Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità . Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. L'autore non è responsabile per quanto pubblicato dai lettori nei commenti ad ogni post. Verranno cancellati i commenti ritenuti offensivi o lesivi dell’immagine o dell’onorabilità di terzi, di genere spam, razzisti o che contengano dati personali non conformi al rispetto delle norme sulla Privacy. Alcuni testi o immagini inserite in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore, vogliate comunicarlo via email all'indirizzo edomed94@gmail.com Saranno immediatamente rimossi. L'autore del blog non è responsabile dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo.


Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

26/05/17

TERRORISMO: "Da Manchester alla Libia: i nostri errori messi a nudo"


Da Manchester alla Libia: i nostri errori messi a nudo

Salman Abedi era il giovane attentatore suicida di Manchester, responsabile dell’uccisione di 22 persone, bambini e adulti, al concerto di Ariana Grande. Il giovane Abedi, a quanto risulta, non era un lupo solitario. Era un terrorista che faceva la spola con la Libia, dove pare abbia ricevuto gli ordini. È tornato nel Regno Unito solo per compiere il suo ultimo estremo atto di jihad, ricevendo la bomba confezionata da un complice esperto, tuttora ricercato. L’attentato non è stato dunque un fulmine a ciel sereno. Era premeditato e pianificato all’estero, condotto da un terrorista suicida grazie a una rete di appoggio trovata in loco. E’ terrorismo di importazione, insomma. Il Regno Unito, nonostante fosse già in allerta dopo l’attentato di Londra del 22 marzo scorso (quello sì, condotto da un “lupo solitario”) si è fatto cogliere di sorpresa.
Troppo facile, col senno di poi, affermare che l’attentato “poteva essere fermato”. Solo una volta che la strage è stata fatta, emergono i dettagli imbarazzanti degli allarmi inascoltati. Alcuni di questi saranno smentiti, altri si aggiungono alla lista, come quello riferito alla Bbc da un membro della comunità islamica di Manchester: Abedi sarebbe stato denunciato alla polizia, già anni fa, perché istigava all’odio. Sarà vero? Sarà falso? Tutto dipende da quanto emergerà nell’indagine in corso, che accerterà anche le mancanze dell’intelligence. Salman Abedi non era sconosciuto alla polizia. Non era, evidentemente, ritenuto uno dei soggetti più pericolosi nell’immediato.
A prescindere dagli errori di cui verremo a conoscenza nei prossimi mesi, c’è un grande errore politico alle spalle di questa vicenda. Ed è la Libia. La Gran Bretagna, assieme alla Francia, è stata la protagonista dell’intervento militare che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi e all’uccisione del dittatore, ma senza avere un piano per il dopoguerra. La Libia si è spaccata in due meno di tre anni dopo la fine della dittatura. E per i successivi tre anni, dal 2014 ad oggi, è in corso una guerra civile fra il governo islamista di Tripoli e quello militare di Tobruk. A questo ha portato la mancanza di piani e di investimenti (politici e militari) sul dopoguerra libico: a una guerra civile in cui si è infiltrata tutta la galassia jihadista. Incluso lo Stato Islamico che, prima della caduta di Sirte, ha mantenuto per due anni il controllo della costa centrale libica, incuneandosi fra i due contendenti principali.
Perché la macro-storia della Libia dovrebbe aver influito sulla micro-storia del terrorista Abedi? Perché le due sono strettamente intrecciate. I genitori dell’uomo-bomba di Manchester erano rifugiati politici nel Regno Unito in quanto dissidenti del regime di Gheddafi. Il padre di Salman, Ramadan Abedi, secondo fonti della Bbc, sarebbe stato membro, sin dai primi anni Novanta, del gruppo islamico Gruppo da Combattimento Islamico della Libia. Nel Regno Unito, Manchester era il centro della dissidenza islamica a Gheddafi. Con la guerra al terrorismo, a partire dall’11 settembre 2001, esuli libici di Manchester vennero di contatti con Al Qaeda. La giustificazione dell’esistenza di queste reti, tuttavia, restava la lotta clandestina contro il regime di Gheddafi, non contro il Regno Unito.
E puntualmente, quando scoppiò la rivoluzione contro Gheddafi, nel febbraio del 2011, molti libici partirono volontari per unirsi ai ribelli. Sempre secondo fonti britanniche della Bbc, Ramadan Abedi era uno di questi. Pare abbia combattuto nella Brigata dei Martiri del 17 febbraio, una delle principali unità degli insorti. Quando la guerra è finita in Libia, in Siria continuava. E Manchester, con la sua comunità di islamisti libici, è diventato uno dei principali centri di reclutamento. Si è venuto a creare nel tempo un triangolo molto pericoloso: reclutamento a Manchester, addestramento in Libia, esperienza di guerra in Siria. E ritorno. Poi si è aggiunta la guerra civile nella stessa Libia, dal 2014, e allora la situazione è diventata ancora più esplosiva.
Come sempre, non è stato dato peso sufficiente all’ideologia. Gruppi jihadisti, come quello libico che si è radicato a Manchester, non hanno mai fatto mistero della propria ideologia. Non hanno mai fatto mistero della loro volontà di instaurare uno Stato Islamico, governato dalla sharia, nemico dichiarato della società aperta. Inutile illudersi che gruppi simili vogliano limitarsi alla lotta esclusivamente contro il loro regime, all’estero. È solo una questione di tempo prima che si rivoltino contro chi li ha tollerati in casa propria.

