 
 
Premessa storico-etnica
Il mosaico etnico-tribale, tenuto insieme per poco più di 42 anni dal 
colonnello Muammar Gheddafi, si articola in inestricabili divisioni 
etniche – nell’ambito di circa 140 tribù – che possono essere poste a 
premessa della cause principali della rivolta contro il Rais.
La Libia non è mai stato un Paese unitario e il territorio libico, non 
meno frammentato della popolazione, è articolato in tre grandi aree: 
Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Tripolitania – già area berbera e già 
Maghreb – e Cirenaica, appendice dell’Egitto, sono due regioni diverse, 
fra le quali c’è la Sirte, un deserto che separa queste due realtà, 
abitate da tribù differenti.
 
  
Tripolitania
 e Cirenaica fanno parte della fascia mediterranea verdeggiante ed 
abitabile, mentre il Fezzan è posto al centro del deserto del Sahara 
insieme al quale costituisce la linea di demarcazione fra “Africa 
bianca” ed “Africa nera”. La prima si estende dallo stretto di 
Gibilterra al canale di Suez, affacciandosi sul Mediterraneo, mentre 
l’altra si colloca a sud del deserto sahariano. La fascia mediterranea è
 ovviamente quella più fertile ed ospitale, mentre l’area meridionale è 
aspra ed inospitale.
Le due etnie principali del popolo libico sono gli arabi (circa 
4.500.000) e i Berberi (circa 500.000), gli uni suddivisi in miriadi di 
confraternite islamiche, gli altri in clan molto spesso in forte 
contrasto fra loro. Una terza etnia è costituita dai Tebu, (circa 
200.000), sparsi in un’area ai margini del Sahara che abbraccia Niger, 
Ciad e Libia e circa un milione di stranieri fra sudanesi, egiziani, 
nigeriani, maliani, ecc..
I Tebu – i cui usi familiari e sociali sono strettamente regolati 
dall’Islam – appartengono al gruppo etnico sahariano, ceppo etiope: sono
 pastori nomadi che impiegano soprattutto i dromedari, abitano in grandi
 tende smontabili e percorrono ampi spazi alla ricerca dei pascoli.
Per fare chiarezza sull’attuale intricata ed ingovernabile situazione
 libica occorre tracciarne una breve sintesi storico-etnica anche per 
comprendere le istanze della popolazione ed individuare gli sponsor 
esteri che ne alimentano le rivalità.
 Cirenaica
La regione è abitata prevalentemente da arabi che, giunti nell’area 
intorno al VII secolo d. C., hanno islamizzato il Maghreb. Sono 
essenzialmente di fede sunnita e sono organizzati in tribù fra cui i 
Qadhafa, tribù alla quale apparteneva Muammar Gheddafi.
Fra
 i principali diffusori dell’islam nell’area va annoverato Muhammad ibn 
Ali al-Sanusi (Algeria 1787 – Libia 1860), denominato al Sanusi da un 
suo maestro mussulmano. Sanusi faceva risalire la sua discendenza da 
Faṭima, figlia di Maometto e studiò in una madrasa di Fez (Marocco) per 
poi iniziare a viaggiare facendo il predicatore. Nel corso delle sue 
peregrinazioni approdò all’università religiosa al-Azhar de Il Cairo, 
ove divenne un consapevole critico  degli ulema egiziani che giudicava 
troppo ossequiosi nei confronti delle autorità ottomane.
Dall’Egitto passò in Arabia Saudita ove allacciò stretti contatti con
 i wahhabiti, all’epoca attivi contro l’Impero Ottomano, attirandosi le 
attenzioni ed i sospetti di quelle autorità. Sentendosi eccessivamente 
controllato ritornò verso la terrai origine e nel 1843 si stabilì vicino
 Derna costituendo la confraternita della Sanussiyya ed espandendo le 
sue teorie religiose – basate su austerità e semplicità di vita – in 
tutto il Maghreb.
La sua dottrina attrasse numerose tribù beduine il cui sistema di 
vita, semplice e spartano, non era cambiato molto rispetto ai primi 
insegnamenti del profeta Maometto.
La confraternita si compone di diverse zawiya (che significa “angolo” 
ovvero punto di incontro di due linee). E’ una comunità di fedeli 
disponibili a creare convergenze fra culture differenti in cui si 
ritrovano persone che si distinguono per superiorità d’ingegno, 
destinate a costituire la futura classe dirigente del paese. Sulle 
zawiya, che assolvono anche le funzioni di madrase, ospedali e luoghi di
 accoglienza peri viaggiatori, Idris fondò la sua autorità in Cirenaica.
Il fondatore della senussiya – Muhammad ibn Ali al-Sanusi – era un 
mistico, un sufi, un uomo che asseriva di essere in  contatto con Dio, 
dotato di grande autorità derivante dalle numerose capacità attribuitesi
 e cioè: legittima guida spirituale, attività psicoterapeutiche, baraka,
 ovvero potere di impartire la benedizione di Dio, potere di operare 
grazie e miracoli.
Per queste asserite doti era ritenuto uno dei pochi eletti da Dio ed 
inoltre, in quanto sufi, nel comunicare ai devoti (solo a coloro 
giudicati degni) la via per  raggiungere Allah attraverso la preghiera, 
veniva investito anche del  titolo di Scheik. Egli gestì sapientemente  
questi fattori religiosi anche in politica, tant’è che solo lui poteva 
vantare in Libia una così imponente autorità politico-religiosa.
Nel 1855 al Sanusi si sottrasse ulteriormente dalla diretta 
sorveglianza delle autorità ottomane e si spostò ad al-Jaghbub (attuale 
Giarabub), a pochi chilometri dal confine egiziano ove morì nel 1860, 
lasciando suoi eredi i figli, Muḥammad Sharif e Muḥammad al-Maḥdi, ai 
quali affidò la successione della confraternita. Negli anni successivi, 
dopo l’insediamento di Derna e di Giarabub, fiorirono numerose altre 
zawiya: soprattutto a Misurata, a Benghazi ed a Zuila (Fezzan). 
L’attività di proselitismo dei numerosi ed intraprendenti adepti della 
confraternita si estese sia  nella  maggior parte delle città della 
Libia sia in regioni (vilâyet) ad di fuori di essa: verso il  Nord del 
Ciad e del Niger, verso l’Ovest dell’Egitto ed il Nord del Sudan, nonché
 verso il Sud della Tunisia e dell’Algeria.
 
