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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

14/06/14

Caso Marò ___ TRADITI !!! ___ "Così Monti ingannò i marò per farli tornare in India"

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 "Così Monti ingannò i marò per farli tornare in India" 

 

L'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi: "Il premier li convinse assicurando il rientro in poche  settimane. E  quelle  pressioni sulla magistratura..."



«Basta con attendismi e furbizie» è l'appello che l'ex ministro degli Esteri, Giulio Terzi, lancia in vista della manifestazione di oggi a Roma per i marò.



«Bisogna intraprendere con decisione la strada dell'arbitrato internazionale per riportarli a casa» sottolinea Terzi. E rivela scabrose verità nascoste sulla gestione del caso ai tempi del governo Monti: «Nel marzo 2013 hanno vergognosamente convinto i marò a rientrare in India, dopo che si era deciso il contrario, assicurando che nel giro di poche settimane o mesi sarebbero tornati a casa». Terzi si dimise per protesta. In pratica il governo Monti aveva promesso a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, per tenerli buoni, che tutto si sarebbe risolto in fretta. «Prima hanno deciso di rimandarli a Delhi su istigazione di un ministro che adesso vuole fondare un partito politico» spiega Terzi. Il riferimento è a Corrado Passera, allora responsabile dello Sviluppo economico, che paventava rappresaglie indiane sui nostri interessi in India. Poi per indorare la pillola ai marò «saltò fuori la tesi che gli indiani erano così contenti di avere ottenuto quello che volevano, che ci avrebbero rimandato indietro i marò in poco tempo. Invece non è stato così». Secondo Terzi «l'Italia continua a dar prova di confusione, indecisione o almeno attendismo. Per questo, la manifestazione di oggi organizzata dalle famiglie, alla quale hanno aderito con decisione le associazioni di ex militari, deve dire basta».
Per l'ex ministro degli Esteri «è sorprendente che uomini politici (come Pierferdinando Casini, ndr) difendano ancora Monti, che non solo ha deciso di rimandare i marò in India, ma li ha fatti assicurare che nel giro di pochissimi mesi il problema si sarebbe risolto». Per Terzi il governo Monti ha anche altre responsabilità fino ad ora taciute sul caso marò. «Al primo permesso natalizio concesso da Delhi avevo scritto una lettera al presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia e quello della Difesa per sensibilizzare la magistratura che li avrebbe potuti trattenere in patria - racconta Terzi - Temo sia avvenuto il contrario».
Con l'arbitrato internazionale la vittoria dell'Italia, secondo schiere di esperti, dovrebbe essere già in tasca. «Letta ha seguito la linea dell'abbandono dei marò nelle mani degli indiani. Il governo Renzi un giorno parla di internazionalizzazione - sottolinea Terzi - e quello dopo il capo di stato maggiore della Marina dice che comunque il percorso va condiviso con l'India. Basta: che imbocchino definitivamente e celermente la strada giusta dell'arbitrato». Ieri il viceministro agli Esteri Lapo Pistelli ha confermato «che l'Italia non accetterà la giurisdizione indiana sulla vicenda». Pistelli ha rispolverato il vecchio cavallo di battaglia dell'immunità funzionale, un po' debole sul piano giuridico della Convenzione del diritto del mare che prevede l'arbitrato.
Paola Moschetti, compagna di Massimiliano Latorre, lancia un appello per la partecipazione «alla marcia tranquilla e solidale di oggi a Roma che partirà alle 16.45 da piazza della Bocca della Verità. Non sono stati invitati politici di nessuno schieramento. È una manifestazione libera, alla quale potrà aderire chiunque voglia tenere alta l'attenzione sui nostri fucilieri in India». IlGiornale, Libero e Il Tempo hanno aderito. L'associazione degli alpini paracadutisti porterà un grande paracadute con su scritto «marò liberi».


13/06/14

Per i giudici, i figli non esistono




Gli ermellini della Consulta




Per i giudici, i figli non esistono



Lui cambia sesso, il matrimonio resta valido: in questi termini larga parte delle testate, televisive e della carta stampata (con rare eccezioni, come il quotidiano Libero), hanno riassunto la sentenza della Corte costituzionale n. 174, dell’11 giugno. È una sintesi sbagliata: porre così la questione ne fa perdere di vista il senso. Per coglierlo va fatto un passo indietro: nel 1982 è approvata la legge n. 164 in materia di rettificazione di attribuzione di sesso. Le sue disposizioni stabiliscono che la modifica del sesso, rispetto a quello enunciato dall’atto di nascita, avviene con sentenza del tribunale, con due precisazioni, poste dall’articolo 4: la sentenza non ha effetto retroattivo (restano valide le situazioni giuridiche maturate prima della modifica dei caratteri sessuali); “essa provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili” del matrimonio religioso, con conseguente applicazione della disciplina del codice civile e del divorzio.
Oggi la Consulta interviene sull’automatismo fra la sentenza di rettificazione del sesso di uno dei coniugi e lo scioglimento del matrimonio previsto dall’art. 4: ad avviso della Cassazione, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, ciò violerebbe il “diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazione, quando essa assuma i caratteri della stabilità e della continuità propri del vincolo coniugale”. La Corte costituzionale mostra di non condividere questa posizione, e richiama in proposito una sua precedente sentenza del 2010 per confermare che il matrimonio, secondo l’ordinamento italiano, è possibile solo fra persone di sesso diverso; per questo non ritiene “configurabile un diritto della coppia non più eterosessuale a rimanere unita nel vincolo del matrimonio”, né ritiene di sostituire il divorzio automatico con un divorzio a domanda, “poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l’art. 29 Cost.”. I titoli di quasi tutti i quotidiani di ieri sono pertanto da correggere: lui cambia sesso, il matrimonio non resta valido.   
La Consulta però va oltre, e ricorda che l’unione omosessuale rientra nella categoria delle “formazioni sociali” tutelate dall’articolo 2 della Costituzione: tale tutela non ha come unico terreno di realizzazione la parificazione fra unione omosessuale e matrimonio. Forme di riconoscimento e di garanzia di tali unioni per la Corte competono al Parlamento: nel caso specifico, esse – se esistenti – eviterebbero “il sacrificio integrale della dimensione giuridica del precedente rapporto”. Da ciò – ed è il passaggio più significativo della sentenza – l’indicazione, come “compito del legislatore”, di “introdurre una forma alternativa (…) che consenta ai coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica a una condizione (…) di assoluta indeterminatezza”. Dunque, l’illegittimità della legge del 1982 sul cambiamento di sesso è non in quello che essa prescrive, bensì in quello che essa omette: “mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata”. È un “compito del legislatore”, cui adempiere “con la massima sollecitudine”.
Il ragionamento solleva qualche interrogativo. Il primo; quanti sono in Italia, su 60 milioni di abitanti, i casi che hanno le caratteristiche di quello dal quale ha preso le mosse la Corte costituzionale? è rilevabile statisticamente la quantità di coppie regolarmente sposate (in Chiesa!), al cui interno un coniuge cambi sesso, e che però intendono restare unite in matrimonio pur dopo gli interventi del chirurgo e del giudice? Una vicenda così particolare giustifica l’ingiunzione al Parlamento di un obbligo di fare, e di fare rapidissimamente, valido per tutti? Il secondo; la Consulta pone un’alternativa fra la “massima protezione giuridica”, che sarebbe garantita ai coniugi dal regime matrimoniale, e la “condizione di assoluta indeterminatezza”, che riguarda invece i componenti di una unione di fatto; è una alternativa così radicale? Mettiamo su due colonne, gli uni a fianco agli altri, i diritti di cui godono i coniugi e i diritti riconosciuti ai componenti di una unione di fatto, esito di leggi ordinarie, di pronunce della stessa Corte costituzionale e di giurisprudenza consolidata. È più facile dire per costoro che cosa resta fuori rispetto a ciò di cui invece possono godere: restano fuori la quota di legittima nelle successioni, la possibilità di adottare un bambino e la reversibilità del trattamento pensionistico, tutto il resto è riconosciuto! Va approvata una legge sulle unioni civili per disciplinare quello che è già previsto o per inserire legittima, adozioni e reversibilità? se la risposta è la seconda, conviene essere onesti fino in fondo, e ammettere che la legge così perentoriamente sollecitata avrà per titolo “unioni civili”, ma per sostanza il matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Due annotazioni conclusive: a) quando nel 1982 passò la legge sul cambiamento di sesso si era, come oggi, alla vigilia di un campionato del mondo di calcio, ma le firme in calce al provvedimento erano quelle di Pertini, Spadolini, Darida e Rognoni, rispettivamente capo dello Stato, capo del Governo e ministri della Giustizia e dell’Interno. Dubito che in quel momento taluno di loro immaginasse quali problemi sarebbero sorti 32 anni dopo: è la conferma del pieno vigore di una legge, mai pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, i cui effetti sono però implacabili, soprattutto se la si ignora, che è quella – più volte evocata dal cardinale Sgreccia – del “piano inclinato”; quando si abbandona il rispetto del dato naturale, nulla più sorprende; b) nella sentenza n. 170 della Corte costituzionale si parla di unioni omosessuali, di libertà di autodeterminarsi, di diritti da non comprimere, ma non compare neanche una volta la parola “figli”. Sono lasciati fuori dalla porta, privi di qualsiasi considerazione. Sono lasciati anche fuori dalla Nazione, come il dato statistico – questa volta rilevante – tragicamente denuncia.

