vuol dire che è stato un viaggio assolutamente non paragonabile, neppure in senso simbolico e figurato, a quelli dei cosiddetti migranti dei nostri giorni. Sapete qual è la distanza fra Nazareth e Gerusalemme, in linea d’aria? Cento chilometri. E, a proposito, Gesù non è nato in una stalla perché i suoi genitori erano poveri, ma perché la città di Gerusalemme era sovraffollata di viandanti a causa del censimento, e tutti gli alberghi erano pieni. Certo, se Giuseppe fosse stato ricco, un letto glielo avrebbero pur trovato; ma non era affatto così povero da dover puntare senz’altro su una capanna di pastori. Quello fu un incidente di percorso: mentre cercava ospitalità presso qualche parente di Betlemme, probabilmente; certo che non credevano, né lui, né Maria, che la nascita del Piccolo fosse così imminente, altrimenti non avrebbero vagato per la campagna, a notte inoltrata. Perché un bambino possa venire al mondo con un minimo di sicurezza, non basta un tetto qualsiasi sopra la testa; ci vuole la presenza di qualcun altro, per ogni eventualità: di donne un po’ esperte, di una levatrice. Giuseppe non era un incosciente, e Maria nemmeno.
Il ricatto morale finale del discorso di Bergoglio, con quella pretesa di far credere ai cattolici che solo aprendo le frontiere dell’Italia a qualsiasi quantità di migranti/invasori islamici, si accoglie degnamente la nascita di Gesù Cristo, si fonda, in gran parte, su questo voluto equivoco. Gesù non era ricco, la sua famiglia non era ricca; ma non erano nemmeno poveri. Suo padre Giuseppe aveva un lavoro regolare e stimato dai paesani: era falegname, o forse carpentiere; il tenore di vita della sua famiglia era del tutto simile a quello medio dell’epoca, in Palestina. Gesù non è cresciuto fra gli stenti, così come non è nato in una mangiatoia per l’estrema miseria dei suoi genitori: questa è una favola, raccontata oltretutto in malafede, a cui non credono neppure i bambini. Ma Bergoglio era troppo ansioso di arruolare Gesù nell’esercito dei rivoluzionari, dei poveri che lottano per la giustizia sociale. Infatti, alla fine del suo comizio, pardon, della sua omelia natalizia, non esita ad adoperare espressioni come “tenerezza rivoluzionaria” per definire i sentimenti che Gesù ci ispira, volendo che noi apriamo le porte ai migranti: un concetto che non ha nulla di cattolico, nulla di religioso, e che piega il Vangelo alle logiche politiche di un pontificato interamente politico. Ma la “tenerezza rivoluzionaria”, non era quella di un certo Ernesto “Che” Guevara? Cosa c’entra una simile espressione per definire i sentimenti che Dio ispira agli uomini? Sembrano presi dal vecchio magazzino dell’ideologia marxista in disarmo: è un linguaggio che, in qualsiasi altra sede, farebbe semplicemente ridere, come già faceva sorridere perfino ai tempi d’oro del ’68 e della Contestazione studentesca; oggi, però, il (falso) papa se lo può permettere, senza che la gente rida, nella santa Messa di Natale, rivolgendosi a un miliardo e passa di cattolici. Complimenti: una mistificazione quasi perfetta, visto che hanno abboccato quasi tutti.
Quasi, però. A un certo numero di persone, il suo discorso non è piaciuto per niente. Non c’era in esso il senso del soprannaturale: si è dimenticato di ricordare che quel bambino era il Bambino; che non era solo un piccolo d’uomo, ma era Dio Incarnato per amore dell’umanità; oh, un’inezia, che volete che sia; un dettaglio da nulla. E i critici, ormai lo si sa, sono i soliti incontentabili, i soliti ultratradizionalisti, sordi e chiusi nel loro sfrenato e xenofobo nazionalismo italiano e nel loro viscerale e scriteriato integralismo cattolico, tipicamente e incorreggibilmente fondamentalista. Perché lo ha detto, il (falso) papa Beroglio, durante il viaggio “apostolico” in Myanmar, che anche noi cattolici abbiamo i nostri integralisti, come gli islamici hanno i loro. Certo, i loro ammazzano e sgozzano un po’ di gente, specialmente preti e cattolici inermi; i nostri, no. Ma che volete? Nessuno è perfetto, e anche questi son dettagli da nulla. Se non altro, ora sappiamo come la pensa su di noi…