  
Nel
 1911 ambizioni coloniali italiane spinsero il “governo Giolitti“ a 
tentare la conquista della Cirenaica e della Tripolitania, ultime 
province ottomane nel nord Africa non ancora occupate dalle potenze 
europee.  Negli ultimi anni del 19° secolo, il dominio turco sulla 
Tripolitania é stato rivendicato dall’Italia e nel 1887 i Britannici, 
allo scopo di stornare le ambizioni di Roma sull’Africa Orientale e, nel
 contempo, limitare quelle francesi per un’espansione a sud del 
Mediterraneo, favorirono il progetto italiano  di espansione in Libia. 
Nel 1902, anche la Francia lasciò le mani libere all’Italia, in cambio 
del riconoscimento dei suoi diritti sul Marocco.
La guerra durò un anno e nel 1912 venne firmato un trattato di pace a
 Losanna con il quale le parti convenivano l’annessione della  
Tripolitania e della Cirenaica all’Italia che vi avrebbe esercitato 
l’amministrazione militare e civile mentre la Turchia ne manteneva 
quella giuridica e religiosa.La resistenza della popolazione al dominio 
italiano fu notevole e divenne ancora più pressante quando l’Italia nel 
1914 entrò in guerra a fianco della Triplice Intesa e contro l’Impero 
Ottomano.
Nel 1916 la responsabilità della Senussyya passò nelle mani di Sidi 
Muhammad Idris al-Mahdi al-Senusi, (Giarabub, 1890 – Il Cairo 1983)  – 
dopo la rinuncia dello zio Muhammad al-Sharif al-Senusi – che sobillò 
tutte le tribù arabe in una sanguinosa guerriglia contro l’occupazione 
italiana, fomentato dalla Turchia.
 
  
Alla
 fine della prima guerra mondiale, nel 1920, Idris venne riconosciuto 
dagli Italiani come capo della confraternita con il titolo di Emiro 
della Cirenaica e della Tripolitania, affiancati in questo 
riconoscimento dai Britannici che intendevano mantenere tranquilli i 
senussi dell’area occidentale egiziana.
In qualità di emiro, Idris cercò di negoziare l’indipendenza della 
Cirenaica e della Tripolitania, ma nel 1922, quando gli Italiani 
cominciarono ad occupare militarmente anche i territori del Fezzan, si 
ritirò in esilio in Egitto, base dalla quale organizzò la guerriglia 
contro il governo coloniale italiano.
Nel corso del periodo di dominazione italiana (1911-1943) la 
confraternita senussita ha giocato il ruolo di “aggregante nazionale” 
alla stregua di un movimento nazionalista. Per questo motivo Idris el 
Senusi è stato considerato come il “padre fondatore” della nazione, 
perlomeno nella Cirenaica e nel Fezzan. Durante la seconda guerra 
mondiale, i Senussi adottarono un atteggiamento strumentalmente 
filo-britannico per impedire che la Cirenaica cadesse nuovamente in mano
 italiana ed Idris nel 1942, dopo la sconfitta dell’esercito 
italo-tedesco, fece ritorno a Bengasi, dove formò un governo ufficiale, 
sotto il protettorato britannico ed a partire dal 1943, con le forze 
dell’Asse respinte verso la Tunisia, iniziò ad amministrare la Cirenaica
 e la Tripolitania, mentre la Francia, da parte sua, occupava il Fezzan.
 
  
Da
 Bengasi, Idris stesso guidò la delegazione che trattò con il Regno 
Unito e le Nazioni Unite l’indipendenza libica, ottenuta il 24 dicembre 
1951 quando fu proclamato Re della Libia col titolo di Idris I.
La Libia, ottenne l’indipendenza il 10 agosto 1952 con l’evacuazione 
francese del Fezzan, riunificando tre entità autonome in uno stato 
federale e costituzionale.
La concessione dell’indipendenza, a uno Stato non in grado di 
finanziarsi autonomamente, è equivalso a porlo sotto il controllo di USA
 e Gran Bretagna – infatti, re Idris consentì una presenza militare 
delle due potenze in cambio di aiuti finanziari – con esclusione 
dell’Italia e della Francia dal controllo del territorio libico, tentato
 dal fallito compromesso Bevin-Sforza. Inoltre l’indipendenza della 
Libia, segna la dominazione della Cirenaica sulla Tripolitania ed il re 
Idris incentra la sua monarchia costituzionale sulla sua tribù, i 
Barasa, alleata con le altre tribù della Cirenaica, invece che sulla 
confraternita senussita.
Nel periodo 1951 – 1954:
-    con i Britannici fu firmato un trattato di alleanza militare, in 
virtù degli speciali rapporti da sempre intercorsi con re Idris 
risolutamente filo-inglese;
-    con gli Statunitensi – verso cui il re e gli ambienti politici 
libici nutrivano una maggiore diffidenza- non si andò oltre un semplice
 accordo per l’affitto della base aerea di Wheelus Field (Tripoli). Per 
tale motivo gli stessi  Statunitensi saranno sempre contrari a un 
completo ritiro inglese dalla Libia e non potranno mai sostituirsi 
completamente alla Gran Bretagna nello scacchiere libico.
In conformità con la Costituzione, il regno aveva un governo federale
 con  tre Stati autonomi: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan e due 
città-capitale Tripoli e Bengasi. Tale struttura governativa fu abolita 
nel 1963 ed il territorio venne riorganizzato in 10 governatorati.
La politica di allineamento del nuovo regno con l’Occidente generò la 
contestazione popolare che si estese progressivamente a macchia d’olio, 
alimentata da tre principali correnti di pensiero: baathista, nasseriana
 ed islamista (Fratelli mussulmani). Inoltre, gli introiti della vendita
 del petrolio oltre a far venir meno la necessità degli aiuti economici
 alla Libia, rendevano anche poco opportuna oltre che pericolosa la 
presenza militare anglo-americana sul suolo libico.
 