di Alfredo Mantovano13-06-2014 
fonte: http://www.lanuovabq.it

Turchia di Erdogan: follie del premier su Siria e Iraq

Michele Marsonet, da studioso, non usa molti giri di parole. «Nel grande disastro irakeno che rivela il completo fallimento della politica estera americana e occidentale in genere, vale la pena di rammentare anche il prezzo che la Turchia sta pagando grazie alla strategia folle di Recep Erdogan».
Partito con l’intento di restituire al suo Paese un ruolo di grande potenza regionale (che peraltro in parte già aveva), il premier turco si è poi messo a coltivare il sogno di rifondare un’entità che assomigliasse al vecchio impero ottomano. Naturalmente i confini non possono essere quelli di un tempo così lontano, e allora la spinta espansiva si è rivolta alle repubbliche turcofone ex sovietiche del Caucaso e dell’Asia centrale come Azerbaijan e Turkmenistan, con una politica di penetrazione culturale assai intensa. In Azerbaijan, per esempio, il russo viene progressivamente sostituito dall’azero che è una lingua molto simile al turco.

Combattente 'peshmerga' curdo in Iraq
Combattente ‘peshmerga’ curdo in Iraq

E fin qui siamo nei limiti della normalità, per quanto un po’ tirata per i capelli. Ma Erdogan non si è accontentato di questo. Ha pure preteso di giocare un ruolo di primo piano nella crisi siriana appoggiando concretamente i ribelli anti-Assad, e non si è fermato neppure quando si capiva che fondamentalisti e qaedisti avevano ormai preso il sopravvento nel conflitto che tuttora insanguina il Paese confinante.
Tutto insomma andava bene pur di abbattere il governo di Damasco, e i rifornimenti ai ribelli che passano attraverso il confine tra Siria e Turchia sono diventati col tempo sempre più copiosi. La gravissima tensione interna non ha affatto frenato Erdogan, facilitato dal fatto che l’esercito, per decenni custode degli ideali laici di Ataturk, è stato ridotto all’impotenza e obbedisce adesso al nuovo padrone.

Ad Ankara hanno però sottovalutato alcuni eventi recenti, e in particolare la formazione di un’entità – che potrebbe presto diventare uno Stato – di ispirazione qaedista. I rapporti con l’Isis sono stati finora piuttosto buoni ma, si sa, i fondamentalisti non agiscono su basi razionali. Dopo aver conquistato il Nord irakeno e una fetta consistente della Siria, i miliziani dell’Isis, arrivati a Mossul, hanno assaltato il consolato turco sequestrando il console stesso e un numero imprecisato di impiegati della sede diplomatica.
Erdogan e il suo ministro degli esteri ne hanno subito preteso la liberazione immediata, minacciando un’azione militare in caso contrario. Difficile tuttavia portarla a termine in una zona che i fondamentalisti (tra l’altro sunniti proprio come i turchi) dominano interamente. L’esercito regolare iraqeno addestrato dagli USA si è squagliato come neve al sole, abbandonando sulle strade armi e mezzi militari in gran numero. Gli americani hanno promesso un invio massiccio di droni, ma non si vede davvero come possano risultare utili senza avere sul terreno truppe efficienti che contrastino l’avanzata delle forze dell’Isis.

Combattenti  Peshmerga curdi sparano con un lanciarazzi
Combattenti Peshmerga curdi sparano con un lanciarazzi

Giova pure rammentare che l’unica zona sicura nel settentrione irakeno è il Kurdistan, dove i celebri peshmerga hanno finora impedito qualsiasi infiltrazione. Pare, anzi, che ora si stiano muovendo sostituendosi all’esercito regolare, e che siano pure riusciti a bloccare in certi punti l’avanzata dei qaedisti.
A nessuno sfugge la stranezza della situazione. La guerriglia curda è stata per decenni una vera e propria spina nel fianco del governo di Ankara e, se continua così, andrà a finire che i turchi dovranno affidarsi proprio ai curdi irakeni per salvare i loro connazionali. Un’indubbia lezione per Erdogan, anche se, conoscendo il personaggio, dubito che sappia trarne le dovute conseguenze.

Michele Marsonet- 13 giugno 2014
fonte: http://www.remocontro.it

RIPORTIAMOLI A CASA L’Italia abbraccia i marò






Per domani adesioni da tutte le Regioni e da Paesi esteri In piazza anche le associazioni San Marco e paracadutisti INTERVISTA 

Nino Benvenuti: «Se non tiriamo fuori quei ragazzi passiamo per un Paese di incapaci»


«C'è tanto spirito di corpo ed entusiasmo nell'organizzazione della manifestazione e una corsa continua a proporsi generosamente come volontari per fornire aiuti logistici, indicazioni stradali e delle linee metro...». Descrive così l'atmosfera della vigilia del corteo per i marò Tiziana Piliego, insieme a Rita Riggio e Paola Moschetti Latorre, una delle promotrici dell'evento «Tutti insieme, nessuno indietro» nella Capitale. «Riceviamo continuamente adesioni al corteo - spiega Tiziana, socia del gruppo nazionale Leone di San Marco della Marina Militare - da tutta Italia e anche dall'estero. In piazza troveremo anche una delegazione del gruppo "Italiani nel mondo": arrivano dal Canada. Poi siamo particolarmente contenti della vicinanza di esponenti di primo piano dello spettacolo come Lino Banfi, Michele Placido, Pippo Baudo, Lando Fiorini ed Emilio Solfrizzi, sinceri testimonial di una battaglia di libertà». Non mancheranno commilitoni di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone: è il caso di Gianfranco Melfi, marò in pensione nonché uno degli istruttori dei fucilieri in India. Era in Libano nel 1982 e rimase ferito nell'imboscata che costò la vita al militare Filippo Montesi durante il pattugliamento nei pressi di un campo profughi a Beirut. La mobilitazione coinvolgerà tutte le regioni d'Italia. «La delegazione più numerosa - ha assicurato la Piliego - verrà dall'Emilia Romagna: i responsabili, oltre ad aver predisposto più pullman, hanno realizzato magliette ad hoc con le foto di Massimiliano e Salvatore. In tanti giungeranno a Roma dalla Puglia, da Milano, dal Veneto e dalla Liguria. Ci sarà l'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia e quella dei Granatieri di Sardegna e degli Alpini, i due marescialli della Guardia di Finanza Nicola Antonio Cinquepalmi e Domenico Gallo ideatori della marcia da Loreto alla basilica di San Pietro per la libertà dei fucilieri. Senza simboli di partito sfilerà con noi anche Casapound». Un messaggio di incoraggiamento è giunto anche dalla Russia con Maurizio Fraioli: «Da San Pietroburgo con tutto il cuore... Nessuno resta indietro». Infine una novità dall'India: l'avvocato Mukuk Rohatgi, negli ultimi mesi difensore in Corte Suprema dello Stato italiano e dei fucilieri è stato nominato Procuratore generale dell'India. Rohatgi ha assicurato che la sua priorità «sarà quella di snellire le vertenze processuali, di ridurre le vertenze fra i dipartimenti governativi e i vari organismi del settore pubblico».