25/05/17

TERRORISMO: "Attentatori arabi e figli di immigrati diventano improvvisamente “inglesi” o “francesi”: Storia di una narrazione ridicola"


Quando siamo esposti ad attentati jihadisti, purtroppo frequenti negli ultimi tempi, viviamo sempre più spesso il triste spettacolo messo in scena da molta stampa, intenta a precisare quasi fin da subito la nazionalità “europea” degli attentatori.
Capita così che i radicalizzati delle banlieue figli di immigrati tunisini diventino di colpo “francesi”, manco stessimo parlando di agricoltori bretoni; capita che l’attentatore di Manchester, figlio di immigrati libici, diventi immediatamente un “inglese”, una nazionalità annunciata con così tanto zelo e sicurezza che a prima vista e a primo udito qualcuno potrebbe davvero convincersi di avere a che fare con una sorta di Mr. Bean squilibrato, voglioso di farsi saltare per aria in qualche concerto.
La realtà è che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina, e questa serie di uscite di molti mass media, a voler a tutti i costi certificare la provenienza nostrana di molti attentatori sembra essere una strategia per inculcare la sensazione che non sono sempre gli immigrati a compiere attentati di questo tipo, ma che anche i residenti, gli inglesi, i francesi possono compiere questo tipo di gesto, con quella miserabile sofisticazione alla “vedi? Erano francesi! Erano come noi!”. Una specie di propaganda rassicurante per evitare di citare sempre il marocchino, il libico, il mediorientale.
Propaganda capace di smentirsi da sola, tuttavia. Se per questi cronisti, infatti, la provenienza culturale, geografica ed etnica è una sorta di camicia sostituibile alla bisogna, così come la cittadinanza e la nazionalità, sono gli stessi immigrati, anche radicalizzati, a mostrarci che le identità invece esistono eccome.
Esistono ed emergono in contrasto ad una immigrazione senza criterio, capace di stipare individui in periferie affollate senza la benché minima possibilità di emancipazione, in contrasto a quel mondo dipinto dai professionisti dell’accoglienza come spazioso, tollerante e pieno di opportunità, i cui lustrini spesso lasciano spazio alla desolazione e alla disillusione una volta che lo si vive in prima persona, notando quanto poco spazio spesso ci sia per l’emersione sociale ed una degna sopravvivenza.
L’identità, in situazioni di emergenza, diventa per molti immigrati l’unico motivo di orgoglio e di contrasto in un mondo lontano dalle fanfare a cui erano stati abituati. Non basta chiamare inglese un libico per farlo sentire un cittadino britannico, non bastano le ridicole manifestazioni a suon di gessetti, ponti e arcobaleni per risolvere le migliaia e migliaia di contraddizioni create da vent’anni a questa parte da una immigrazione sregolata, in cui una multiculturalità imposta in casa d’altri ha preso il posto di una più responsabile gestione multipolare del mondo, favorendo l’emancipazione dei popoli nelle loro terre e nelle loro case.
Anzi, proprio il fenomeno dello jihadismo fa spesso perno su un sentimento di odio nei confronti degli occidentali, visti come colpevoli e primi responsabili della crisi del mondo arabo e dell’attacco all’Islam. Spesso l’odio è addirittura culturale, con una repulsione verso quegli stessi miti portati in trionfo dai fautori del multiculturalismo, delle società aperte, laiche, democratiche. Un cortocircuito davvero terribile, ma veritiero, come se mezza stampa fosse impegnata ad appiccicare etichette di europeità ad un mondo che ne fa volentieri a meno, e che proprio nel contrasto con l’Occidente e nell’identità islamica trova ormai l’unica ragione di vita.
Questo gioco sulle nazionalità falsate e sulle identità negate, infatti, viene continuamente sbeffeggiato proprio da quegli stessi immigrati che di questo gioco al ribasso sull’identità non ne possono più e ne fanno volentieri a meno. Forse devono accorgersene solamente i grandi mass media, tanto bravi a chiedere spazio, ascolto e dignità quanto abili a distorcere percezioni, a promuovere narrazioni di parte.
Con buona pace di debunkers e sbufalatori professionisti, spesso rigorosamente silenti quando la grande stampa ci dipingeva le opportunità delle primavere arabe di pace e dei partigiani di democrazia del Medioriente, sarebbe interessante alzare una volta per tutte il velo da questo tipo di narrazioni inutili e ridicole, da questo infantile gioco sulle identità. Con buona pace di tutti, cominciando una volta per tutte a rintracciare cause ed effetti del dramma della radicalizzazione.