  
Nel
 1969 Re Idris fu indotto ad abdicare in favore di Sayyid Ḥasan che, 
come nuovo re di Libia e capo della confraternita della Sanūsiyya, fu 
monarca per brevissimo tempo in quanto il 5 settembre 1969 fu 
incarcerato da Gheddafi e detenuto per lunghi anni. Tuttora la sede 
della ṭarīqa dei Senusi, che si presenta come un movimento 
politico-religioso moderato, è a Londra.
Tripolitania 
Il nome deriva dal greco Tripolis (cioè tre polis), le tre principali
 città di origine punica della costa occidentale della Libia Oea 
(attuale Tripoli), Sabratha e Leptis Magna. In origine, la regione era 
abitata dai Berberi che nel VII secolo a.C. furono conquistati dai 
fenici, poi passarono sotto il controllo dei cartaginesi e più tardi dei
 romani che fecero della Tripolitania un’area molto prospera. A partire 
dal V secolo d.C. l’area fu invasa da vandali e bizantini che, 
mescolandosi con la popolazione autoctona, ne hanno alterato 
notevolmente la fisionomia etnica, spingendola anche al nomadismo, 
tant’è che molte tribù berbere si trovano anche nell’area sahariana.
L’entità numerica dei libici che appartiene a questa etnia – 
maggiormente diffusa in Marocco, Algeria e Tunisia – è difficile da 
quantificare, ma secondo recenti stime si aggira tra il 10 e il 23% 
della popolazione.
La maggior parte di essi appartiene alla setta religiosa kharigita, una 
frangia oltranzista dell’Islam definita eretica da sciiti e sunniti. La 
loro particolare interpretazione dell’Islam non viene accettata dalle 
due correnti maggioritarie in quanto:
•    conferiscono particolari ed innovative interpretazioni all’istituto
 califfale (non previsto né dal Corano, né dalla Sunna) accettando 
espressamente una guida politica e militare anche da parte di una donna;
•    indicano come buon musulmano colui che non pecchi per non perdere 
la sua qualifica e la vita e sia irreprensibile sotto il profilo morale a
 prescindere dal gruppo etnico, dallo statuto giuridico e dal sesso.
Non mancano al loro interno anche tribù di fede cristiana, convertiti nell’ultimo secolo da missionari cattolici.
Il termine “Berberi” – che nella loro a lingua vengono chiamati 
Imazighen (al singolare Amazigh), cioè “uomini liberi”, deriva dal 
termine francese berbère, tratto a sua volta dall’arabo barbar, che 
probabilmente riproduce la parola greco-romana barbaro (chi non parlava 
il latino o il greco) – contraddistingue  una popolazione che non ha mai
 effettuato guerre di conquista ma solo subito dominazioni altrui che 
spesso ha contrastato aspramente ed efficacemente.
La popolazione berbera nell’area del Maghreb è emarginata dai governi
 arabi e gli Europei, che nei Berberi vedono soprattutto pittoreschi 
elementi folkloristici, utili per attirare i turisti, si adeguano ai 
cliché offerti da questi governi. Per uscire dallo stato di 
emarginazione e rappresentare le istanze, unitamente agli interessi ed 
ai diritti negati, sono sorte molte associazioni culturali berbere che, 
dal 1997, hanno dato l’avvio ad un’organizzazione sovrannazionale 
indipendente denominata “Congresso Mondiale Amazigh”, che mira a 
rappresentare, con una voce unica a livello internazionale le 
associazioni culturali berbere sorte in ogni parte del mondo. Il 
Congresso è una organizzazione non governativa nata nell’estate del 1994
 a Douarnenez, in Bretagna (Francia), dove erano convenuti i 
rappresentanti di molte associazioni, per partecipare al 17º festival 
del Cinema di Douarnenez (21-28 agosto), dedicato quell’anno alla 
cultura dei Berberi. Il congresso si concluse con una “Dichiarazione di 
Douarnenez sui diritti identitari, culturali e linguistici degli 
Imazighen” e con l’impegno di fondare un Congresso Mondiale Amazigh, che
 ha visto la luce nel settembre 1995 a Saint-Rome-de-Dolan, un piccolo 
borgo nel sud della Francia, costituito come associazione retta dalle 
norme giuridiche del diritto francese. La sua sede è stata fissata a 
Parigi, presso i locali dell’Associazione Tamazgha.
Fezzan
 E’ una regione posta nel cuore del deserto del 
Sahara, confinante a ovest con l’Algeria, a sud col Niger e il Ciad, 
tutte aree disseminate da jihadisti. La maggior parte del territorio è 
un deserto di sabbia, ciottoli e rocce, con oasi abitate da Berberi 
(imazighen), Tebu e Tuareg, popolo di origine berbera. La Libia ha 
cercato di sviluppare la sedentarietà della popolazione (circa 500.000) 
creando infrastrutture e impianti di irrigazione in questa regione con 
l’aiuto della rendita petrolifera, ma l’irrigazione artificiale 
rappresenta un rilevante pericolo di salinizzazione del suolo.
Le tribù Tuareg sono di natura nomade e vivono soprattutto nel deserto. 
Sono anche chiamati ‘gli uomini blu del Sahara’ per il colore del 
caratteristico turbante che indossano.
Le tribù Tebu vivono soprattutto nella zona meridionale delle montagne 
Harouj (un grande campo vulcanico che si estende per circa 45 mila km 
quadrati  al centro della Libia), nell’est del Fezzan e nell’area vicina
 al confine con l’Algeria.
Tutte e tre le etnie, dedite alla pastorizia e al nomadismo, sono 
islamizzate anche se la loro fede non è fortemente radicata tant’è che 
sussistono anche correnti animiste e pagane.
Risorse
Fino al 1950 la Libia era considerata uno dei paesi più poveri del 
mondo, a causa della scarsa produttività del territorio, ma nel 1959, in
 seguito alla scoperta ed allo sfruttamento di giacimenti di petrolio, 
nazionalizzati dopo il 1970, ha registrato nel 1977 il reddito annuo pro
 capite più elevato del continente africano.
La
 Libia possiede circa il 3,5% delle riserve mondiali di petrolio, più 
del doppio di quelle degli Stati Uniti e, con 46,5 miliardi di barili di
 riserve accertate, (10 volte quelli d’Egitto), supera la Nigeria e 
l’Algeria (Oil and Gas Journal).
Le sue riserve di gas a 1.500 miliardi di metri cubi, ma la sua 
produzione è stata tra 1,3 e 1,7 milioni di barili al giorno, ben al di 
sotto della capacità produttiva secondo i dati della National Oil 
Corporation (NOC) che ha come obiettivo a lungo termine tre milioni di 
b/g ed una produzione di gas di 2.600 milioni di piedi cubi al giorno 
(23 marzo 2011  dematawordpress.com).
La Libia che non disponeva né di mezzi, né di tecnologie, né di 
esperienze estrattive dovette ricorrere ai Britannici e l’esportazione 
del petrolio libico ebbe inizio nel 1959 prevalentemente sotto monopolio
 inglese ed americano che avevano ottenuto anche la concessione di basi 
militari – rispettivamente “El Adem” a Tobruk (Gran Bretagna), “Wheelus 
Field” Tobruk a Tripoli (Stati Uniti) – gestendo anche i posti chiave 
dello Stato. L’avvento del regime di Gheddafi, oltre a nazionalizzare le
 risorse petrolifere e le attività produttive, investì anche 
nell’industria leggera e nella modernizzazione dell’agricoltura, 
favorendo contestualmente l’immigrazione, per sopperire alla scarsità di
 manodopera.
L’agricoltura
 non è sufficientemente sviluppata, sia per la limitata superficie 
coltivabile sia per la scarsità di acqua, anche se sono state effettuate
 operazioni di bonifica dei terreni agricoli e di incremento delle 
risorse idriche con opere di sbarramento e con l’utilizzo di acque 
fossili.
Il decaduto regime ha cercato anche di sviluppare una rete di servizi
 alle imprese, alla finanza, al commercio interno ed alla persona ma con
 scarso successo.
Pertanto buona parte delle ricchezze del Paese risiede nei proventi 
dell’esportazione di petrolio e gas naturale, di cui la Libia è il 
secondo produttore del continente africano dopo la Nigeria, destinati 
soprattutto all’Italia (39%) ed inoltre a Germania, Spagna, Turchia, 
Francia, Svizzera. Vengono in cambio importati beni industriali e 
alimentari, principalmente dall’UE, Italia in testa.
Situazione attuale
Le premesse della situazione attuale vanno ricercate agli inizi delle 
cosiddette “primavere arabe” quando, con un effetto domino, i paesi 
della sponda sud del Mediterraneo furono scossi, quasi 
contemporaneamente, da una serie di proteste violente, organizzate con 
l’impiego di social network (Facebook e Twitter) e con i “network della 
moschea o del bazar”, a dispetto dei tentativi di repressione statale.
Molte
 sono state le cause che hanno favorito le ribellioni e fra le 
principali vanno annoverate: le precarie condizioni di vita che in molti
 casi rasentavano la povertà estrema, la crescita del prezzo dei generi 
alimentari che ha portato alla fame, la corruzione, l’assenza di libertà
 individuali e la violazione dei diritti umani.
Le proteste sono cominciate il 18 dicembre 2010 in seguito 
all’estremo gesto del tunisino Mohamed Bouazizi – si è dato fuoco per i 
maltrattamenti subiti da parte della polizia – che ha scatenato alla 
fine di dicembre la “rivoluzione dei gelsomini”.
In Algeria, all’inizio di gennaio 2011, l’impennata dei prezzi di prima 
necessità – tra cui pane, olio e zucchero – la corruzione, la 
disoccupazione giovanile e la povertà hanno provocato proteste e scontri
 con la polizia, nei quali hanno perso la vita due persone e diverse 
sono state ferite. Il governo è intervenuto con una serie di iniziative 
fra cui misure  economiche e sociali, per combattere la disoccupazione 
giovanile, impegnandosi a sostenere la realizzazione di posti di lavoro e
 la costruzione di migliaia di alloggi.
 