Michele De Feudis- 13 giugno 2014
fonte: http://www.iltempo.it

"Non dimentichiamo i nostri marò" - Tutti a Roma il 14 giugno



La compagna di Latorre invita tutti al corteo silenzioso a Roma: "Quanto tempo perso. In India da 28 mesi, innocenti"



Difficile trovare le parole adatte per descrivere quest'odissea, il dramma umano e familiare, le gravi violazioni dei diritti, la caporetto diplomatica. 



I nostri marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono ancora in India, dopo avervi trascorso quasi due anni e mezzo tra carcere e soggiorno obbligato. Di che cosa sono accusati? «Di nulla. Perché la magistratura indiana in tutto questo tempo non è stata in grado di formulare un capo d'imputazione», afferma Paola Moschetti, la compagna di Latorre. E come potrebbe, New Delhi non ha giurisdizione fuori dalle sue acque territoriali. Perciò siamo in stallo, uno stallo che pesa solo sulle spalle dei due marò e dei loro cari. Errori, faciloneria, conflitti d'interesse hanno costellato questa vicenda, che non sembra di facile soluzione.
«L'importante è non dimenticarsi di loro», sottolinea Paola, che assieme alle amiche sta promuovendo “Tutti insieme nessuno indietro”, la manifestazione per i marò del 14 giugno a Roma. «Ci sarà tantissima gente. E poi le associazioni nazionali d'arma: Alpini, Paracadutisti, Marinai, le Crocerossine, l'Associazione Leone di San Marco, i Sostenitori delle Forze dell'ordine. Un elenco lunghissimo. E naturalmente il sostegno dei quotidiani Il Giornale, Il Tempo e Libero. Il corteo partirà da piazza Bocca della Verità alle 17».
Che cosa vi proponete con questa manifestazione?
«Di tenere alta l'attenzione dell'opinione pubblica. È fondamentale sia per dare sostegno a chi si occupa del caso sia per Massimiliano e Salvatore, che non si sentono, né mai si sono sentiti, abbandonati dagli italiani».
Sono stati mesi lunghi e difficili.
«Sì, 28 mesi lontani da casa, 28 mesi trattenuti senza accuse, da innocenti».
Qual è stato il momento più delicato, più doloroso?
«Il 21 marzo 2013, quando sono stati rimandati in India (da Monti, ndr). L'annuncio che sarebbero rimasti in Italia ci aveva riempito di gioia. Ma poi, la decisione di farli ripartire… è stata dura. Ed è un trauma difficile da superare ancora oggi».
I nostri governi non hanno brillato in rapidità ed efficacia. Uno ha addirittura peggiorato la situazione: Monti.
«Non voglio commentare l'azione dei governi. Quello che è stato ormai è acqua passata, non porta a nulla cercare dei responsabili o lanciare accuse. Bisogna concentrarsi sul futuro ed essere costruttivi, solo così si potrà trovare una soluzione a questa dolorosa vicenda».
«Il Giornale» scrisse già il giorno dell'arresto che era necessario internazionalizzare il caso e chiedere un arbitrato. Dopo oltre due anni il governo ha preso questa strada. Tutto tempo perduto?
«È vero, è trascorso tanto tempo, ma l'importante ora è non perderne altro»
Deve ammettere però che i tre governi, succedutisi da quando è cominciata l'odissea in India dei marò, hanno avuto atteggiamenti diversi.
«Che l'attuale governo si sia mosso meglio lo dicono e lo scrivono tutti. È evidente il suo impegno nonostante la difficile situazione ereditata».
L'ultima volta che ha visto Massimiliano?
«Sono andata a trovarlo a Pasqua».
Come l'ha trovato?
«Fisicamente in forma. Il morale, come ben può capire, non è sempre altissimo».
Vi sentite spesso?
«Ogni giorno al telefono, con skype naturalmente»
Che cosa pensa Massimiliano della manifestazione e delle iniziative che si susseguono in Italia?
«Gli danno forza. Sapere che gli italiani sono al loro fianco e non li dimenticano, riempie di speranza sia lui sia Salvatore».
Che cosa farà quando ritornerà dall'India?
«Riprenderà la vita che conduceva sino al giorno prima della partenza per questa missione. Cioè tornare al lavoro, alla famiglia, agli amici, insomma a vivere il quotidiano».



Un sabato italiano accanto ai Marò





L’Italia scende in piazza per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. L’appuntamento è per domani pomeriggio a Roma (ore 17) in piazza Bocca della Verità. La manifestazione “Tutti insieme, nessuno indietro”, si svolge dopo 6 mesi dall’ultima dello scorso mese di novembre che vide sfilare, sotto una pioggia incessante, oltre 3mila persone animate da tanta voglia di far sentire ai due fucilieri della Brigata Marina San Marco, la propria vicinanza.
La nuova manifestazione avrà gli stessi connotati pacifici, apolitici e apartitici di quella precedente. Nessuna protesta, nessuna violenza psicologica su chi deve risolvere questa che è oramai diventata una vicenda dai mille volti, una vicenda che si trascina da due anni e mezzo tra rinvii, rimbalzi di responsabilità, cambi di governi in Italia e in India. Il tutto senza che i due valorosi Leoni abbiano mai dato segni di cedimento. Merito della vicinanza delle loro famiglie ma anche di una famiglia allargata che è quella degli italiani, quelli con la “I” maiuscola, quelli che credono nei valori di Patria e Bandiera, che si emozionano cantando l’inno nazionale, che fanno sventolare il nostro tricolore tutto l’anno, che sono insomma italiani sempre e non a tempo determinato!
E di bandiere tricolore domani ce ne saranno molte a giudicare dalle numerose adesioni ufficiali già arrivate al team organizzativo. L’augurio è che il tricolore sventolerà non solo per l’esordio della nazionale di calcio ai campionati mondiali, ma soprattutto per i due Leoni.
La marcia pacifica, che percorrerà le vie di Roma per concludersi in piazza Farnese, vuole essere una sorta di abbraccio che da Roma raggiungerà New Delhi, l’ennesimo abbraccio che si unisce ai tanti che in questi lunghissimi 28 mesi sono giunti ai militari attraverso le tante, tantissime manifestazioni di piazza da parte delle associazioni d’Arma, ma anche di comuni cittadini che si sentono rappresentati da Massimiliano e Salvatore, dal loro orgoglio e dalla loro dignità. Quando domani le immagini della manifestazione giungeranno a New Delhi, per loro sarà l’ennesima dimostrazione che l’Italia li aspetta a braccia aperte, che l’Italia non ha mai dubitato un attimo di loro e del loro operato. La rabbia è tanta, ma è grande anche la capacità di mantenere i nervi saldi, conservare la lucidità fino alla fine per poter accogliere dignitosamente e con l’onore che meritano, i nostri ragazzi al rientro in patria.





In molti hanno accolto l’invito a partecipare alla marcia, lo hanno fatto numerose associazioni d’arma, personaggi dello spettacolo, ma soprattutto gente comune, madri, padri, figli, fratelli e sorelle che vedono in Massimiliano e Salvatore due persone di famiglia, due figli di questa Italia martoriata su più fronti, ma che riesce sempre a rimettersi in piedi dopo ogni caduta. Ecco perché bisogna andare fino in fondo. Crederci sempre, arrendersi mai. Questo il mio personale motto ma credo di poter dire, senza il rischio di essere smentita, il motto di molti.
Mi sia consentito rivolgere un ultimo appello a chi ancora non ha deciso se essere dei nostri domani a Roma: un piccolo sacrificio per voi vale molto per Massimiliano e Salvatore, ognuno di noi rappresenta una boa alla quale aggrapparsi per poter affrontare quello che accadrà nei mesi prossimi. Roma ci aspetta, i Leoni ci aspettano, “Tutti insieme, nessuno indietro”.

di Tiziana Piliego- 13 giugno 2014
fonte -http://www.opinione.it



EMERGENZA ROM «Pure alla Croce Rossa hanno dato fuoco...»