di Alessandro Catto - 24 maggio 2017

dal Blog LA VIA CULTURALE 

24/05/17

Quando il magistrato “spera” in una verità altra


Quando il magistrato “spera” in una verità altraSì, Grasso è un pezzo del “Partito dei Magistrati”. Che, lo abbiamo ripetuto troppe volte, non è costituito dai magistrati “in missione” nei partiti e in Parlamento, ma che certo non li esclude e ne fa sua parte (e strumenti di una strategia). È se non sbaglio, il magistrato più alto in grado “prestato” apertamente alla politica. Ed è quello che, in tale “distacco e missione”, ha conseguito la carica istituzionale più elevata: nientemeno la seconda carica dello Stato.
Del fatto di rivestire tale carica non si è valso di certo per farsi scudo del prestigio e della conservazione dell’Istituzione da lui rappresentata. Si è prestato, e nemmeno solo con la semplice inerzia, al tentativo di rottamazione e di ridicolizzazione del Senato, in questo adottando in pieno uno dei più pericolosi vizi della “politica” con la p. minuscola, consistente nell’assioma “se le istituzioni si conquistano se ne fa quel che si vuole” (E in Sicilia, mi par di ricordare, c’è un proverbio “chi piglia un Turco, è suo”).
Ma Grasso, prima di diventare Presidente del Senato, ha nella Magistratura, ricoperto una carica emblematica dell’istituzionalizzazione della devianza della giustizia: è stato a capo della Procura Nazionale Antimafia, che ben potrebbe rappresentare il simbolo della “giustizia anti qualcosa”, cui siamo ridotti. O passare per tale, ché gli aventi diritto a tale ruolo sono molti. Oggi Grasso “marcia” a Milano a favore dei “migranti”, contro non so chi. E parla, con l’autorevolezza della sua doppia qualifica (starei per dire doppia natura, ma non andrebbe bene). E la sua voce ben può essere considerata idonea per più versi a definire concetti e natura della giustizia (si fa per dire) nel nostro Paese.
Parlando dell’assassinio di Giovanni Falcone, rispondendo ad un’intervista su “Repubblica” alla domanda “fu solo mafia?”. Pietro Grasso tranquillamente risponde: “Purtroppo al momento mancano i riscontri per portare ad un accertamento giudiziario”.
Se si considera non tanto quello che, a questo proposito scrive su “Il Foglio” Massimo Bordin, al quale risulta che Pietro Grasso è un magistrato attento e poco suggestionabile (virtù rara) quanto l’interpretazione che da noi si dà all’obbligatorietà dell’azione penale ed alla funzione delle Procure: indagare alla ricerca di notizie di reato, quella risposta significa che “purtroppo” non c’è proprio niente che faccia pensare che ci sia “altro”.
“Purtroppo”. Un magistrato che dice “purtroppo” non già di fronte al fatto che c’è un morto ammazzato e non c’è aria di trovare il colpevole, ma di fronte al fatto che il colpevole sia uno invece che un altro, che non ce ne sia un altro oltre quello che risulta essere tale, o, magari, che non risulta esserci un delitto invece che niente o piuttosto che di delitto ce ne sia uno invece che un altro e diverso, come dicono le prove raccolte è un magistrato allarmante, perfettamente in linea con la concezione della “giustizia di lotta” che, in quanto tale e perché tale, fonda i suoi convincimenti e la sua opera su verità precostituite e gratuitamente acclamate come tali.
Proseguendo nelle sue risposte agli intervistatori di “Repubblica”, Grasso, quasi per fugare il sospetto di non essere un “magistrato lottatore” aggiunge “Non è detto che non ci siano altri pezzi di verità... Io non perdo la speranza”.
Grasso, oltre che marciare, spera. Spera che nell’assassinio di Falcone ci siano dietro la Cia, i Servizi segreti (deviati) la Massoneria (deviata), Andreotti, buonanima. Spera. Per fortuna non mi conosce e non avrà nemmeno mai sentito parlare di me. Se no, potrebbe, magari, accontentarsi che un altro pezzettino di “verità” sia costituito da una mia partecipazione alla strage di Capaci. Ma altri, che magari fanno spallucce di fronte a queste considerazioni, non si può giurare che siano altrettanto al sicuro dalle “speranze” di Grasso.
L’ottimo Bordin, su “Il Foglio” conclude: “il dubbio che domande del genere (se c’è “altro”) quel mito rischino di accrescerlo, è difficile da respingere”.
Bordin è uno dei migliori conoscitori delle mille espressioni della “giustizia deviata”, al punto che potrebbe trarne una sintesi senza dubbi, se e ma. Per questo mi pare un po’ strana la sua conclusione: non sono certo le domande degli intervistatori di “Repubblica” a rischiare di accrescere il mito (quello di certe dietrologie). La “speranza” di Grasso, congenita alla sua mentalità, era evidente dalle prime battute. E il “mito” non ha bisogno di esser accresciuto. Per i magistrati del P.d.M. e per quelli parlamentari in particolare è verità indiscussa. Proprio perché non ve ne sono le prove che “purtroppo” il potere, i poteri occulti, hanno soppresso e nascosto. O fatto sì che mai se ne avessero.
Questo è il concetto di verità e di giustizia di un esemplare magistrato. Ed esponente del “mondo politico”.

P.S. - L’altro giorno Grasso “marciava” a Milano. Campeggiava nel corteo uno striscione “Siamo tutti legali”. Eppure, purtroppo per Grasso, non mancano di certo “riscontri legali per portare ad un accertamento” del contrario. Ma Grasso spera... Che la verità non corrisponda a un “accertamento giudiziario”. Che c’è.


23/05/17

Manchester. Noi vogliamo integrarli. Loro vogliono disintegrarci. A quando il secondo tempo della Battaglia di Lepanto?