  
In
 Giordania le manifestazioni violente sono iniziate il 14 gennaio per 
protestare contro la corruzione, la povertà, la fame e la disoccupazione
 chiedendo le dimissioni del governo. Per evitare una deriva violenta 
della protesta, nei primi di febbraio il re ha deciso un cambio al 
vertice governativo, affidando al nuovo incaricato il mandato di avviare
 un processo di riforme per un miglioramento economico e sociale.
In Yemen, a partire dal 18 gennaio 2011, sono esplose manifestazioni 
contro il regime che poi si sono estese rapidamente a tutto il Paese a 
causa dell’aumento del carovita e dello stato di povertà della 
popolazione, causando una ventina di morti. I disordini più violenti 
sono stati registrati nella capitale Sana’ ed in altre località, dove 
predomina l’egemonia dell’opposizione secessionista che ha chiesto la 
ricostituzione dello Yemen del Sud. Le manifestazioni, avvenute nella 
capitale il successivo 18 marzo, sono state represse nel sangue ed il 
presidente Saleh ha sciolto l’esecutivo per procedere alla formazione di
 un nuovo governo.
A
 giugno il presidente è rimasto vittima di un grave attentato e dopo 
essere guarito ha negoziato una tregua con i ribelli del sud, peraltro 
infiltrati da elementi di al-Qaeda, promettendo elezioni anticipate, un 
governo di coalizione ed una riforma istituzionale. Ma gli scontri nel 
sud non sono ancora terminati.
In Siria il 26 gennaio 2011, Hasan Ali Akleh da Al-Hasakah (siriano 
di origine curda) si è versato addosso benzina e  si è dato fuoco in 
segno di protesta contro il governo siriano. Inizialmente si sono 
sviluppate proteste pacifiche via via aggravatesi, a causa della 
risposta dura e violenta del regime, in una ribellione popolare, poi 
precipitata in guerra civile ancora in atto.
Nel Sahara Occidentale, a partire dal 2 febbraio 2011, si sono 
verificate manifestazioni contro il Marocco per il controllo politico 
dell’area occidentale  e contro la gestione dell’estrazione delle 
risorse naturali, che hanno fatto registrare atti di vandalismo, 
violenti incidenti e feriti.
 
  
Il
 16 febbraio 2011 a Bengasi, Libia, sono avvenuti scontri fra 
manifestanti – amareggiati per l’arresto di un attivista dei diritti 
umani – e la polizia, sostenuta da militanti del governo. La repressione
 dura ha fatto dilagare, il giorno successivo, la protesta nel paese 
innescando un conflitto del tutto simile alla guerra civile – tuttora in
 corso – che ha provocato la cattura e l’uccisione di Muammar Gheddafi 
il 20 ottobre 2011.
Il 20 febbraio 2011, migliaia di persone hanno manifestato a Rabat, 
Casablanca e in altre città del Marocco per chiedere riforme 
democratiche, protestando contro il governo del paese. Le proteste sono 
state organizzate da gruppi di giovani che mediante Facebook hanno 
lanciato inviti alla dimostrazione. L’intervento delle forze di 
sicurezza e l’avvio del dialogo con emissari governativi che hanno 
promesso “riforme politiche, economiche e sociali”, poi confermate dal 
sovrano, hanno fatto rientrare i disordini.
Il 25 febbraio 2011 a Il Cairo, Egitto, si sono verificati violenti 
scontri fra polizia e manifestanti, protrattisi fino all’11 marzo con le
 dimissioni del presidente Hosni Mubarak.
Anche l’Arabia Saudita non è rimasta esente da proteste avviate, nei 
primi di febbraio, dalla minoranza sciita ubicata nelle aree petrolifere
 orientali, mettendo in atto una manifestazione pacifica per chiedere la
 liberazione di attivisti reclusi.
A tali manifestazioni si è aggiunto, a fine febbraio, il lancio su 
internet di un appello di intellettuali che hanno chiesto riforme 
politiche, economiche e sociali e la creazione di una “monarchia 
costituzionale” con la “separazione dei poteri”. Le promesse di riforme 
da parte del re Abdallah e gli interventi delle autorità saudite hanno 
via via anemizzato il contenzioso.
La contestualità temporale di tali eventi, accaduti si può dire 
secondo un “effetto domino”, associata alla medesima identità degli 
ispiratori, promotori e fomentatori – individuabile nei “Fratelli 
Mussulmani” – nonché ai collegamenti ed alle connessioni dei vari leader
 rivoltosi con medesimi sponsor esteri, consentono di dubitare della 
loro spontaneità inducendo a pensare che abbiano subìto un periodo di 
incubazione.
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Primavere arabe

██ Guerra civile (Siria)
 
