Dall’esame del documento presentato dalle agenzie
d’intelligence USA sui presunti rapporti tra il tycoon newyorchese e il
Cremlino emergono incongruenze ed errori formali
Il 9 gennaio scorso Lookout News commentando il periodo di
passaggio tra l’Amministrazione uscente di Barack Obama e quella del suo
successore Donald Trump, ha parlato di “una transizione difficile”,
resa complicata non soltanto dalle difficoltà oggettive che
tradizionalmente accompagnano questa delicata fase istituzionale negli
Stati Uniti, ma anche da polemiche miranti di fatto a delegittimare il
nuovo presidente americano.
In particolare, con la pubblicazione di un report elaborato dalle
quattro principali agenzie di intelligence USA – la National
Intelligence, la CIA, l’NSA e l’FBI – su mandato del presidente Obama, è
stata messa in dubbio in modo ambiguo e allusivo la scelta degli
elettori a favore di Trump in quanto la campagna elettorale sarebbe
stata inquinata da pesanti interferenze a favore del candidato
repubblicano operate da hacker pilotati dai servizi segreti russi.
Nel parlare di “transizione difficile” si è però peccato di
ottimismo. Nella giornata di ieri, mercoledì 11 gennaio, infatti, sui
giornali di tutto il mondo è comparsa la notizia di un nuovo
report asseritamente proveniente dall’intelligence americana,
contenente notizie molto compromettenti per il neo presidente, accusato
di essere ricattato dal Cremlino per i suoi affari in Russia e per le
sue perversioni sessuali. Accuse gravissime che in un primo momento sono
state ricondotte a un’informativa ufficiale dei servizi segreti
americani.
Le incongruenze del documento
Un esame del nuovo, incriminante, report mostra chiaramente che non
può essere minimamente riconducibile a un organismo ufficiale
statunitense. L’intestazione “Company intelligence report” non è attribuibile alla CIA, che viene chiamata “Company” solo nei romanzi di spionaggio.
La classifica di segretezza del documento non appartiene al gergo
ufficiale: infatti i documenti dell’intelligence recano in testa il
livello di segretezza – “confidential”, “secret”, “top secret”, etc. – e nessun altro riferimento.
In questo report la classifica di segretezza è invece “Confidential/Sensitive source”.
Sarebbe stato sufficiente questo riferimento a far capire a chiunque
con un minimo di esperienza di documenti dell’intelligence che ci si
trovava di fronte a una documentazione quantomeno sospetta.
Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, il protocollo del
documento (anno e numero progressivo delle informative), la presenza di
errori di ortografia, la denominazione improbabile delle fonti (A, B, C, etc.) che normalmente nei documenti interni dei servizi vengono indicate o con il nome di copertura (“Sonia”, “Mirtillo”
e via dicendo) o, nelle informative destinate ai clienti istituzionali,
definite in base all’attendibilità o alla capacità di accesso alle
informazioni sensibili (“fonte solitamente attendibile” o “fonte con accesso diretto”),
da soli erano sufficienti a far capire sia ai tecnici del settore sia a
giornalisti di una certa esperienza che ci si trovava di fronte a un
documento estraneo all’intelligence ufficiale.
Le perplessità sull’attendibilità del “Company intelligence report” sarebbero poi dovute aumentare leggendone il contenuto, pieno di errori formali e di notizie strampalate e inattendibili. Infatti, nel testo si parla di “russian regime”,
un termine che neanche un giornale scandalistico userebbe per definire
il governo russo. Si afferma che fin dal 2013 Trump lavorava per
screditare la sua concorrente Hillary Clinton con l’aiuto del Cremlino,
quando è noto anche ai lettori meno attenti che nel 2013 la Clinton era
ancora segretario di Stato e Donald Trump un ricco immobiliarista e che
nessuno dei due – tra i due soprattutto Trump – poteva ancora immaginare
che tre anni dopo avrebbe vinto le primarie e che avrebbe affrontato
proprio quel rivale nella corsa alla Casa Bianca.
Per non parlare delle notizie sulle perversioni sessuali di Trump
e sui suoi intrecci con i vertici del Cremlino, fornite da una rete di
fonti di altissimo livello, una rete che se fosse esistita realmente
avrebbe fatto sognare i vertici di qualsiasi servizio segreto, una rete
che la CIA ha sempre sconsolatamente ammesso di non avere.
Senza andare oltre nel citare le incongruenze del report che per
ventiquattr’ore ha conquistato l’attenzione dei media di tutto il mondo,
questi esempi sono sufficienti a definirlo un falso. I dubbi che si
trattasse di un “fake”, di un documento farlocco, avrebbero
dovuto consigliare cautela sia ai giornalisti, ai quali “manine”
misteriose lo avevano fatto pervenire, sia ai vertici dell’intelligence
americana che dopo averlo esaminato lo hanno comunque giudicato degno di
essere portato all’attenzione sia del presidente uscente che del suo
successore.