Manchester.
Ancora una volta andrà in scena il festival della moderazione. Verso i cadaveri europei fatti a pezzi sotto ad un palco, moderati; verso una partita Iva che minaccia il suicidio, pugno di ferro.
Ancora per una volta, noi porgeremo l’altra guancia. Di più, ancora di più. Ci manca solo di insegnare ai nostri figli a farsi saltare in aria a Rotterdam, o a Milano, e poi a download (73)rivendicare su Twitter, per compiacere i nostri fratelli lontani…
Beati i perseguitati, perché di essi è il regno dei Cieli. Ma che grande ipocrisia. Della Parola di Dio, della Fede, dello Spirito non ce ne frega un beneamato cavolo. E quindi eccoci ad autodistruggerci, laicamente; laicamente a sbattere in faccia ai cani la pace fine a se stessa, senza una visione ulteriore, senza un’ispirazione superiore, così da sbattere i denti addosso ad un morte lenta e indecorosa. Lenta e indecorosa.

L’integralismo religioso, può essere pericoloso come l’estremismo della pace. Tanto confonde uno, tanto annebbia l’altro. Tanto rende virtualmente onnipotente e bigotto il primo, quanto illude e rende superbo l’altro.

Quantomeno, però, giustificare il “non-interventismo” coatto verso i nuovi mostri, per un’idea superiore, avrebbe donato fascino a questo suicidio, come i martiri e protomartiri, come i kamikaze del Sol Levante, come i dissidenti anticomunisti o i patrioti, come Palach e Sands. Ma le processioni sono vuote, sono sfottute dai passanti. I pellegrinaggi deserti e chi prega la Madonna, accarezzando i grani del Rosario, è visto come un povero barbone ubriaco fuori tempo e fuori luogo.

Ammazzarsi con ruolo, per un Credo, vero. Almeno. Tanto per coglionare la storia. Anche perché se questa immondizia esplosiva crede di poter fermare il tempo che avanza in queste terre vecchie e malate di Alzheimer si sbaglia di grosso. Terre che hanno plasmato e vissuto la civiltà, che si sono scannate per secoli; che hanno scoperto mondi e particelle, che hanno dato un senso al tempo; che hanno cresciuto l’uomo.
Di questa follia omicida, un domani, rimarrà ben poco, cari kamikazzo che non siete altro e che, soprattutto, non rappresentate lontanamente il fedele musulmano, cioè colui che sa mediare, modernamente, tra le sure del Corano e le mille pieghe ostili della propria epoca.

E la religione laica del progresso?  Se la Divinità ha stancato, la materialità ha fallito. Il vitello d’oro non funziona. Non resta che farci il segno della croce: prima destra, poi sinistra, ora alto contro basso. Chi ama gli uomini, contro chi li odia. Chi combatte per quei valori irrinunciabili, antropologici alla base dell’essere, non negoziabili (cifr. Fabio Torriero), e chi per la dissacrazione della natura umana a scopo di marketing. Migrare, precari e senza volto, nell’eterna incertezza, nell’eterno riposo.

Un contro serve sempre. La contrapposizione forma l’autocoscienza, il pudore, il senso di dignità in se stessi. Delle proprie virtù, certamente, ma anche e soprattutto dei propri limiti.
L’uomo reagisce, e se vede i figli aggrediti, ferisce. Quanto è vero che la scienza, sorellona dell’unica spiritualità concessa nel futuro, afferma che scimmie fummo e scimmie rimarremo. Insomma, se n’è accorto anche Gabbani. Dotati di quell’istinto salvifico che ci ha fatto evolvere; che ci ha fatto capire.

L’uomo può ingoiare merda, ma arriva quel giorno, quel soffio d’aria sulla faccia sudata d’ira, che lo fa esplodere; non verso l’istinto animalesco: verso l’autodifesa. E noi imperialisti, schiavi del nostro ego, turisti sessuali in Thailandia, egoisti, egotisti, egocentrici; turbocapitalisti, antiumani, capaci di metterci in catene tra noi, non siamo poi il migliore dei mondi possibili.

Ma solo l’uomo può fare tutto questo. Non un suo surrogato. E se non si vuole continuare a capire che per generare un futuro sostenibile, se si vuole parlare di sovranità, di responsabilità, di un avvenire per le nuove generazioni, bisogna coltivare l’uomo, bisogna innaffiarlo di cultura che parli della propria identità, che risvegli la memoria di chi fummo, dando acqua alle radici. Se queste si seccano, la grande quercia secolare cadrà. È solo una misera questione di tempo.

Allora, se i gessetti non hanno funzionato, se John Lennon in piazza non ha funzionato; se le Ong, se la frittata solidale non ha funzionato, se togliere i soldi agli italiani non ha funzionato, non sarebbe più utile, senza assistere di nuovo a piagnistei imbecilli delle istituzioni di mezzo mondo, ripartire, come in un pc, dall’ultimo punto di ripristino utile? Ma cosa deve succedere per capire che questi due mondi non possono integrarsi? Che noi vogliamo integrarli e loro vogliono disintegrarci? Che è necessaria la rivincita della Battaglia di Lepanto – una provocazione (?) -, non l’ennesimo atto di sottomissione culturale, spirituale e politica; che non è necessario destinare milioni di Euro che un tempo spettavano ai figli naturali di questa terra, per insegnare agli ospiti d’oltre mare, come cucire i pantaloni da clown in Val Brembana?
E ciò che spaventa non è morire, forse, all’improvviso, a pezzi su un marciapiede, o chissà come. È la rabbia soffocata della gente d’Europa. Sparita, annichilita, evaporata. Trasformata in un orribile assistenzialismo forzato, in un sorriso finto, isterico. E quando ad una Nazione asciughi la dignità e la rabbia, la volontà di riprendersi il proprio tempo, di fermare il sangue, di difendere i propri figili, allora, più di ogni altra umanissima storpiatura, di ogni altra legge, capisci che l’hai domata.