██ Allontanamento o morte del capo di stato (Tunisia)
██ Conflitti armati e cambiamento nel governo (Libia , Egitto,Yemen)
██ Cambiamento del primo ministro (Marocco, Giordania, Oman, Kuwait)
██ Proteste maggiori (Algeria, Iraq)
██ Proteste minori (Arabia Saudita, Sudan, Somalia, Mauritania, Sahara Occidentale)
██ Proteste collegate (in grigio scuro)
██ Assenza di proteste (in grigio chiaro)
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Secondo alcune fonti, infatti, le rivolte sarebbero state pianificate 
dal Dipartimento di Stato americano assieme ad alcuni dissidenti dei 
vari governi arabi, ben prima del loro scoppio allo scopo di 
democratizzare i regimi di quei paesi. A sostegno di tale ipotesi 
vengono posti:
-    il discorso di Barack Obama tenuto a Il Cairo il 4 giugno del 
2009 indicato dalla stampa col titolo ” Con l’Islam un nuovo inizio”, 
nel quale rivolgendosi al mondo arabo e islamico, auspicava 
sostanzialmente un grande piano di collaborazione e rinnovamento 
politico-democratico dei paesi mediorientali;
-    la presenza, durante le sommosse e nei cortei pacifici di 
dissidenti locali, addestrati, armati e finanziati da organizzazioni 
legate al Dipartimento di Stato americano fra cui la Freedom House 
(organizzazione indipendente dedicata all’espansione della libertà in 
tutto il mondo) e il Fondo nazionale per la democrazia  (noto come 
National Endowment for Democracy, NED, una fondazione privata – senza 
scopo di lucro -  dedicata alla crescita e al rafforzamento delle 
istituzioni democratiche in tutto il mondo);;
-    l’esistenza di una fondazione in Serbia, denominata Canvas, (Centre
 for Applied Non Violent Action and Strategies), legata al Dipartimento 
americano, che addestra giovani rivoluzionari all’uso dei metodi non 
violenti e che – ironia della sorte – ha la sua sede in Ulica Gandjieva,
 ovvero viale Gandhi, a Belgrado;
-    le intese  a Londra, sotto gli auspici britannici,  fra Fratelli 
Mussulmani libici colà rifugiati e Sayf Gheddafi per convincere il padre
 – Muammar Gheddafi – ad instaurare  buoni rapporti con la Fratellanza 
per un nuovo corso in Libia;
-    l’annuncio fatto il 2 novembre del 2010, da Francia e Gran Bretagna
 riguardante lo  svolgimento di giochi di guerra (war games) nel corso 
dell’operazione militare congiunta denominata “Southern Mistral 2011”, 
contro un nemico virtuale, a cui fu dato il nome di Southland, cioè 
“terra del sud”, verosimilmente la Libia. Lo scenario previsto nei war 
games – mai effettuati – è stato il medesimo di quello attuato da 
Francia e Gran Bretagna nel corso del loro intervento in Libia del marzo
 2011.
“A pensar male si fa peccato, però ci si azzecca sempre”, per cui 
queste evidenze appaiono non più come strane coincidenze ma come 
progettualità per la realizzazione di due opposte strategie: la 
ricomposizione del disfatto Impero Ottomano – da una parte -  secondo il
 progetto del grande califfato sognato da Osama bin Laden, ad opera 
dell’ala estremista dei Fratelli Mussulmani, unitamente alle confessioni
 ad essa collegate, dall’altra quella del Grande Medio Oriente già 
tentata dalla Nato (soprattutto USA e GB) nel 2004 e respinta 
sdegnosamente dai Paesi arabi-islamici e disapprovata dall’ONU.
In Libia, con gli eventi del 17 febbraio 2011 si è scatenata la 
rivolta della Cirenaica, avviata da un attentato suicida contro una 
caserma di Bengasi, seguito da un’insurrezione guidata da jihadisti, ben
 presto affiancata da una gran parte della popolazione, che non aveva 
dimenticato la repressione del 1993. In tal modo Gheddafi perse il 
controllo della Cirenaica, ma mantenne le alleanze tribali della 
Tripolitania e del Fezzan, che gli rimasero fedeli e con l’appoggio di 
queste ripartì alla conquista della provincia ribelle, così come era 
già avvenuto nel 1993.
Ma
 la Francia, in primis, seguita dall’Inghilterra e dagli USA e poi 
dall’alleanza occidentale, giustificarono il rispettivo intervento con 
la scusa della libertà e della democrazia. Ma, più probabilmente, con 
la recondita motivazione di ridimensionare una posizione economica di 
privilegio dell’Italia nella regione, decisero che il colonnello libico 
era ormai arrivato al capolinea.
Gli interessi nazionali in Libia, in quel periodo, erano:
•    Eni, ex Ente Nazionale Idrocarburi, presente in Libia dal 1959 
quando l’Agip ottenne dallo Stato libico la concessione ’82 nel deserto 
del Sahara Sud-orientale;
•    numerose aziende italiane, fra cui: Bonatti, Garboli-Conis, 
Maltauro, Trevi e l’Anas  che si era aggiudicata la gara per il servizio
 di advisor  per la realizzazione dell’autostrada Ras Adjir-Emsaad, 
lunga 1750 chilometri (dal confine tunisino a quello egiziano) 
attraversando completamente tutto il territorio libico; Finmeccanica, 
società aerospaziale italiana, che aveva firmato nel 2009 un accordo di
 cooperazione in ambito aerospaziale, con la Libya African Investment 
Portfolio creando una joint-ventures 50-50.
 
  
Inoltre, Finmeccanica aveva siglato un contratto con la Libia per la costruzione di linee ferroviarie;
•    grandi imprese di telecomunicazioni come la Sirti, che insieme alla
 francese Alcatel, era stata ingaggiata per la realizzazione di 7000 
chilometri di cavi di  fibre ottiche; la società̀ milanese, Prysmian 
Cables & Systems, che si era aggiudicata un contratto da 35 milioni 
di euro per la messa in posa di cavi a banda larga nella rete del GPTC 
(General Post and Telecommunication Company) libico;
•    interessi  finanziari della Unicredit che aveva fra i principali 
azionisti libici la Central Bank of Libya e la Libyan Investments 
Authority e partecipazioni azionarie della Libyan Arab Foreign 
Investments Company (Lafico) – banca statale libica – poi sostituita 
dalla Libyan Investments Company (LIC) nel gruppo automobilistico FIAT.
Dopo poco più di 42 lunghi anni di potere cadde un rais arabo che, 
bene o male, aveva mantenuto unite tre entità territoriali etnicamente, 
storicamente e politicamente diverse.
L’ odierna “rivoluzione” libica, quindi, non è né democratica né 
spontanea: la scintilla della rivolta è scoccata mediante l’invito alla 
sollevazione, per il giorno 17 febbraio, diffuso sulla rete, in 
concomitanza degli scontri del precedente giorno 16 fra polizia e 
manifestanti, scontenti per l’arresto di un attivista dei diritti umani –
 al quale hanno aderito un gran numero di giovani libici – ed in 
sincronia con le altre manifestazioni in corso nel mondo arabo.
 
  
 La “rivoluzione” sembra quindi costituire la materializzazione sul 
terreno di queste opposte progettualità, alle quali occorre aggiungere 
anche una sorta di rivalsa della confraternita senussita – emarginata 
dalla rivoluzione di Gheddafi – finalizzata ad instaurare in Libia 
quell’islam radicale combattuto dal Rais. In sostanza: Cirenaica contro 
Tripolitania e strutture militari lealiste contro entrambe nel tentativo
 di ripristinare una parvenza di legalità, con completo abbandono del 
Fezzan a se stesso, divenuto ormai crocevia di associazioni criminali e 
jihadisti, nonché serbatoio utile per alimentare, con armi e droga, 
opposti estremismi.
La disgregazione delle forze militari del regime di Gheddafi ha 
favorito la formazione di milizie ribelli che hanno occupato città e 
porzioni di territorio, assurgendo – con il passare delle settimane – a 
gruppi di potere locali ed esercitando un controllo territoriale 
circoscritto. Non essendo state rapidamente disarmate ed inglobate in un
 esercito nazionale, hanno poi costituito entità̀ autonome di governo in
 territori strategici e nelle città occupate, come la capitale e 
l’aeroporto di Tripoli, svolgendo di fatto un ruolo di mantenimento 
dell’ordine ma al di fuori di un univoco e consolidato quadro giuridico.
Queste
 milizie, pur garantendo l’ordine e sostituendosi alle forze di polizia o
 all’esercito nella gestione dei loro territori, impediscono però al 
Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) di avere il legittimo monopolio
 dell’uso della forza e di svolgere efficacemente un’azione di governo.
Il disegno appare confermato dall’autoproclamazione, nel decorso mese
 di ottobre, di Derna a Stato Islamico della provincia orientale di 
Barqa (vecchia denominazione della Cirenaica prima del 1951), unitamente
 alle milizie alleate, nonché dal completo controllo di Tripoli e del 
suo aeroporto internazionale ad opera del gruppo estremista islamico 
“Fajir Libia” (Alba della Libia), diventato snodo di transito per i 
jihadisti.
La Libia ha sempre visto l’esistenza di due territori importanti come
 la Tripolitania e la Cirenaica ed una terza, un po’ negletta, il 
Fezzan, tutte con culture ed ideologie completamente diverse, anche se 
si è cercato di considerala come una nazione, amalgamata da invasioni, 
sottomissioni e dittature.
 