Distrutto il campo de La Barbuta costato 10 milioni di euro. Il presidente della Cri: «Ci sono situazioni di illegalità diffusa che non sono perseguite»



Il Comune di Roma ha pagato dieci milioni di euro per costruirlo. Conta più di 160 casette prefabbricate dove abitano quasi mille nomadi. È il «villaggio della solidarietà» de La Barbuta, periferia sud-est della Capitale al confine con Ciampino, inaugurato nel 2012. Doveva essere il fiore all’occhiello degli insediamenti regalati agli zingari. Dopo tre anni è ridotto in pessime condizioni. Gli «inquilini» hanno mostrato scarsissimo rispetto per la loro casa. Gli alloggi, i cosiddetti moduli abitativi, sono stati distrutti e incendiati, le strade sono state ridotte a discariche, cataste di auto rubate e ridotte a rottami vengono smontante e rimontate tra la spazzatura. Non hanno avuto rispetto per nulla, nemmeno per la Croce Rossa a cui erano stati assegnati due locali proprio per aiutare i rom. Queste due strutture sono state bruciate l’estate scorsa.
Il presidente provinciale della Croce Rossa di Roma, Flavio Ronzi, è esasperato: «Da mesi ormai chiediamo all’assessore alle Politiche sociali Cutini un incontro per parlare del degrado e delle situazioni di tensione all’interno del campo, ormai è una zona franca ma nessuno ci ha ancora dato risposte». Insomma, così non si può andare avanti. «Nel lungo termine - spiega Ronzi - chiediamo il superamento dei villaggi attraverso un’integrazione effettiva dei nomadi, come avviene in tutta Europa, ma nel frattempo la sicurezza e il rispetto delle regole all’interno dei campi devono essere garantiti: le istituzioni, invece, sono totalmente assenti, non tutti i bambini vanno a scuola al mattino, c’è chi sfreccia con la sua auto all’interno quando vuole, ci sono situazioni di illegalità che non vengono perseguite, durante la notte o nei fine settimana, quando non ci siamo, il quadro peggiora e tutto diventa lecito». Come il rogo, appunto, dello scorso anno, appiccato alla sede della Cri che conta otto operatori. «Hanno distrutto anche i container per le attività ludiche - aggiunge - erano stati installati nell’ottica della socializzazione e dell’integrazione, i continui incendi di moduli abitativi, gli ultimi poche settimane fa, dimostrano che la sicurezza e il diritto, anche con investimenti da milioni di euro, non abitano a La Barbuta». Insomma si chiedono risposte: «Se questa amministrazione insiste coi campi, li controlli e faccia attuare i regolamenti, altrimenti ci spieghi cosa intende fare: il degrado, del resto, non riguarda solo i villaggi ma l’invasione di insediamenti abusivi lungo il Tevere, sotto i ponti, lasciare la situazione com’è avrà solo l’effetto di amplificare il conflitto e l’intolleranza sociale».
La Croce Rossa è stata vittima anche di altre vessazioni. Basta ricordare cosa è accaduto il 7 luglio del 2013. Per farlo leggiamo la relazione stilata dagli addetti alla vigilanza: «Alle ore 02,15 circa, mentre espletavamo il servizio di monitoraggio, notavamo tre ragazzi che entravano nel modulo della Croce Rossa dal quale asportavano materiale voluminoso, presumibilmente un tavolo e probabilmente altre cose. Avvertivamo la sala operativa che inviava sul posto la nostra unità mobile di supporto e due pattuglie della polizia di Roma Capitale, le quali si prodigavano per le procedure del caso. Lo stesso modulo altre volte è stato fatto oggetto di razzie e atti vandalici». Proprio così, questa è la routine con cui devono fare conto ogni giorno le guardie addette al controllo del campo che sono state assunte come addetti alle pulizie. Non hanno nemmeno la pistola d’ordinanza, in pratica non possono difendersi e sono bersaglio quotidiano di minacce e aggressioni da parte dei nomadi.
La situazione è sempre più critica. Ad aprile, ad esempio, sono stati bruciati due moduli abitativi e un’auto parcheggiata in una strada laterale. I responsabili, ovviamente, non sono stati trovati. La criminalità continua, il degrado pure. Lo stesso fa il Comune di Roma che continua a pagare per garantire un alloggio decoroso a chi, probabilmente, non interessa.

Dario Martini - 11 giugno 2014

fonte: http://www.iltempo.it

12/06/14

India. Orrenda catena di orrori, altre donne stuprate ed impiccate ad alberi



INDIA, NEW DELHI – Ancora stupri, ancora donne uccise, ancora orrore. L’ondata di violenze consumate nell’Uttar Pradesh, lo Stato più popoloso dell’India, ha generato nelle ultime due settimane raccapriccio per la brutalità delle aggressioni e grande preoccupazione per l’impunità di cui continuano a godere troppo spesso gli autori.
Soltanto nella giornata di giovedi i media, uno dei quali ha ribattezzato l’Uttar Pradesh come ‘Raper Pradesh’ (Pradesh violentatore), hanno denunciato il rinvenimento nel distretto settentrionale di Bahraich del cadavere di una donna impiccata con un sari ad un albero di guava che, secondo i familiari, sarebbe stata violentata da membri di una “mafia dell’alcool”.
Quindi il ritrovamento alla periferia di un villaggio del distretto di Moradabad del corpo senza vita di una ragazza di 16 anni, anche lei appesa, a mo’ di sfida, al ramo di un albero. E ancora, la disavventura di una sposa di 35 anni che, recatasi nel commissariato di Sumerpur (distretto di Hamirpur) per chiedere il rilascio del marito arrestato per il porto illegale di una pistola, si è trovata violentata dal commissario di turno, senza che i tre agenti presenti sollevassero un dito per soccorrerla. Si è appreso che il commissario è stato arrestato ed i suoi tre subordinati sospesi dal servizio. A fine giornata, infine, si è saputo che un giovane studente di una madrassa (scuola coranica) mercoledi è stato sodomizzato e ucciso in circostanze misteriose. Il suo cadavere, riferiscono le cronache, è apparso su una strada del villaggio di Sarai Raja, nella zona di Mandhata.
Il Vaso di Pandora della violenza sessuale, un fenomeno che colpisce da sempre le donne ‘dalit’ (senza casta) o tribali indiane, si è scoperchiato fragorosamente a metà dicembre 2012 quando è stata la volta di una giovane studentessa di classe media ad essere violentata a morte a New Delhi su un autobus in movimento da un branco di sei persone. Da quel momento, grazie ad una maggiore attenzione dei media, sono emerse, giorno dopo giorno, le brutture di una violenza che mette in pericolo bambine, adolescenti e donne un po’ in tutta l’India. Questo ha aperto un dibattito politico e sociale che non ha dato per il momento frutti concreti, nonostante l’inasprimento delle leggi deciso dal Parlamento indiano.