Del 27 Dicembre 2017

26/12/17

La Boschi recita una parte già in uso Nell’800

La Boschi recita una parte già in uso Nell’800

La Boschi recita una parte già in uso Nell’800Maria Elena Boschi sostiene che “Dopo le audizioni di Vegas, Visco e Ghizzoni, tutti confermano che non c’è stata nessuna pressione... viene integralmente confermato il mio discorso in Parlamento del dicembre 2015... a larga parte delle opposizioni non interessa fare chiarezza sulle banche ma solo attaccarmi”. La Boschi sa bene che ora le conviene recitare la parte della vittima, e la giocherà per tutta la campagna elettorale, forte della sua immagine, del fatto che chiunque l’attacchi “certamente è un sessista” (per usare una metafora cara alla parte del Pd a lei vicina).
Ma le cose stanno in altro modo, di fatto il ministro dell’Economia Padoan è sempre stato molto impegnato su tantissimi fronti, e per questo aveva lasciato ampio spazio alla Boschi sulle vicende bancarie, quasi una delega. Così nel dicastero economico la Boschi conta su validi collaboratori, che l’hanno sempre coadiuvata per fronteggiare gli attacchi mediatici alla sua famiglia ed agli amici del padre, indiscutibilmente coinvolti nei crack bancari. Non si stenta a credere che, piuttosto che intrattenersi in lunghe colazioni di lavoro con Pier Carlo Padoan, i vari Vegas di Consob e banchieri optassero per piacevoli incontri con la Boschi. Incontri che la stessa ha ammesso, come è noto che, il dì seguente puntualmente, i potenti ricevevano la telefonatina di Carrai (potente renziano e amico della Boschi) che chiedeva come fosse andata la cenetta o la colazione. Un costume antico, rammenta avventurieri d’epoca romantica che, dopo aver mandato le ambasce della propria favorita a domicilio del dignitario di turno, erano soliti incontrare il potente al tabarin per chiedere lumi sulla favorita di Francia (in questo caso d’Italia), insomma se fosse stata all’altezza delle aspettative.
Nessuna allusione, certamente la Boschi non è una rediviva Margherita (la signora delle camelie), e si stenta a credere che col servilismo imperante possa saltar fuori un novello Alexandre Dumas disponibile farne un romanzo dell’intera vicenda. Risulterebbe difficile anche trovare un editore, forse sarebbe più facile che un cantautore, ispirato dalla memoria di Verdi, le dedichi una Traviata in salsa rock. «La Boschi metteva bocca su tutto: sulla riforma delle banche popolari e su tutto quello che riguarda il credito - ci rammenta Elio Lanutti dell’Adusbef - non ha nemmeno mai convocato il Cicr, il comitato sul credito e il risparmio che i precedenti governi consultavano spesso, in tempi meno turbolenti”. Insomma l’opera e le sue trame rievocano incontri ottocenteschi, quando uomini d’affari indebitati dicevano a coltissime cortigiane “madama sono nelle vostre mani…non mi resta che il veleno se dal suo incontro col potente amico non sortirà la salvezza per la mia situazione”.
Così la Boschi incontrava il vertice della Consob e Fabio Panetta di Bankitalia. “Le istituzioni sono una cosa seria quando si chiede di incontrare il presidente della Consob o il vice direttore di Bankitalia bisogna essere coscienti che non si fa un scampagnata. Gli incontri tra istituzioni si verbalizzano” sottolinea Lanutti. Di fatto non v’è prova d’altro, solo che la Boschi ha incontrato questa gente, per altro personalità vietate all’uomo di strada. Si è certi che non abbiano mai concesso nulla alla potente ministra renziana. E solo l’Altissimo può sapere fin dove si siano spinte le profferte. Perché nel caso della Banca Etruria (banca della famiglia Boschi) i contorni ancora sfuggono a tutti gli italiani ed a gran parte di quella classe politica che fa passerella tra Parlamento e Commissione sulle banche.
Questi incontri segreti, conditi dall’intrigante fascino della Boschi, incrementano lo sdegno in chi ha investito soldi (e in buona fede) nella banca dell’Etruria. Poi si sarebbe giustificato il pressing per salvare i poveri risparmiatori e non per annacquare le responsabilità d’una banca della famiglia Boschi.