  
Il
 vero ed unico collante – difficilmente individuabile per i ”non addetti
 ai lavori” – che, per quasi due secoli ha tenuto insieme, ma non 
unificato, queste diverse realtà etnico-tribali, è rappresentato  da 
quel credo religioso diffuso nell’area dalla Senussiya. La confraternita
 è tuttora detentrice di una fede ispirata non solo ai principi ed ai 
valori dell’Islam sunnita (“scuola” malikita – confessione in cui si 
riconosce la maggioranza dei maghrebini), ma anche ad un’esclusiva 
“lettura” ed interpretazione di tale confessione, professata e diffusa 
da una tariqa mistico-propagandista-militante.
La confraternita, infatti, non predica soltanto il ritorno dei fedeli al
 Corano ed alla Sunna ma rifiuta l’“imitazione” (taqlid) degli 
insegnamenti dei principali e tradizionali Saggi dell’Islam.
Inoltre, esige che vengano seguite – senza discuterle – le decisioni 
della sua Autorità religiosa nei vari campi, sulle quali non ammette 
critiche né discussioni. Questa concezione e questa pratica  dell’Islam 
sono state contestate (o quanto meno biasimate), dalla maggioranza dei 
teologi delle altre “scuole” sunnite nonché da quelli della “scuola” 
malikita.
La conduzione politico-culturale-religiosa della confraternita ha 
assunto, in Libia,  fin dall’inizio un carattere tipicamente dinastico e
 gerarchico, mantenuto successivamente da tutti i naturali discendenti 
del primo fondatore.
La setta si è strutturata secondo un’organizzazione gerarchica che, 
ancora oggi – pur se proibita in Libia durane il regime di Gheddafi – è 
composta da:
-    lo Sheikh Supremo (o Sceicco, detentore della “Santa Barakah, il potere di impartire la benedizione di Dio)
-    ”), ovvero il vertice. Carica e responsabilità tuttora rivestite 
dall’ultimo rampollo, in ordine di tempo, della famiglia del primo 
fondatore: cioè, da Sayyed o Sidi Muhammad bin Sayyed Hasan ar-Rida 
al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1992 – fino ad oggi) che continua a 
dirigere la confraternita con molta discrezione e diplomazia, dal suo 
confidenziale esilio di Londra;
-    tre alti dignitari: il Gran Khalifa (o Vicario dello Sceicco), 
l’Ukil o l’Uqil (o Amministratore/Tesoriere) ed il Responsabile dei 
tolba (gli studenti coranici) delle zawiya della setta, che seguono 
subito dopo;
-    una serie di Sheikh el-zawiya, cioè di responsabili – ufficiali e 
qualificati – dei diversi Centri religiosi regionali della 
confraternita, subalterni ai precedenti tre;
-    una moltitudine di medi e piccoli Mokkaddem (direttori o 
soprintendenti), dislocati nelle diverse regioni e province di maggiore 
interesse della senussiya, sottomessi ai precedenti, con l’incarico 
speciale di svolgere la delicata ed aggregante mansione di predicatori 
itineranti.
Al più basso “gradino” di quest’ordine gerarchico si trovano gli 
affiliati  alla setta che, a loro volta, sono differenziati – a seconda 
della loro personale sensibilità, del livello di convinzione e della 
preparazione spirituale – in responsabili di cellula, militanti e 
semplici aderenti o simpatizzanti.
Tutti i dignitari – per rivestire le cariche ed esercitare le mansioni 
attribuite – devono essere in possesso del “diploma mistico” (Ijéza o 
Igéza), che viene conseguito esclusivamente all’interno della setta, 
frequentando e superando lunghe, esigenti ed intransigenti procedure 
ideologico-teologico-religiose.
Questa peculiare comunità di fedeli si presenta come un’organizzazione 
di iniziati ideologico-religiosi (khuan) particolarmente ordinata, 
affiatata e strutturata come un organismo “para-militare”, per cui i 
singoli membri non sembrano essere solo degli inoffensivi adepti che 
obbediscono alle prescrizioni religiose (hadrah) di ogni Venerdì, ma  
anche una struttura strettamente gerarchizzata, predisposta sia ad 
obbedire ciecamente agli ordini dei superiori sia a difendere, contro 
chiunque e con qualsiasi mezzo, la particolare dottrina dell’Islam nella
 quale ognuno di loro si identifica. Il fattore che conferma questa 
valutazione di soggetto politico paramilitare, si rinviene nel suo 
impiego in attività di guerriglia condotte contro L’Italia dal 1911 al 
1943.
Da quanto precede si desume che le varie entità tribali libiche sono 
profondamente permeate e condizionate dalla Senussiya  e dalla sua 
organizzazione – soprattutto lo Scheik -  che mediante lo strumento 
religioso, ha non solo islamizzato l’intera area  in cui esse sono 
dislocate, ma anche personalizzato ed accentrato il potere a tal punto 
da renderlo – ricorrendo ad una nota metafora – un mantello indosso ad 
uno e ad uno soltanto: si tratta di una strategia originata certamente 
durante la presenza coloniale italiana, rafforzatasi attraverso una 
progressiva legittimazione di Idris quale guida politica del fronte 
indigeno indipendentista ed il sodalizio maturato con Londra nel secondo
 dopoguerra.
 
  
L’attuale
 lotta fratricida libica, quindi, presenta tutte le caratteristiche di 
un conflitto asimmetrico tra la popolazione della regione di Tripoli 
contro quella dell’area di Bengasi e delle regioni limitrofe. Lo 
scontro, tuttavia,  è sempre esistito in modo sotterraneo o a bassissima
 intensità.
Infatti, i Tripolitani sono culturalmente attratti dal potere 
politico centrale della capitale, legame reso evidente durante la 
dittatura di Gheddafi, mentre i Cirenaici (provincia orientale di Barqa)
 sono molto legati alla tradizione locale ed alla senussiya, si sentono 
soffocati dagli ideali centralistici della Tripolitania e non si 
considerano rappresentati da Tripoli.
Sicché le condizioni attuali della Libia possono essere riassunte sulla 
base delle tre seguenti evidenze – un governo impossibilitato a 
governare, un’economia frammentata e paralizzata e l’ordine pubblico 
gestito ad “usum delfini” e nel caos – nelle quali si ritrovano:
-    altezzosità ed inettitudine di politici, associate a presunzione e millanterie di militari;
-    rivalità e conflitti di interesse tra le varie milizie che culminano in scontri efferati;
-    commistione di organizzazioni criminali e jihadiste, che alimentano estremismi religiosi ed opportunismi delinquenziali;
-    permanenti contatti fra elementi di al Qaeda rientrati in Libia ed 
esponenti dell’IS per trasferire in loco il “brand” dello Stato 
Islamico, riorganizzare gli estremisti e procedere – con la conversione 
forzata e la pulizia etnica – verso la costituzione di “aree 
islamizzate”;
-    ambizioni mai sopite dei simpatizzanti del vecchio regime,  in 
maggior parte rifugiati all’estero e capeggiati da Sayf Gheddafi – 
rifugiato a Londra – che hanno continuato a sovvenzionare 
clandestinamente progetti ed azioni volte ad impedire il funzionamento 
delle Istituzioni nate dalla rivoluzione;
-    vantaggi per le organizzazioni criminali che condividono 
l’interesse a destabilizzare per impedire il controllo del territorio 
nazionale da parte di legittime Autorità, ostacolando la ricostruzione 
di istituzioni forti, in grado di stabilire un clima di sicurezza 
soddisfacente e funzionale;
-    mentalità burocratica e deresponsabilizzazione tipiche del “divide 
et impera”, sistema con cui Gheddafi ha governato la Libia per 
quarant’anni,
tutti fattori nei quali non si riescono a trovare punti di contatto per una efficace mediazione.
 