Continuiamo a marci(a)re su Milano.

di Emanuele Ricucci - 23 maggio 2017

22/05/17

Cosa resta della tragica morte di Falcone e Borsellino, 25 anni dopo le stragi di mafia



falcone borsellino

 
Su ilLibraio.it Antonella Mascali ricorda ai ragazzi di oggi i giorni della strage di Capaci. Sono passati 25 anni da quelle settimane terribili. Cos'è cambiato?

Se penso a Giovanni Falcone, la mia memoria va prima di tutto al 12 marzo 1992. Ero una studentessa e una giornalista in erba. Quel giorno si viene a sapere che a Palermo era stato ucciso un potente politico di quel tempo, il democristiano Salvo Lima, il proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia. L’uomo dai grandi legami mafiosi, come Andreotti, il fu sette volte presidente del Consiglio. Due mesi prima la Cassazione aveva confermato definitivamente le condanne ai mafiosi finiti sul banco degli imputati del maxiprocesso voluto da Falcone e Paolo Borsellino. Lima, come Andreotti, agli occhi di Cosa nostra non avevano garantito l’impunità.

Quel maxiprocesso, celebrato a Palermo tra il 1986 e il 1987, ha segnato per sempre la storia delle indagini antimafia, ci ha fatto sapere come era struttura “la Cosa Nostra”. Quel 12 marzo 1992 presi un aereo per Palermo, inviata da Radio Popolare di Milano. Arrivai in serata, un po’ spaesata: non vedevo un taxi, un bus, non sapevo come fare per arrivare in città. E chiesi informazioni a un giovane: “Sei una giornalista?”, “Sì, risposi, come lo sa?”. “La puzza dei giornalisti la sento da lontano”, disse facendo un gran sorriso. E io: “Allora lei è un poliziotto”. “Sono il caposcorta di Giovanni Falcone”. “Ah, mi raccomando, se mi avvicino al dottor Falcone non mi allontani, la prego”. “Ora che ti ho identificata, puoi stare tranquilla”. Il poliziotto era Antonio Montinaro. Due mesi e 11 giorni dopo sarebbe morto insieme al magistrato, a Francesca Morvillo, anche lei magistrato e moglie di Falcone e agli agenti di scorta Vito Schifani e Rocco Dicillo.

Il 23 maggio 1992, ero in redazione, di turno per la conduzione del giornaleradio delle 19.30. Una giornata che sembrava come le altre, mai mi sarei aspettata cosa sarebbe successo. Poco dopo le 18, arrivò un’agenzia Ansa che dava la notizia dell’attentato a Capaci. Rimasi senza fiato per un attimo. Stordita. Andai subito in onda a raccontare le prime, frammentarie notizie. Falcone era ancora vivo, in gravissime condizioni. Ma, come si sa, è morto poco dopo insieme alla sua Francesca, agli agenti di scorta. E’ sopravvissuto solo l’autista, Giuseppe Costanza, perché Falcone aveva voluto mettersi alla guida e l’autista si andò a sedere sul sedile posteriore. Vivo, ma ferito nell’anima per sempre. Presi l’ultimo aereo per Palermo. A bordo c’era Ilda Boccassini, allora pm di Milano, oggi procuratore aggiunto dello stesso ufficio. Era collega e amica di Falcone. Non dimenticherò mai il suo volto impietrito dal dolore. Dopo la strage di Capaci si farà trasferire a Caltanissetta per cercare i colpevoli. Un altro flashback: il cratere, enorme, che vidi a Capaci. Era il segno visibile della morte che aveva seminato il tritolo messo lì dai mafiosi per uccidere l’uomo senza il quale, insieme a pochissimi altri magistrati del tempo, non sapremmo nulla della mafia.

Ma solo i boss di Cosa nostra hanno voluto la morte di Falcone? La verità processuale ha indicato solo mafiosi: 37 tra mandanti ed esecutori, di cui 24 all’ergastolo, ma i misteri rimangono. L’ultima rivelazione risale a 4 anni fa, quando il pentito di mafia Gioacchino La Barbera raccontò al pm della procura nazionale antimafia, Gianfranco Donadio che durante l’organizzazione dell’attentato, con i boss mafiosi “c’era un uomo sconosciuto che parlava a bassa voce”. A Capaci fu trovato anche un bigliettino con un numero di cellulare e un indirizzo corrispondete a una sede di copertura del Sisde. L’artificiere della strage fu Pietro Rampulla, mafioso ed ex estremista di destra. Falcone si era trasferito a Roma per lavorare al ministero della Giustizia. Era stato costretto a lasciare la procura di Palermo dopo anni di tribolazioni, di isolamento. Dopo la sua morte Giovanni Falcone è diventato un eroe per tutti, ma in vita è stato ostacolato nelle indagini, accusato di tenere prove a carico di politici nei cassetti, umiliato dal Csm che nel 1988 gli preferì Antonino Meli alla nomina di capo del pool antimafia di cui era stato un protagonista assoluto.