Nelle ultime due settimane, poi, è apparso chiaro come l’Uttar Pradesh si sia conquistato il diritto di essere considerato “la capitale degli stupri” indiana poichè la maggior parte delle violenze sessuali e delle uccisioni di giovani e donne sono avvenute proprio in questo Stato del nord-est dell’India. Sgomento, orrore e ripulsione ha in questo ambito suscitato la tremenda morte, il 27 maggio scorso, di due cuginette di 14 e 15 anni che, uscite in un campo per l’assenza di un bagno nella loro casa, sono state sequestrate, stuprate da almeno cinque persone, fra cui due poliziotti, e poi impiccate ad un albero di mango del villaggio di Karta nel distretto di Badaun. Il clamore suscitato dalla triste vicenda ha fatto sì che giovedi la polizia criminale indiana (Cbi) ha annunciato di aver sottratto le indagini a quella dell’Uttar Pradesh per assumerle direttamente per conto del governo centrale, ovviamente preoccupato per questo andamento delle cose.
Durante le due settimane di tempo trascorso fra questo episodio e quelli denunciati mercoledi vi è stata una lunga catena di attacchi a bambine, giovanette e perfino ad una giudice che, il 3 giugno scorso, è stata percossa nel distretto di Aligarh da un gruppo di persone che hanno abusato di lei tentando anche di ucciderla, senza però riuscirvi. Questa situazione di emergenza è stata esaminata giovedi a New Delhi in un incontro fra il premier Narendra Modi e il governatore dell’Uttar Pradesh, Akhilesh Yadav. Per il momento nulla si sa di cosa si siano detti i due, ma non è escluso che nei prossimi giorni siano annunciate drastiche misure per cercare di mettere fine alla catena degli orrori che sta compromettendo l’immagine dell’India anche a livello internazionale.

Pubblicato il 12 giugno 2014
fonte: http://www.blitzquotidiano.it

SIIS in Iraq e Siria: vergogna su Obama mentre Hezbollah sostiene il mosaico




iraq



Il presidente Obama e gli altri capi di Francia, Qatar, Arabia Saudita, Turchia e Regno Unito dovrebbero essere ritenuti responsabili della ri-destabilizzazione dell’Iraq assieme alla destabilizzazione di Libia e Siria. Infatti, le conseguenze vengono sentite in Egitto, Libano, Mali, Tunisia e molto più lontano. Pertanto, i capi del Golfo e delle potenze occidentali assieme alla Turchia hanno scatenato forze che decapitano, massacrano minoranze, compiono attentati terroristici quotidianamente, distruggono monumenti e miriadi di altre barbarie. L’ex-capo degli USA George Bush junior iniziò la destabilizzazione dell’Iraq con scuse false e mendaci. Dopo anni finalmente si ha la stabilizzazione, nonostante il terrorismo sia una realtà in Iraq, e allora Obama apre le porte al caos che sostiene in Libia e Siria. Tale follia guida la grave crisi in Iraq a seguito del caos pianificato in Libia e Siria. Ironia della sorte, nonostante l’isteria di Israele e USA, Hezbollah in Libano supporta il mosaico del Levante. Dopo tutto, i cristiani in Siria fuggono e sono massacrati da terroristi e settari supportati da potenze del Golfo e Turchia. Naturalmente, il ruolo oscuro di USA, Francia e Regno Unito nell’inviarvi armi, combattenti e propaganda massiccia gioca un ruolo importante. Pertanto, Hezbollah è una potenza stabilizzante che opera assieme al principale partito cristiano in Libano di Michel Aoun. Questa realtà è ignorata comodamente da Israele e USA, perché non soddisfa il solito mantra contro Hezbollah. Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha avvertito della minaccia taqfira affermando: “Se tali (gruppi taqfiri) vincono in Siria, e se Dio vuole non accadrà, la Siria sarà peggio dell’Afghanistan“. Nasrallah continuava: “Se tali gruppi armati vincono, ci sarà un futuro per il Movimento Futuro in Libano? Ci sarà una possibilità per chiunque tranne i taqfiri, nel Paese?” Infatti, il recente attacco frontale totale dello Stato Islamico dell’Iraq e Sham (SIIS) all’Iraq esprime vari motivi. Dopo tutto, è chiaro che il SIIS vuole staccare parti di Iraq e Siria creando uno Stato taqfiri da “anno zero dell’islamismo”, dove la mentalità salafita domini su tutto. Tuttavia, non è chiaro se il SIIS agisce sulla base della forza o perché le forze armate della Siria e i loro alleati, tra cui Hezbollah, respingono tali forze dal Paese. In entrambi i casi, è del tutto evidente che le forze centrali in Iraq devono iniziare a considerare un patto militare congiunto con la Siria, o almeno una maggiore cooperazione tra le due forze armate per attaccare il SIIS in modo coordinato. In altre parole, gli USA hanno in primo luogo destabilizzato l’Iraq sotto Bush figlio e poi tradito questa nazione con Obama quando sembrava che il peggio fosse passato, l’Iraq deve quindi avvicinarsi al governo della Siria. Dopo tutto, se il governo siriano cade, allora non solo crollerà il mosaico di questa nazione ma l’Iraq e il Libano subiranno terribili conseguenze ancora peggiori. Hezbollah l’ha pienamente compreso in Libano e assieme al governo della Siria è in prima linea nella guerra di civiltà, con cui taqfiri, petrodollari del Golfo e potenze occidentali cercano di schiacciare il mosaico del Levante.
Con i nuovi capi delle maggiori potenze della NATO e del Golfo, è chiaro che gli affiliati di al-Qaida e altri gruppi settari estremisti fioriscono. Nel nuovo ordine mondiale, da quando Obama è entrato in carica, è ovvio che al-Qaida e destabilizzazione si diffondono grazie ai petrodollari del Golfo e alle politiche torbide delle principali potenze occidentali. Pertanto, le varie forze settarie e taqfire crescono in tutto il Nord Africa, Africa occidentale, Medio Oriente e in altre parti del mondo, secondo gli intrighi del Golfo e occidentali. In altre parole, Usama bin Ladin era rintanato in un piccolo posto in Pakistan (chiaramente in cattiva salute, protetto dagli Stati Uniti e supportato dal  Pakistan) prima di essere ucciso. Tuttavia, oggi gli affiliati di al-Qaida e le forze settarie suscitano apertamente il caos per dei capricciosi torbidi obiettivi di politica estera. La ripetizione dell’Afghanistan degli anni ’80 e ’90 si rinnova in diverse nazioni perché le stesse potenze del Golfo e occidentali cercano di utilizzare la “bandiera terrorista e settaria”. Tuttavia, proprio come testimonia il contraccolpo dall’11 settembre, quando migliaia di innocenti furono uccisi, oggi l’Iraq  affronta tale ritorno di fiamma. La situazione di cui sopra è nauseante, perché in Siria gli stessi giocatori sono apertamente in combutta con vari gruppi terroristici, milizie settarie e forze mercenarie. In altre parole, tutte le decapitazioni in Siria da parte delle forze taqfiri e dell’esercito libero siriano (ELS) non significano nulla nei corridoi del potere delle prime nazioni del Golfo e occidentali. Allo stesso modo, la consapevolezza che le minoranze religiose in Siria affrontino un bagno di sangue, se il governo siriano crollasse, non sembra riguardare i soliti giocatori, pur sapendolo appieno. Tuttavia, il ritorno di fiamma in Iraq è una questione diversa, perché evidenzia il fallimento totale di Obama e di altre nazioni come il Regno Unito. Dopo tutto, migliaia di truppe alleate vi sono morte, e numerosi civili continuano a morire in Iraq. Eppure oggi è amico degli USA ma l’amministrazione Obama provoca quanto accade in Iraq per la propria politica contro il governo della Siria. Il SIIS lancia un’offensiva militare su Mosul e altre parti dell’Iraq. Nel frattempo l’amministrazione Obama ancora parla di assistere le varie forze in Siria, mentre l’Iraq è in fiamme e il Levante è minacciato. Attualmente, l’unica forza che redime è Hezbollah che rifiuta di piegarsi alle pressioni internazionali. Pertanto, in Siria le forze armate di questa nazione e altre forze fedeli al Presidente Bashar al-Assad resistono con Hezbollah preservando il ricco mosaico religioso del Levante. È giunto il momento che il governo iracheno unisca le forze con la Siria e Hezbollah perché gli amici degli USA inviano petrodollari del Golfo e jihadisti internazionali per diffondere il caos in Iraq.
Nasrallah ha dichiarato sull’Afghanistan: “Considerate l’esperienza dell’Afghanistan. Le fazioni jihadiste afghane combatterono uno dei due più potenti eserciti del mondo, l’esercito sovietico, che fu sconfitto in Afghanistan”. Tuttavia, Nasrallah continua: “C’erano alcune fazioni in Afghanistan dall’ideologia taqfira, esclusiva, discriminatoria, sanguinarie e omicida… le fazioni jihadiste afghane entrarono in un sanguinoso conflitto intestino… i jihadisti distrussero città e villaggi… cose che non fece neppure l’esercito sovietico… E ora, dov’è l’Afghanistan? Dal giorno in cui i sovietici si ritirarono ad oggi, portatemi un giorno in Afghanistan senza omicidi, feriti, profughi, distruzione e dove non sia difficile vivere. Portatemi un giorno di pace e felicità nella vita da tali (gruppi)...” Nonostante la realtà dell’Afghanistan, l’amministrazione Obama era disposta a vendere l’Egitto ai fratelli musulmani. Inoltre, sotto la supervisione sua e delle élite di Francia, Qatar, Arabia Saudita, Turchia e Regno Unito, allora affiliate ad al-Qaida e a varie forze settarie, furono avviate sommosse in molte nazioni. Infatti, l’Europa esporta sempre più terroristi taqfiri in Medio Oriente e altre parti del mondo. La realtà brutale è che Hezbollah e il governo della Siria si concentrano sulla conservazione del ricco mosaico del Levante. Tuttavia, le forze del settarismo e del terrorismo, apertamente supportate dagli amici di USA, Qatar, Arabia Saudita e Turchia, sono dedite a distruggere l’Iraq proprio come la Libia. Pertanto, l’Iraq dovrebbe riallinearsi con il governo della Siria ed Hezbollah, perché è del tutto ovvio che i petrodollari del Golfo e le ingerenze occidentali nel Levante sono alla radice dell’attuale avanzata del SIIS in tutta la regione.