  
In
 tale quadro si avanzano seri dubbi sulla possibilità di tenere assieme –
 da parte di un potere centrale – forze storicamente centrifughe, specie
 in presenza di interferenze esterne (Francia, Inghilterra e USA), mosse
 da rilevanti “appetiti petroliferi.
Non a caso, Sayyid Idris bin Sayyid Abdullah al-Senussi (Idris al 
Senussi), Gran Senusso e presunto (ex) erede al trono, ha lavorato con 
Condotte, Ansaldo Energia, Eni e Snamprogetti,  si è distinto per una 
azione di lobbing su ben 41 parlamentari britannici, ma è stato anche 
Director of Washington Investment Partners and China Sciences 
Conservational Power Ltd. ed ha interessi plurimilionari nel settore 
petrolifero, come li ha  il suo lontano parente Ahmed Abd Rabuh al-Abar,
 noto businessman di Bengasi.
La caduta di Gheddafi ha soltanto schiuso il vaso di Pandora del più 
fanatico degli integralismi che si è saldato con gli immensi appetiti 
che inevitabilmente suscita l’economia di un Paese che tuttora si basa 
al 95% sugli introiti e sulla redistribuzione della rendita petrolifera.
 Riserva di petrolio fra la Tunisia e l’Egitto, la Libia costituisce una
 posta in gioco mondiale nel quale anche la Francia, per lungo tempo 
esclusa, é oggi pienamente coinvolta
Secondo
 alcuni osservatori geopolitici l’operazione militare del 2011 avrebbe 
avuto come scopo, “a lungo termine”, quello di ristabilire l’egemonia 
anglo-statunitense nel Nord Africa, una regione storicamente dominata da
 Francia e in misura minore, da Italia e Spagna.
Il disegno di Washington sarebbe stato quello di indebolire i legami 
politici di Tunisia, Marocco e Algeria  verso la Francia cercando di 
instaurare nuovi regimi politici con un rapporto stretto con gli Stati 
Uniti. Infatti, la Libia confina con molti paesi che sono sfera 
d’influenza della Francia tra i quali anche Niger e Ciad: ed Exxon, 
Mobil e Chevron hanno interessi nel sud del Ciad, tra cui un progetto di
 gasdotto che arriverà fino alla regione sudanese del Darfur, ricco di 
petrolio.
Va aggiunto che anche la China National Petroleum Corp (CNPC) ha 
firmato un accordo di vasta portata con il governo del Ciad nel 2007 e 
la strategia statunitense mira anche ad escludere la Cina dalla regione.
 Sempre ai confini della Libia c’è il Niger che possiede ingenti riserve
 di uranio, attualmente controllate dal gruppo francese Areva nucleare, 
precedentemente conosciuto come Cogema, ed anche la Cina ha una 
partecipazione nell’estrazione di questo uranio.
Dunque,
 il confine meridionale della Libia è strategico per gli Stati Uniti nel
 suo tentativo di estendere la sua sfera di influenza nell’Africa 
francofona, una regione che faceva parte degli imperi coloniali di 
Francia e Belgio.
el quadro delineato, non appaiono casuali sia l’improvvisa e 
generalizzata “rivolta delle popolazioni libiche” sia la successiva, 
aggressiva e sproporzionata solerzia con la quale la Francia 
(Total-Fina) in primis, Gran Bretagna (British Petrleum e Shell) e Stati
 Uniti (Exxon, Mobil, Chevron e Occidental Petroleum) hanno 
caratterizzato la frettolosa e drastica iniziativa di intervenire 
militarmente, come vere e proprie parti in causa nella “guerra civile” 
che tuttora sta vivendo la Libia dal febbraio 2011. 
(www.mirorenzaglia.org/2011/03/libia-evviva-i-“buoni”).
Inoltre, la partenza prematura d’intermediari internazionali, imposta
 dalla miope retorica nazionalista e/o populista dei vari leader 
rivoluzionari, ha reso estremamente difficile la costruzione di nuove 
istituzioni politiche nazionali, marginalizzando la partecipazione alle 
scelte politiche di gran parte della popolazione che rimane schierata 
con il processo di transizione verso la democrazia ed è alla ricerca di 
sicurezza e stabilità.  Inoltre, gran parte della società civile, che 
rappresenta il futuro del paese, dopo oltre quattro decenni di 
dittatura, non ha alcun desiderio di ritrovarsi nuovamente ghettizzata 
sia economicamente sia politicamente.
Ed
 è proprio questo malcontento del popolo che deve essere opportunamente 
convogliato per replicare alle sfide che lo stesso sta affrontando, che 
determineranno il successo o il fallimento della transizione verso la 
democrazia.
L’excursus sopra riportato, mostra a chiare note l’impossibilità di 
una soluzione militare, tenuto conto che nessuno è abbastanza forte per 
controllare da solo il paese, neppure con l’aiuto di un energico sponsor
 esterno. La responsabilità, pertanto, va ricondotta nelle mani delle 
forze politiche che, attraverso un energico e credibile  processo di 
mediazione già in corso di attuazione – con il sostegno dell’Italia – da
 parte dell’ONU,  si riapproprino del processo decisionale, superando 
divisioni e contrasti per ritrovare coesione e forza necessarie a dare 
impulso alle riforme di cui il paese ha disperatamente bisogno.
 
  
Per
 un aggiornamento della situazione, appare utile sottoporre 
all’attenzione una serie di eventi del 2015 che stanno aggravando il 
teatro degli scontri, fra i quali risalta la perdita di un’irripetibile 
occasione che avrebbe potuto rafforzare l’embrionale processo di 
mediazione dell’ONU da parte dell’Italia, cui il governo di Tobruk – 
l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale a guidare la Libia – 
ha richiesto aiuto per scongiurare un disastro economico e ambientale 
nel Mediterraneo.
Il giorno di Natale, i ribelli islamici di “Alba della Libia” hanno 
incendiato parte dei depositi del terminal di Sidra, importante porto 
petrolifero libico, che ha provocato un rogo che ha bruciato milioni di 
barili di greggio, privando quel governo di importanti risorse 
finanziarie.  La richiesta dell’urgente intervento di aerei della 
protezione civile italiana per spegnere l’incendio è stata sottoposta a 
condizioni di sospensione dei combattimenti, mentre poteva essere 
accettata e poi barattata con l’avvio di un dialogo. Non è nostra 
intenzione sindacare né criticare le scelte politiche, ma solo attirare 
l’attenzione su metodi alternativi per la soluzione di problemi 
complessi. L’idea va interpretata come una proposta per l’impiego di 
strumenti Intelligence (diplomazia parallela) che, in situazioni 
conflittuali, possono conseguire maggiori successi di quelli politici.
 