Vorrei chiudere questo ricordo di Falcone con le parole di Paolo Borsellino, pronunciate il primo giugno del ’92, 9 giorni dopo la strage di Capaci, 49 giorni prima che anche lui trovasse la morte insieme a 5 poliziotti di scorta: “Io voglio decisamente credere – aveva detto Borsellino – me lo impongo di crederci ,che la morte di Falcone sia un fatto così dirompente, così drammatico, che bandendo ogni sofismo, ogni ipocrisia, ogni situazione di compromesso, il potere politico riesca ad avere la forza di prendere una serie di decisioni ordinarie ma drastiche. Perché i magistrati non debbano sempre lavorare quasi nonostante le norme. Alcune di esse sembrano fatte a posta soltanto per rendere difficile il loro lavoro. Se non si pone il rimedio tra questa dicotomia, tra molto che si conosce e poco che si riesce a condannare, verrebbe quasi voglia di alzare le braccia”. Da allora sono passati 25 anni. E’ cambiato qualcosa? Non molto, ahimè.


 L’AUTRICE – Antonella Mascali, giornalista de Il Fatto quotidiano, ha mosso i primi passi nel giornalismo quando era ancora al ginnasio, alla redazione de I Siciliani, il mensile fondato a Catania da Pippo Fava, ucciso dalla mafia. Si è trasferita a Milano, nonostante l’amore per il mare, si è laureata in Scienze politiche, con indirizzo giuridico, all’Università Statale con il professor Nando dalla Chiesa con una tesi sperimentale: “Le associazioni di interesse: il caso del movimento antiracket di Capo D’Orlando. E’ diventata giornalista professionista a Radio Popolare di Milano. Come inviata a Palermo, ancora studentessa, ha seguito i fatti più tragici degli anni Novanta: l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi, le stragi di Capaci e via D’Amelio. Tra i processi più importanti della storia recente d’Italia ha seguito, a Palermo, quelli a Giulio Andreotti, Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro. A Milano, quelli a Silvio Berlusconi, Cesare Previti e David Mills. Nel 2007 ha vinto il Premio cronista Guido Vergani. Con il libro Lotta civile (Chiarelettere 2009), ha vinto il premio Com&Te Cava Costa d’Amalfi 2009. Nel 2010 sempre per Chiareleterre ha pubblicato insieme a Peter Gomez Il regalo di Berlusconi. Nel 2012 per Chiarelettere ha curato il libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino.

di Antonella Mascali | 22.05.2017

fonte: http://www.illibraio.it

 

Missione militare in Niger? La Difesa smentisce



Af_Ner_116


“Il Ministero della Difesa smentisce le notizie relative all’invio di militari italiani in Niger. Si sottolinea che non vi è nessuna ipotesi operativa al riguardo. La simulazione e pianificazione di tali azioni rientra nella normale attività addestrativa degli Stati Maggiori e riguarda le principali aree di crisi”.
Con questa nota il Ministero della Difesa le notizie diffuse dal quotidiano La Repubblica circa la messa a punto dell’Operazione militare italiana “Deserto Rosso” tesa a contrastare i flussi di immigrati illegali che dal Niger raggiungono la Libia.
Qui sotto l’articolo di Gianluca Di Feo.
L’operazione Deserto Rosso non sarà per niente facile. Schierare un contingente militare italiano nelle dune del Niger settentrionale comporta costi e rischi altissimi. Serviranno almeno cinquecento uomini, con veicoli blindati ed elicotteri, che dovranno venire interamente riforniti con gli aerei e saranno costretti a muoversi sempre nella sabbia. Ma l’Europa crede di non avere più alternative per arginare l’esodo dei migranti verso le coste siciliane.
Agire in Libia è impossibile e allora si cerca di sbarrare la rotta dei disperati più a sud: semplice a parole, molto più complesso da realizzarsi. Il governo Gentiloni non ha ancora preso una decisione ma lo Stato Maggiore della Difesa sta cercando di definire i piani della missione, che ha il sostegno pieno di Berlino e vedrà un ruolo chiave di Parigi. Il primo problema è proprio questo: nel Sahel l’asse franco-tedesco è già consolidato, con truppe attive in più paesi, e non sembra disposto a dare spazio all’Italia nella cabina di regia: ben vengano i nostri soldati, a patto che non intacchino la sfera d’influenza altrui.
 
1444647670898736700.jpg_orgLa macchina dell’intervento però è in marcia. Il primo passo formale lo hanno mosso pochi giorni fa i ministri degli Interni, Marco Minniti e Thomas de Maizière, chiedendo a Bruxelles di autorizzare la spedizione. Gli obiettivi sono in parte di natura umanitaria: avviare “programmi di sviluppo per le comunità lungo la frontiera” tra Libia e Niger. E in parte di polizia: dare “assistenza tecnica e finanziaria agli organi libici incaricati di contrastare l’immigrazione clandestina”.
In pratica, si tratta di addestrare un corpo di guardie di confine libiche, come previsto dagli accordi siglati a Roma tra una sessantina di tribù del Sud, inclusi i Suleiman e i Tuareg. Poiché nessuno dei governi libici è disposto ad accettare la presenza di forze straniere, la soluzione è creare una base in Niger. Lo Stato africano infatti è aperto alla collaborazione ed ospita reparti americani, francesi e europei, impegnati nella lotta agli jihadisti e nel contrasto ai trafficanti.
Questo sarà il compito più difficile: potenziare il ruolo dei gendarmi nigerini, accompagnandoli nell’identificazione degli schiavisti e nell’assistenza ai migranti. Da mesi c’è un piccolo contingente europeo, chiamato Eucap, che si occupa già di insegnare alle polizie locali le tecniche di azione e gli fornisce i mezzi. Pochi istruttori e parecchi fondi: l’Ue ha messo sul tavolo 610 milioni di euro, la Germania altri 77 mentre l’Italia ne ha offerti una cinquantina. Una pioggia di milioni per un governo poverissimo, nonostante il Paese abbia risorse preziose come le miniere d’uranio gestite dalla Francia.
Una quota dei finanziamenti è destinata allo Iom, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, che lo scorso anno li ha usati anche per costruire cinque centri di accoglienza, dove vengono nutriti e ospitati i disperati che varcano il deserto, cercando di convincerli a tornare nel loro paese con incentivi economici e viaggi sicuri. Nel 2016 in cinquemila hanno accettato il rimpatrio: numeri che si cercherà di aumentare, finora irrisori rispetto all’esodo. 