Hezbollah-leader-Sheikh-Hassan-Nasrallah 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Murad Makhmudov e Lee Jay Walker Modern Tokyo Times - 11 giugno 2014
fonte: http://aurorasito.wordpress.com

GIORNATA MONDIALE CONTRO IL LAVORO MINORILE: L’IMPEGNO DELL’ITALIA E DELLA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO



ROMA\ aise\ - Si celebra oggi in tutto il mondo la Giornata mondiale contro il lavoro minorile, indetta nel 2002 dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) e che quest’anno è dedicata al tema della protezione sociale, con lo slogan “Extend social protection: combat child labour!”.
In occasione della ricorrenza, sono previste diverse iniziative in varie città italiane che vedono l’attivo coinvolgimento e il contributo di istituzioni, scuole, associazioni e attori del mondo del lavoro, dello sport, della musica e della danza. Previsto, sempre per oggi, il lancio della nuova edizione della campagna “Cartellino rosso al lavoro minorile”, promossa dall’Ilo con l’obiettivo di informare il pubblico sulla questione del lavoro minorile e rafforzare il movimento mondiale per l’eliminazione di questa piaga che coinvolge 168 milioni di minori nel mondo, di cui 85 milioni lavorano in condizioni particolarmente pericolose o dannose per la salute.
L’indagine di Save the Children. Sempre oggi, in occasione della Giornata 2014, l’organizzazione non governativa (Ong) Save the Children organizza presso il ministero della Giustizia, a Roma, una conferenza stampa di presentazione dei dati preliminari della nuova indagine sul lavoro precoce e il rischio di devianza minorile. L’iniziativa, promossa in collaborazione con il Dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia, ha l’obiettivo di approfondire il rapporto tra il lavoro precoce e il coinvolgimento dei minori in circuiti illegali e anche la percezione che del lavoro hanno i ragazzi e le ragazze all’interno del circuito penale: se sia considerato uno strumento positivo, in un’ottica “rieducativa” e di emancipazione da comportamenti illegali e devianti. La ricerca si basa su oltre 700 questionari somministrati ai minori nel circuito penale, “focus group” con operatori, una ricerca partecipata e interviste approfondite di alcuni ragazzi con esperienze di lavoro minorile e attualmente nel circuito della giustizia minorile.
L’impegno di Unicef Italia. In proposito, Unicef Italia dedica quest’anno l’odierna Giornata al Bangladesh, uno dei Paesi più poveri al mondo, in cui 26 milioni di bambini vivono sotto la soglia di povertà, il 66 per cento delle donne tra i 20 e i 24 anni di età si sono sposate prima di aver compiuto 18 anni e solo il 37 per cento dei bambini viene registrato alla nascita. Secondo i dati disponibili, sono circa 4,5 milioni i bambini sfruttati in settori ad alto rischio quali l’edilizia, le riparazioni meccaniche ed elettriche, le fabbriche di tabacco, fino allo sfruttamento nella raccolta dei rifiuti e nella guida dei risciò. “Tutte queste attività comportano devastanti conseguenze in termini di salute e sopravvivenza”, ha ricordato il presidente dell’Unicef Italia, Giacomo Guerrera.
I numeri. Secondo le stime dell’Ilo, il numero globale dei minori lavoratori è sceso di un terzo dal 2000, da 246 a 168 milioni, di cui più della metà, 85 milioni, svolgono lavori pericolosi (nel 2000 erano 171 milioni). Il maggior numero di minori lavoratori si trova nella regione Asia e Pacifico (quasi 78 milioni, pari al 9,3 per cento del totale dei minori), mentre l’Africa sub-Sahariana continua ad essere la regione con la maggiore incidenza di lavoro minorile (59 milioni, oltre il 21 per cento). In America latina e Caraibi sono 13 milioni (pari all’8,8 per cento) i minori al lavoro e in Medio Oriente e Nord Africa 9,2 milioni (l’8,4 per cento).
L’agricoltura continua ad essere il settore con il più alto numero di bambini lavoratori (98 milioni, pari al 59 per cento), ma altrettanto preoccupante è la situazione nel settore dei servizi (54 milioni) e nell’industria (12 milioni), per lo più confinati nell’economia informale. Infine, il lavoro minorile tra le bambine è sceso del 40 per cento dal 2000, quello dei bambini del 25 per cento. Circa 5,5 milioni sono inoltre vittime delle nuove forme di schiavitù, come la tratta di esseri umani e i bambini soldato costretti a combattere nelle forze armate governative o nelle milizie private.
Il rapporto dell’Ilo. La Giornata mondiale contro il lavoro minorile ricorre a pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto globale dell’Ilo sulla protezione sociale 2014-2015, che sottolinea come molti minori non ricevano i sussidi all’infanzia e alla famiglia di cui hanno bisogno per realizzare il loro potenziale. Secondo il rapporto, gli investimenti nell’infanzia non sono sufficienti e ciò mette a rischio i diritti e il futuro di questi bambini, compreso il loro diritto ad essere protetti dal lavoro minorile. I governi stanziano in media lo 0,4 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) per sussidi all’infanzia e alle famiglie, passando dal 2,2 per cento in Europa occidentale allo 0,2 per cento in Africa, Asia e Pacifico.
Il rapporto su basa sui risultati del rapporto globale dell’Ilo sul lavoro minorile del 2013, secondo il quale sussidi in denaro e in natura destinati all’infanzia e alle famiglie, se associati all’accesso all’istruzione e ai servizi sanitari, possono contrastare in maniera significativa il lavoro minorile. I programmi di trasferimento di denaro per minori e le famiglie sono stati realizzati in diverse aree dell’America latina e sono in corso in diverse altre regioni del mondo. Ad esempio: il programma ”Bolsa Familia” in Brasile, il programma sul sussidio universale all’infanzia in Mongolia e la sovvenzione a sostegno dell’infanzia in Sudafrica. Anche le misure di protezione sociale svolgono un ruolo chiave nel porre fine al lavoro minorile. Alla luce di ciò, nel 2013, durante la terza Conferenza globale sul lavoro minorile di Brasilia, la comunità internazionale ha adottato la Dichiarazione di Brasilia che sottolinea la necessità del lavoro dignitoso per gli adulti, dell’istruzione gratuita e obbligatoria per i bambini e della protezione sociale per tutti.
L’impegno dell’Italia. In tema di lotta al lavoro minorile, anche l’Italia promuove iniziative volte all’adozione e all’attuazione di politiche e progetti di contrasto e sradicamento di tutte le modalità di sfruttamento dei minori attraverso il lavoro, dando priorità alle peggiori forme del lavoro minorile e a ogni mansione che possa comprometterne la sicurezza, la salute e lo sviluppo. A livello sovranazionale, la Cooperazione italiana sostiene gli sforzi (Global Compact, Linee Guida Ocse) per innalzare la responsabilità sociale delle imprese, migliorare gli standard di lavoro per gli adulti e per un’efficace prevenzione dello sfruttamento del lavoro minorile in tutte le sue forme. In questo ambito, l’Italia ha ratificato la Convenzione dell’Ilo numero138 sull’Età minima e quella numero182 sulle Forme peggiori di lavoro minorile. (aise)