La reazione di Trump
Come era da aspettarsi, la pubblicazione del “Company intelligence report”
ha provocato negli Stati Uniti e all’estero una bufera mediatica che ha
rovesciato sulla testa del neo presidente americano un quantità di
accuse che, se vere e provate anche in minima parte, ne
delegittimerebbero in modo irreparabile la figura prima ancora del suo
ingresso alla Casa Bianca.
Donald Trump ha ovviamente reagito in modo indignato sia alla
pubblicazione del dossier sia per il fatto che l’intelligence lo abbia
potuto trovare attendibile al punto di sottoporlo in forma riassuntiva
alla sua attenzione durante il briefing del 6 gennaio, quando i capi
delle quattro Agenzie lo hanno incontrato alla Trump Tower per discutere
delle attività vere e presunte del Cremlino in America. L’11 gennaio,
durante la sua prima conferenza stampa dopo le elezioni, il neo
presidente, riferendosi alla pubblicazione del report ha detto: “credo
sia una disgrazia che le agenzie di intelligence abbiano permesso la
circolazione di notizie così false e truffaldine. È qualcosa che poteva
accadere, e in effetti accadde, solo nel Germania nazista”.
(New York, 11 gennaio 2017: conferenza stampa del presidente degli Stati Uniti Donald Trump)
La risposta imbarazzata della National Intelligence
Accuse pesanti che hanno costretto il capo della National Intelligence, James Clapper,
a diffondere un imbarazzato e confuso comunicato nel quale, dopo aver
espresso disappunto perché il dossier è stato fatto pervenire alla
stampa ha ammesso che le accuse contro Trump provenivano da “un’agenzia di sicurezza privata” e sostenuto che “le agenzie di intelligence americane non avevano espresso alcun giudizio sull’attendibilità delle accuse” e che “tuttavia
si era ritenuto di fornire comunque ai vertici della politica un quadro
più completo possibile delle materie che possono danneggiare la
sicurezza nazionale”. Un’affermazione incredibile che, dopo aver
riconosciuto che nessuno nell’intelligence community americana ha
vagliato l’attendibilità del dossier, getta una luce ambigua sulla
professionalità dei vertici dei Servizi americani e sulle motivazioni di
un’azione di indubbia gravità politica.
(Il direttore della National Intelligence James Clapper)
Perché è stato considerato attendibile Christopher Steele?
Il dossier, si è poi saputo, è stato elaborato da Christopher Steele,
un funzionario in pensione del Servizio segreto inglese, attualmente
titolare della Orbis Bussiness Intelligence,
società che dopo aver offerto i propri servizi ai concorrenti
repubblicani di Trump alle elezioni primarie si sarebbe poi proposta ai
democratici.
Michael Morell, ex vicedirettore della CIA e supporter di Hillary Clinton, ha dichiarato al Washingotn Post:
“mi sembra un fatto straordinario e senza precedenti che si sia portato
all’attenzione di un presidente in carica e di un presidente eletto un
documento privato sui cui contenuti non si ha ragione di credere”. Il
giornale di Washington ha ammesso di aver ricevuto copia del documento
insieme ad altri giornali americani e di aver svolto ricerche anche
all’estero per valutare le notizie riportate ma “di non essere riuscito trovare conferma delle accuse” contro Donald Trump.
L’FBI ha ammesso di aver incontrato due volte
Steele, nell’agosto del 2016, dopo che questi aveva offerto il documento
al senatore repubblicano John McCain, fiero oppositore di Trump, ma di
non aver potuto valutare l’attendibilità delle sue fonti perché Steele
si era rifiutato di rivelarne l’identità. Comunque l’ex funzionario del
Servizio inglese era ritenuto “affidabile” e per questo una sintesi del
suo dossier è stata inserita nei briefing presidenziali mentre
“qualcuno”, a dieci giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca,
ha deciso di far arrivare alla stampa la versione integrale di un
rapporto che descrive il neo presidente come un pervertito, corrotto e
ricattato da Vladimir Putin.
La portata dell’attacco condotto contro Donald Trump non solo dalla
stampa liberal, che lo ha sempre avversato, ma anche da istituzioni come
le Agenzie di intelligence americane che non hanno esitato a dare una
credibilità sostanziale a un “fake” così grossolano come il Company intelligence report,
induce a riflessioni preoccupate sul clima avvelenato che
contraddistingue la transizione alla Casa Bianca. Un clima inquinato con
ogni mezzo da un establishment che sembra non voler accettare di essere
messo da parte dopo l’inaspettato successo del tycoon newyorchese che,
contro ogni previsione, ha comunque legittimamente conquistato il
diritto di essere il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti
vincendo libere e democratiche elezioni.
di Alfredo Mantici - 12 gennaio 2017