 Carte-Niger-MadamaSecondo lo Iom, lo scorso anno 417 mila persone hanno attraversato il Niger dirette verso il Mediterraneo: quasi 300 mila hanno sicuramente preso la strada verso la Libia. Il che significa che sulle coste della Tripolitania in almeno centomila stanno aspettando di salire su un gommone. Un’industria dello sfruttamento che arricchisce non solo gli scafisti, ma anche le milizie tribali che dominano i valichi e le polizie corrotte che chiudono un occhio.
Ed ecco la necessità di rinforzare i controlli con la presenza di militari europei che, ad esempio, sequestrino i camion dei trafficanti. Il grande snodo delle migrazioni è Agadez, nel cuore del Paese, c’è già una base della missione Ue, che potrebbe venire potenziata. Ma la nuova spedizione dovrebbe mettere le tende molto più a ridosso delle frontiere settentrionali, per intercettare le carovane che aggirano i posti di blocco e addestrare le guardie di confine libiche. 

 base-avancee-de-madama-au-nigerUna delle località prese in considerazione è Madama, dove sorgeva l’ultima postazione della Legione straniera prima delle colonie mussoliane: un fortino tra le dune, che sembra uscito dalle scene di film come Beau Geste.
Tre anni fa i parà francesi hanno rioccupato l’antica roccaforte, costruendo una pista d’atterraggio: l’elemento decisivo per qualunque schieramento, perché lì tutto deve arrivare dal cielo, che si tratti di cibo, carburante o ricambi. E per gli italiani, che già riforniscono i soldati presenti in Afghanistan e in Kurdistan contando soltanto sul ponte aereo, questo è l’ostacolo logistico più complicato. Non è l’unica difficoltà: in tutta l’area sono attive squadre jihadiste micidiali. Le guida il leggendario “Mister Malboro” Mokhtar Belmokhtar, il contrabbandiere convertito alla guerra santa, che si è imposto come uno dei comandanti fondamentalisti più feroci e imprevedibili.

Foto: Base militare francese Madama – Niger settentrionale (fonte Ministero della Difesa francese)


18 maggio 2017 - di

I media sotto lo schiaffo politico. I cittadini non si fidano: c’è pochissima libertà di stampa per quotidiani e televisioni


libertà di stampa

Sarà anche “colpa” del web se i quotidiani li leggono sempre meno persone. Ma la crisi dei giornali in Italia non può essere semplificata così banalmente. Si pensi agli Usa dove, per esempio, l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca è stata linfa vitale per i giornali. Con vendite e abbonamenti in ripresa dopo una crisi nera.
Sembra chiaro che per i cittadini americani il giornalismo rappresenti ancora quel cane da guardia del potere. Evidentemente la figura del giornalista negli Usa merita ancora fiducia. Totalmente differente quanto accade in Italia, dove i cronisti brutti e cattivi che fanno le pulci al potere sono sempre meno. Almeno questo è il comune pensiero che hanno i cittadini. Parla chiaro il sondaggio Ixè per Agorà di venerdì che ha evidenziato come l’86% degli italiani pensi che la stampa nel nostro Paese sia condizionata dalla politica. Soltanto il 13% crede a una stampa libera e indipendente.
Quella italica sarebbe quindi una stampa militante e schierata a patteggiare per l’una o l’altra parte e pronta, in alcuni casi, a cambiare idea seguendo il vento del momento. Pochi, pochissimi, gli editori puri in un Paese dove giornali e tv non sono visti altro che come mezzo per agganciare il potere per poi fare affari con esso. Piuttosto che come prodotti editoriali costretti a fare utili per stare sul mercato. Ed è così che dietro a organi d’informazione non di rado spuntano faccendieri oscuri o imprenditori con le mani in pasta e pronti a utilizzare la clava soltanto con chi fa comodo. Allo stesso tempo, trattandosi di prodotti costosi, in questo circolo vizioso che viene a crearsi, sono molti gli organi di informazione stessi costretti a legarsi alla politica per ottenere un qualsivoglia finanziamento sempre utile in tempi di crisi. Ed ecco che il cerchio presto si ricompone. E con esso l’obiettività va a farsi friggere.
Non solo la minaccia della politica ma anche quella di grandi aziende che, come già accaduto, arrivano a minacciare di tagliare la pubblicità se solo la testata di turno osa parlare male di loro. Un quadro drammatico che ha portato a quella scarsa fiducia che gli italiani hanno nei media dimostrata dal sondaggio che abbiamo riportato. Alzi la mano chi non ha mai etichettato un giornale sostenendo “quello è di destra, quello è di sinistra…”. Ognuno quindi fa il suo gioco, chi più e chi meno chiaramente. Si pensi, ad esempio, a Il Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi; in un quadro desolante come quello italico il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti quantomeno non nasconde al lettore la sua vera identità. Sia chiaro non è l’unico caso. Magra consolazione si dirà. Ma non sono certo i giornali militanti ad aver fatto perdere la fiducia nella stampa agli italiani, piuttosto sono quelli che cambiano spesso bandiera politica.