12 giugno 2014

fonte: http://agenziaaise.it

Il nemico del mio nemico è mio amico.



obama maschera stretto stretto



Obama alla fine del suo mandato presidenziale inciampa sul Medio Oriente e nell’apparente caos che si sta determinando azzarda soluzioni sino a ieri inimmaginabili. Non più vincoli indissolubili con gli amici di sempre ma nuove convenienze da ricontrattare. Un esempio per capirci subito? Lo Stato di Israele e l’Arabia Saudita: amici stretti ma non sempre e non più su tutto. Si discute e spesso si litiga. Ora la Casa Bianca dichiara il sostegno al governo di Baghdad per contrastare l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante ma non la sfiora neppure l’idea di riportare soldati americani in quei deserti. Qualcuno sostiene che per Obama la partita in Medio Oriente è persa. Forse, ma potrebbe anche trattarsi di una audace delega a risolvere certe rogne affidata ad altri. E non ai soliti amici. Ed ecco che dalla storia puoi scoprire che un tuo nemico storico divenuto nemico di un altro tuo nemico, per quel frangente diventa un alleato utile se non proprio un amico. «Amicus meus, inimicus inimici mei» scandivano cinicamente gli imperatori romani. Obama forse preferisce la Bibbia, Esodo: «..io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari».

I critici più attenti della presidenza Obama sostengono che ciò che sta accadendo in Iraq è una fuga scomposta nel solo interesse Usa abbandonando un Paese a se stesso. Certo che con con la presa di Mosul -la seconda città dell’Iraq con quasi tre milioni di abitanti- gli Stati Uniti si sono visti sfilare un altro pezzo di Medio Oriente dal terrorismo di matrice islamica. I qaedisti dell’ ISIS sono ormai padroni incontrastati dell’area nord-occidentale del Paese, dove avevano già in pugno gran parte della provincia di Anbar e le città di Ramadi e Falluja. E dopo Ninive, da cui stanno cercando di fuggire oltre di mezzo milione di persone e il cui controllo è fondamentale per le esportazioni petrolifere irachene. Una minaccia che ha costretto i vicini del Kurdistan iracheno a intervenire col loro esercito per riconquistare i pozzi petroliferi di Kirkuk. Questo apre il capitolo Nouri Al Maliki e il suo fantomatico esercito nazionale. Da Baghdad il premier, rieletto alla guida del Paese il 30 aprile, non riesce a formare un governo e dichiara lo stato d’emergenza senza però avere un esercito credibile. Ed ecco il dubbio: a nord intervengono i Peshmerga curdi. E nel sud sciita filo iraniano chi?

A voler insistere con la malizia viene da riflettere sia sul riavvicinamento Usa all’Iran sia sulla singolare condiscendenza americana nei confronti di Assad, visto ormai ufficialmente come il minor male possibile nel macello Siria. Assad amico dell’Iran e degli hezbollah ma nemico degli jihadisti dell’Isis che vogliono destabilizzare l’Iraq. Ecco il nemico del nemico più pericoloso del momento che serviva. Siria ed Iran non sono nel frattempo diventati certo amici ma neppure sono più tra i nemici acerrimi di Washington, quelli da battere a qualsiasi costo. Sarà forse un caso, ma dubitare è opportuno, che su certi fronti -vedi la Siria- la stessa Israele tende a preferire il vecchio nemico ben conosciuto rispetto ad un nemico imprevedibile e nuovo. Tornando all’Iraq, per mantenere al potere lo sciita al Maliki difficilmente basterà la politica e l’ipotesi di un governo di unità nazionale. Se non arriveranno eserciti esterni -e non saranno mai truppe americane di terra- la partita si giocherà su ‘movimenti di popolo armati’ che, partendo dal nord curdo e dal sud sciita, prendano nel mezzo la componente integralista sunnita che a maggio ha già prodotto 800 morti sul campo.

Lo ‘Stato Islamico dell’Iraq e del Levante’ -nome non scelto a caso- negli ultimi mesi ha aumentato il controllo di territorio tanto in Iraq quanto in Siria. Un nuovo ‘Califfato islamico’ tra una parte dei territori confinanti dei due Paesi. Radici lontane quelle dell’Isis. Risalgono al gruppo sunnita che si schierò contro il governo provvisorio iracheno e gli Stati Uniti dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003. Il leader attuale è Abu Bakr al-Baghdadi, fuggito di prigione. Nel 2012 al-Baghdadi ha diretto l’obiettivo di Isis sulla Siria creando una prima alleanza con il fronte qaedista di Al Nusra finita poi con la condanna ufficiale dell’Isis da parte del leader di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri. Nota mai rilevata adeguatamente, l’Isis in Siria ha combattuto più contro gli jihadisti Al Nusra che contro l’esercito di Assad. Da analizzare. Quest’anno nuovo svolta: l’azione militare torna sull’Iraq. Oggi Isis ha una forte presenza in tre province irachene al confine con la Siria, da dove controlla il passaggio di armi e il transito di combattenti jihadisti. Quali sono gli appoggi che Isis ha alle spalle? Organizzazione, soldi e armi che nessuna intelligence ha provato a svelarci.
Ennio Remondino- 12 giugno 2014
fonte: http://www.remocontro.it

CASO MARO' - Al Bano a Libero: “Basta giochi sulla pelle dei marò”. Il 14 giugno corteo a Roma






ROMA – Al Bano guida la rivolta dei vip: “Basta giochi sulla pelle dei marò”. Il cantante: “Da troppo tempo in India, il governo ha il dovere di portarli a casa”. Record di adesioni alla manifestazione. Tra i sostenitori anche Ron e Pino Aprile.

Chiara Giannini su Libero:
Tutta Italia si stringe attorno ai marò. Alla manifestazione di sabato 14 giugno, organizzata dalla compagna di Massimiliano Latorre, Paola Moschetti, e dalle amiche Rita Riggio e Tiziana Piliego, in collaborazione con Libero, Il Giornale e Il Tempo, non parteciperanno solo appartenenti alle associazioni combattentistiche e d’arma, sindaci provenienti dall’intero stivale e semplici cittadini, ma anche attori, cantanti, rappresentanti del mondo dello spettacolo e dell’informazione. Le prime adesioni iniziano ad arrivare grazie all’Unsi (Unione nazionale sottufficiali d’Italia), che nei giorni scorsi ha contattato i vip italiani per chieder loro di partecipare al corteo di sabato. La prima mail, non per caso, è arrivata da Al Bano Carrisi, che come tutti sanno abita a Brindisi, città in cui ha sede il battaglione San Marco. Il cantante ha spiegato che non potrà essere presente «per impegni artistici precedentemente presi», ma che dà la sua «solidarietà ai due fucilieri di Marina».
«La mia vicinanza a Massimiliano e Salvatore» ha detto Al Bano a Libero «è totale. Invito tutti a partecipare, perché è davvero importante far sentire la nostra adesione ». Carrisi ha parlato senza mezze misure: «Lo Stato italiano si dia da fare: capisco i problemi di ogni tipo, siano essi diplomatici, politici o di altro genere, ma è l’ora che i due marò vengano riportati a casa. I due militari, al momento in cui è accaduto il fatto, si trovavano all’estero per la nostra nazione, per difendere una nave italiana (e quindi in territorio italiano) e compiere il proprio dovere. Pertanto il governo si impegni di più di quello che ha fatto finora. E soprattutto i due non siano strumenti di scambio della politica. Un applauso» ha proseguito l’artista «va alla sensibilità del popolo indiano, che comunque ha consentito che Massimiliano e Salvatore potessero trascorrere i loro giorni di permanenza in quel Paese in ambasciata, ma si tratta comunque di una prigionia. Per cui lo dico a chiare lettere: speriamo siano liberati presto» (…)
Il corteo organizzato per i due fucilieri della Marina Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, «Tutti insieme, nessuno indietro», partirà alle 16.45 di sabato prossimo da piazza Bocca della Verità a Roma. Poi seguirà il seguente percorso: via Petroselli, teatro Marcello, piazza Venezia, via delle Botteghe Oscure, largo di Torre Argentina, corso Vittorio Emanuele, piazza San Pantaleo e infine piazza Farnese.