  
Ciò
 anche nella considerazione che, dopo il rifiuto italiano, gli eventi 
susseguitisi hanno ulteriormente complicato il contesto:
-    sono stati sferrati, nei primi giorni di gennaio 2015, da parte del
 governo libico riconosciuto internazionalmente, una serie di attacchi 
aerei sul porto di Derna, che hanno colpito la petroliera greca Araevo, 
provocando un incidente diplomatico fra i due Paesi;
-    sono stati decapitati, nel corso della prima settimana del 2015 – a
 Sebha, da milizie  jihadiste seguaci dello Stato Islamico dell’Emirato 
di Derna – una diecina di militari libici, a dimostrazione di una 
saldatura fra estremisti libici e quelli siro-irakeni;
-    è giunto, lunedì cinque gennaio, il rinvio “sine die” da parte 
dell’ONU il tentativo di mediazione che il suo emissario, Bernardino 
Leon, aveva appena iniziato ad esplorare;
-    sono riaffiorate le velleità francesi di un intervento diretto in 
Libia, fatto dal Ministro della difesa Jean-Yves Le Drian – che ha fatto
 conoscere che la Francia non potrà mai “accettare” che la Libia si 
trasformi in una “roccaforte terrorista” – peraltro non chiaramente 
ridimensionate dall’intervento da parte del Presidente della Repubblica 
francese apparso sulla stampa del 6 gennaio;
-    sono stati compiuti gravi attentati a Parigi (8 e10 gennaio) che hanno scosso l’opinione pubblica mondiale.
 
  
A
 fronte di eventualità interventiste, che sembrano oramai rese più 
probabili dal precipitare degli eventi sopra riportati, alcuni organi di
 stampa hanno recentemente auspicato la possibilità che il processo di 
mediazione venga guidato dalla confraternita dei Senussi.
Tale confraternita – per la sua storia, le sue credenze religiose 
lontane sia dal wahabismo, sia dalla salafia, sia dall’estremismo dei 
Fratelli Musulmani – potrebbe fungere da catalizzatore degli opposti 
interessi in conflitto nonché trovare sostegno nelle parole pronunciate 
dal presidente egiziano Al Sisi durante il suo discorso rivolto a tutto 
l’Islam, tenuto il 1 gennaio all’Università Al Azhar del Cairo, che 
peraltro non sembra sia stato adeguatamente pubblicizzato ed accolto.
In effetti, per un lungo periodo la confraternita ha costituito il 
riferimento etico e comportamentale della popolazione libica, sia 
stanziale sia nomade, radicandosi nella convinzione religiosa delle sue 
comunità. Va ancora aggiunto che la monarchia senussita ha realizzato e 
governato un regno con una costituzione federale che unificava tre stati
 indipendenti (Cirenaica, Tripolitania e Fezzan) dal 1951 al 1969, 
stabilendo un equilibrio tribale poi rotto dal colpo di stato di 
Gheddafi.
 
  
Per
 conseguire l’arduo obiettivo della pacificazione e sostenere il popolo 
libico nella ricostruzione politica ed economica del Paese, a 
prescindere dal tipo di governo se monarchico o repubblicano, si ritiene
 necessario proseguire sulla strada della mediazione, mediante:
-    coinvolgimento del clan senussita nell’opera di mediazione, 
anemizzandone la latente sponsorizzazione inglese con un’iniziativa a 
guida UE, qualora l’ONU non riapra la mediazione;
-    invito, a tutti gli attori internazionali, a congelare 
temporaneamente i loro rispettivi interessi, cessando di sostenere e di 
alimentare con armi e denaro le varie fazioni che sponsorizzano;
-    orientamento del processo di mediazione, verso il disfatto stato 
federale e la Costituzione del 1951, che ne era alla base, con gli 
eventuali aggiornamenti delle istanze attuali;
-    rimozione di veti per interessi  incrociati di potenze estere, ivi 
comprese quelle europee che, nonostante il regime dispotico di Gheddafi,
 hanno continuato a  gravare sull’area  sotto forma di protettorato 
latente. La “deriva” attuale è anche conseguenza della loro miopia 
strategico-politica e della loro insaziabilità – per anni si sono 
contese il dominio coloniale dell’area mediterranea – perché colpite 
anch’esse dalla crisi finanziaria del 2009, con il tentativo di 
sottrarre all’Italia risorse preziose per la sua economia cercando di 
targare “TOTAL” e “BP” le royalties detenute da ENI;
 
  
-
    ricerca ed acquisizione del consenso della popolazione – nessun 
compromesso può reggere qualora se ne calpestino le aspirazioni – al 
fine di convogliare opportunamente il malcontento per replicare alle 
sfide, che il popolo stesso sta affrontando, che determineranno il 
successo o il fallimento della transizione verso la democrazia;
-    avvio del processo di riconciliazione nazionale, a premessa del 
dialogo per la riconciliazione  politica, aggregando un’ampia coalizione
 delle varie forze politiche, per stimolare l’opinione pubblica a 
sostenere la pacifica risoluzione dei conflitti, la definizione di 
strutture formali dello Stato ed il rispetto dei diritti civili e umani 
fondamentali;
-    recupero, nel più breve tempo possibile, della legittimità persa 
dando concreta attuazione a progetti esecutivi nei settori della 
sicurezza, della salute, dell’istruzione, delle infrastrutture e delle 
riforme politiche;
-    sostegno, nei confronti delle associazioni e confraternite 
islamiche, degli elementi di conciliazione e pacifica convivenza 
propagandati da Obama nel suo discorso a Il Cairo del 4 giugno del 2009,
 peraltro ribaditi, al ritorno dal viaggio in Turchia, da Papa Francesco
 che rivolto ai leader politici e religiosi islamici ha – tra  l’altro –
 detto: “Condannate chiaramente il terrorismo, l’Islam è un’altra 
cosa”.  “Il Corano è un libro profetico di pace”, in modo che la 
politica torni a prevalere sulle milizie armate che al momento 
controllano la base sociale del Paese.
Immagini: Reuters, AP, AFP
Mappe e grafiche: Repubblica.it, Libero.it, wikipedia,  www.rischiocalcolato.it
* Claudio Masci
Ufficiale dei Carabinieri proveniente dall’Accademia Militare di 
Modena, dopo aver assunto il comando di una compagnia territoriale – 
impegnata prevalentemente nel contrasto al crimine organizzato, è 
transitato negli organismi di informazione e sicurezza nazionali. 
Laureato in scienze politiche. Tra i suoi contributi: L’intelligence tra
 conflitti e mediazione , Caucci Editore, Bari 2010, The future of 
intelligence, 15 aprile 20122, Longitude, rivista mensile del MAE e 
Humint…questa sconosciuta.
di Luciano Piacentini  e Claudio Masci*
29 gennaio 2015