di Vittoria Patanè
 
fonte:  http://www.lanotiziagiornale.it

21/05/17

Ciò che un giudice può permettersi

 
Ciò che un giudice può permettersi

“Il magistrato che... tenga in ufficio e fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere o che compromette il prestigio dell’Ordine giudiziario è soggetto a sanzioni disciplinari…”. (art. 18 Rdl 11 maggio 1946 n. 511)
“I magistrati... non possono essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni se non…Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni dal Consiglio superiore della magistratura quando…per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa non possano nella sede che occupano, amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’Ordine giudiziario...”. (art. 3 Legge Guarentigie Magistratura)
Per capire che cosa comportano le norme suddette sono stati scritti volumi e sono stati adottati provvedimenti per specificare, ad esempio in che cosa consista la condotta che rende il magistrato immeritevole della considerazione... e comprometta il prestigio dell’Ordine giudiziario, attraverso la formulazione di una ampia casistica. Ma scritti autorevolissimi, interpretazioni acute, codici deontologici si traducono in chiacchiere, quando i fatti smentiscono che condotte, che le elucubrazioni di interpreti di grande saggezza porterebbero a definire come illeciti e tali da dover comportare sanzioni anche gravi e provvedimenti drastici di fatto, non comportino, benché arcinoti ed addirittura pubblicizzati ed esaltati, il minimo disturbo a magistrati che così si comportano.
Tempo fa ebbi occasione di dover scrivere che la stessa condotta, le stesse dichiarazioni che avevano indotto il Csm ad aprire un procedimento “di incompatibilità ambientale” nei confronti di un magistrati di Treviso reo di aver affermato che lo Stato non garantisce la sicurezza dei cittadini così che essi debbono provvedere a difendersi da soli, a Palermo pare che sia consentito e quasi fatto obbligo ai magistrati di dichiarare in continuazione che lo Stato addirittura connivente con la mafia e che non c’è da fidarsi di molti che hanno il compito di combatterla.
Ma vediamo quali comportamenti possano essere, in base alla assoluta assenza di interventi disciplinari, nei confronti di chi così si comporta, da considerare leciti e tali da non implicare procedimenti disciplinari e “incompatibilità ambientali” per i magistrati del nostro Paese.

1 – Un magistrato può lasciare che le vicende della sua partecipazione ad un concorso per un posto ambito siano fatte oggetto di pubbliche proteste, manifestazioni di “appoggio” o di protesta anche con adunate in teatri o in piazza, da parte di sostenitori organizzati in associazioni che, secondo chi le dirige usano, “di fronte alle Autorità, voltare le terga levando in alto un’agenda rossa”, e con tutto ciò continuano ad avere rapporti di collaborazione con tali organizzazioni anche per manifestazioni e convegni con la presenza del magistrato stesso.

2 – Un magistrato può tollerare che si organizzino manifestazioni di piazza in suo favore nel corso delle quali venga intimato al Presidente della Repubblica di “rendergli omaggio” (al magistrato suddetto) perché “condannato a morte dalla mafia” e ciò senza in alcun modo dissociarsi da tali atteggiamenti eversivi.

3 – Un magistrato può consentire che l’entità e le dotazioni tecniche della scorta alla sua persona siano fatte oggetto di intimazioni, proteste e discussioni pubbliche e pubblicitarie, con accuse per pretesi difetti, ritardi etc. da parte dei suddetti suoi sostenitori organizzati.

4 – Un magistrato può, usufruendo della scorta che pare sia la più numerosa ed efficiente fornita a personaggi italiani, dedicarsi abitualmente a partecipare in tutta Italia a manifestazioni in suo onore, portandosi dietro la scorta in lunghi viaggi in aereo.

5 – Un magistrato può, parlando ai giornalisti di un suo precedente concorso in cui non aveva avuto successo, di ipotizzare e formulare l’insinuazione che tale insuccesso sarebbe stato provocato da un intervento illecito di un’altissima (e individuabilissima) personalità a lui ostica.

6 – Un magistrato può, nonostante il divieto di ricevere onorificenze, fare collezione di “cittadinanze onorarie” di città e villaggi, secondo un preordinato procedimento di un partito politico nei consigli comunali.

Potrei forse continuare, ma ritengo che ciò basti. Ministro della Giustizia e Procura Generale della Cassazione, titolari dell’azione disciplinare, non credo sia serio ipotizzare che non abbiano avuto sentore di ciò. Ma non fanno nulla. Il Consiglio superiore della magistratura, addirittura fatto oggetto di attacchi, proteste ed intimazioni da parte della tifoseria del magistrato suddetto, è organo che autonomamente può aprire la pratica per “incompatibilità ambientale”, lo ha fatto per il magistrato di Treviso, non per chi ha tenuto le condotte di cui sopra è cenno. Ci sarebbe da aggiungere la distrazione dei parlamentari di fronte a tutto ciò, ma questo sarebbe un discorso assai più ampio. E deprimente.