DOSSIER: Come è stata svenduta l’Italia


Come è stata svenduta l’Italia
di Antonella Randazzo per disinformazione.it
Autrice del libro: "DITTATURE: LA STORIA OCCULTA"

Era il 1992, all'improvviso un'intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant'anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava.
Cos'era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali?

Mentre l'attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese.
Con l'uragano di "Tangentopoli" gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l'Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d'Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata "privatizzazione".

Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L'allora Ministro degli Interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l'uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal Ministro degli Interni. L'attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante.

Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.

Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: "Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi".
Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il "nuovo corso" degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993.

Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della "strategia della tensione", e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un'autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un'altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un'autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone. I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse "colpire le opere d'arte nazionali", ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle "menti più fini dei mafiosi".[1]


Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull'economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria.
Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia: "la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo stato e piegarlo ai propri voleri", Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: "non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste".[2] 

I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: "Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm".[3]
Anche il Pubblico Ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: "Su un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti".[4]
Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo.[5]

Che gli assassini di capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano.
Il Ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: "Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana".[6] Lo stesso presidente del consiglio Amato, durante una visita a Monaco, disse: "Falcone è stato ucciso a Palermo ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove". 
Probabilmente, le tecniche d'indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell'anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell'onestà e dell'assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale La Repubblica: "Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato".[7] 

L'omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell'élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, Procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: "Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura... Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi... è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove".[8] 

Infatti, quell'anno gli italiani capirono che c'era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all'élite che coordina le mafie internazionali.
Quell'anno l'élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l'Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.

Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c'era in atto un'operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: "Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso:  delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona".[9]

Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: "Bisogna stare attenti, molto attenti... Ho parlato del vecchio piano di rinascita democratica di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione... Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale. Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est... Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche".[10] 

Anni dopo, l'ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: "Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leaders dei partiti di governo".
Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c'erano alcuni appartenenti all'élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers).

In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d'Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell'Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell'Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sulla Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c'erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani.
La stampa martellava su "Mani pulite", facendo intendere che da quell'evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.
Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell'Italia. Infatti, Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers.

Appena salito al potere, Amato trasformò gli Enti statali in Società per Azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l'élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare.
L'inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che, come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare  la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell'élite. L'incarico di far crollare l'economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane.
Soros ebbe l'incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall'élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli hedge funds per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.

Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull'Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d'Italia. C'erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell'élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d'Italia.
La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest'ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l'Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell'Europa e dell'Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.

In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul Financial Times, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L'accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani.
La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà:   

Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell'economia produttiva e l'esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l'Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico.[11]
 

Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell'ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un'inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L'attacco speculativo di Soros, gli aveva permesso di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l'attacco, l'allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari.
Su Soros indagarono le Procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d'Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.
Spiegano il Presidente e il segretario generale del "Movimento Internazionale per i Diritti Civili - Solidarietà", durante l'esposto contro Soros: 

È stata... annotata nel 1992 l 'esistenza... di un contatto molto stretto e particolare del sig. Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell'apparato della Banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria "Goldman Sachs & co." come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il sig. Soros conta sulla strettissima collaborazione del sig. Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della "Albertini e co. SIM" di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del "Quantum Fund" di Soros.

III. L'attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht "Britannia" della regina Elisabetta II d'Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell'industria di stato italiana. A seguito dell'attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell'economia nazionale e dell'occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all'incontro del Britannia avevano già ottenuto l'autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L'agenzia stampa EIR (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l'intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione.[12]
 

I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l'allora Direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l'allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all'allora capo del governo Giuliano Amato e al Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori.
Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la "necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo", pur sapendo che l'Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni.
Gli attacchi all'economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico- finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell'élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il Presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: 

I mercati valutari e le borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo... è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell'unificazione monetaria.[13]
 

Il giorno dopo, il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, riferiva che l'Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché "se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco".
Le nostre autorità denunciavano il potere dell'élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell'élite anglo-americana.

Il Movimento Solidarietà fu l'unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell'economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato.[14]
Il 6 novembre 1993, l 'allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare "le procedure relative al delitto previsto all'art. 501 del codice penale ("Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio"), considerato nell'ipotesi delle aggravanti in esso contenute". Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende.

Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia.
Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell'elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una S.p.a. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio.

Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva "risanare il bilancio pubblico", ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).
Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani.

Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell'élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l'acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell'ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche., e al Ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%.
Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del Gruppo Bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank.
Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell'élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers,  si fecero avanti per attuare un'opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l'Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L'Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno.

Il titolo, che durante l'opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.  
Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla J. P. Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit).

Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita.
La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti.
La Telecom , come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all'interno società con sede alle isole Cayman, che, com'è noto, sono un paradiso fiscale.

Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull'esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema.
Mettere un'azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com'è emerso negli ultimi anni.

Anche per le altre privatizzazioni, Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia ecc., si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere.
La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l'onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti.
I Benetton hanno incassato un bel po' di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, Ministro delle Infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell'Unione Europea e alla politica del Presidente del Consiglio.

Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati.
La società Trenitalia è stata portata sull'orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c'è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l 'amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione Lavori Pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell'ottobre del 2006, il Ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un'azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.

Dietro tutto questo c'era l'élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild ecc.) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell'economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il  controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E' simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: "Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom".[15]
Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie ("Bond") con un alto margine di rischio. La Parmalat emise Bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative, e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.

Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l'agenzia di rating, Standard & Poor's, si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti.
I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale S.p.a. (società della famiglia Tanzi), Citigroup, Inc. (società finanziaria americana), Buconero LLC (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche SpA (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton S.p.a. (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat S.p.a.).

La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I "Partners" non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise Bond per circa 1.125 milioni di Euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.
Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all'élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero.
Agli italiani venne dato il contentino di "Mani Pulite", che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere.

A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia.
Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come "autorevoli" (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell'interesse di questa élite, e non in quello del paese. 

Antonella Randazzo ha scritto Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa, 1870-1943, (Kaos Edizioni, 2006); La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell'era dell'egemonia Usa (Zambon Editore 2007) e Dittature. La Storia Occulta (Edizione Il Nuovo Mondo, 2007).

[1] http://www.reti-invisibili.net/georgofili/
[2] La Repubblica , 27 maggio 1992.
[3] La Repubblica , 28 maggio 1992.
[4] La Repubblica , 10 giugno 1992.
[5] La Repubblica , 23 giugno 1992.
[6] La Repubblica , 23 giugno 1992.
[7] La Repubblica , 25 giugno 1992.
[8] La Repubblica , 27 maggio 1992.
[9] La Repubblica , 11 agosto 1992.
[10] L'Unità, 12 agosto 1992.
[11] Solidarietà, anno IV n. 1, febbraio 1996.
[12] Esposto della Magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al Procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995.
[13] Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica , Rivista N. 4 gennaio-aprile 1996.
[14] Solidarietà, anno 1, n. 1, ottobre 1993.
[15] La Repubblica , 5 settembre 1999.


Fonte: disinformazione.it
 

Leggi anche:
Tratto da: http://informatitalia.blogspot.com/2014/06/dossier-come-e-stata-svenduta-litalia.html
tramite: http://www.nocensura.com ...... ADMIN