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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

04/03/17

Trump: 1500 pedofili arrestati in un mese contro i 400 in un anno dell’amministrazione Obama




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La festa per i pedofili è finita. Rispetto ai 400 arrestati annualmente con Obama, ora, ad un mese dall’insediamento di Trump, se ne contano già 1500. In proporzione si tratta di un aumento del 4560%.
Il neopresidente eletto è già stato attaccato dai democratici durante la campagna elettorale per le sue dure posizioni sulla pedofilia – nel 2012 si era espresso a favore della possibilità di arrivare fino alla pena di morte per i pedofili. Forse non si sono resi conto di avergli fatto un favore. Mentre la sinistra continua ad agitarsi e a dibattersi nel suo delirio progressista di “avanzamento” e innalzamento dell’asticella dei “diritti per tutti”, con corrispettivo decadimento morale, Trump, invocando l’aiuto e la protezione di Dio, cerca di fare ciò che sempre più raramente si è cercato di fare in politica negli ultimi decenni: il bene delle persone. Per fortuna, in ciò ha incluso anche l’azzeramento della tolleranza per la pedofilia, verso cui, evidentemente, come dimostrano i dati, l’amministrazione Obama è stata abbondantemente permissiva.
In attesa di poter ridere dell’ennesimo reclamo di diritti da parte dei democratici, con annesse inutili proteste contro il nazi-fascista Trump, che non vuole permettere ai pedofili di stuprare liberamente bambini e bambine per soddisfare i propri perversi, deviati e malati desideri sessuali, non possiamo che dirci felici di questa notizia e speranzosi per il futuro. Questo è un altro segno di come il vero muro che sta tentando di costruire Trump sia quello volto ad arginare e combattere la deriva ultra-progressista, atea e depravata che ormai da un secolo sta infestando come un cancro l’intero impianto valoriale dell’Occidente Cristiano.
Preghiamo per il presidente Trump, perché il Signore lo guidi e lo protegga nelle sue battaglie, da cui sicuramente non solo l’America ma il mondo intero e noi tutti possiamo trarre frutto e giovamento, di contro all’asfissiante e martellante pressa del degrado morale e umano di matrice satanica e volto sinistrorso che ininterrottamente ci colpisce.

di Matteo Di Benedetto - 3 marzo 2017
fonte: https://www.riscossacristiana.it/ 
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alcuni link di approfondimento:

Sordi, arroganti e pure strafottenti



 


Non solo i politici sono sordi agli appelli della gente sulla necessità di votare subito, ma se possibile diventano sempre più strafottenti e purtroppo disonesti. Del resto basta leggere le vicende di questi giorni intorno al “Caso Consip” e per quanto si voglia e si debba essere garantisti, c’è da farsi venire la pelle d’oca. La pelle d’oca perché la voce che corre fra le persone comuni è quella della mancanza di limiti e di vergogna da parte di chi invece dovrebbe dare l’esempio opposto.
Ora lasciando da parte per un secondo solo il nostro sacrosanto garantismo, ci domandiamo: “E se invece fosse tutto vero? Se fossero vere le interferenze intimidatorie, le soffiate illecite, le dazioni di denaro? Insomma, se fosse vero tutto ciò che fino a ora si fa soccombere rispetto alla presunzione d’innocenza?”.
Bene, se alla fine dovesse risultare che anziché un castello di fango e di bugie orrende intorno al caso Consip ci fossero veramente stati malaffare e disonestà, sarebbe il colmo dei colmi. Non passa giorno che non si legga di qualche nuovo caso di malapolitica, corruzione, disonestà. Non passa giorno che non si legga di qualche condanna di questo o quel politico. Sia chiaro, non si può fare di tutta l’erba un fascio ed è vero che esista una parte di politici seri, onesti, impegnati, peccato che l’altra parte sia maggioritaria e abbia da anni occupato la scena. Non solo il proscenio è stato invaso dalla malapolitica, ma gli attori veri o presunti non sono comparse, ma protagonisti di lungo corso. Ed è su questo che ci si chiede come sia possibile, come possa accadere che politici più volte indagati, più volte al centro di opacità, più volte invischiati in vicende torbide, siano ancora in giro. Si dirà del garantismo e della presunzione d’innocenza, si dirà dei tre gradi di giudizio, si dirà degli errori giudiziari, ma l’opportunità politica che fine ha fatto? Che fine ha fatto quel pudore, quel senso del rispetto altrui che spinge comunque a farsi da parte almeno finché c’è il dubbio?
Insistere nel far prevalere solo il garantismo, anche di fronte ai casi più scabrosi, non solo non funziona, ma svilisce il senso stesso della garanzia costituzionale. Quella garanzia esiste, infatti, per dare modo ai veri innocenti e ai veri onesti di difendersi e regolarsi contro i bluff, gli errori, le patacche costruite ad hoc. Al contrario, invece, si invoca il garantismo anche quando, seppure in assenza di prove certe, si è comunque invischiati in fatti torbidi, nei quali mai nemmeno lontanamente si sarebbe dovuti entrare. E invece tanti, troppi personaggi, in questi fatti ci entrano eccome, ci entrano ricorrentemente e poco chiaramente. Ecco perché parliamo di sordità, strafottenza e disonestà, almeno intellettuale. Oltretutto, in un Paese da troppi anni provato dalla crisi, dai sacrifici e dalle persecuzioni fiscali, è un gioco rischioso e pericoloso.
Serve che politici e politica facciano un esame di coscienza profondo e rigido, sia per cambiare, sia per trovare il coraggio di farsi da parte quando è troppo. Serve una riforma culturale di chi fa politica, di chi si occupa di politica, di chi viene incaricato dalla politica a gestire la cosa pubblica. Serve che in larga parte i fenomeni torbidi e corruttivi, veri o presunti, cessino, non per il timore della gendarmeria o della magistratura, ma per il rispetto del bene collettivo. A poco serve invece rimandare il voto, fare finta di niente, alzare con arroganza la voce contro questo o quello, appellarsi al garantismo da quattro stagioni. Oggi la voce che si alza è quella del popolo, della gente, dei cittadini, si alza talmente tanto che non sentirla più che ipocrita è dissennato.

di Elide Rossi e Alfredo Mosca - 04 marzo 2017

03/03/17

2014, arriva Renzi al governo e gli affari di Romeo fanno boom



In tanti anni di lavoro svolto tutto con gli enti pubblici, Alfredo Romeo si è sentito dire di no solo due volte. La prima fu nel lontano 1998, a Milano. A quell’epoca l’imprenditore napoletano andava per la maggiore nei grandi comuni amministrati dalla sinistra italiana. Appena vinceva qualcuno dell’Ulivo, ecco che spuntava un bel contratto con la Er di Romeo (allora si chiamava così) a cui affidavano la gestione del patrimonio pubblico. 

Accade a Roma con Francesco Rutelli, poi a Venezia e Napoli. Appena vinte le elezioni del 1996, l’Ulivo di Romano Prodi diede sempre a lui la gestione del patrimonio immobiliare dell’Inpdap, l’ente di previdenza dei dipendenti pubblici. Ma a Milano gli andò male: vinse Gabriele Albertini e fra i suoi primi atti ci fu la revoca della aggiudicazione a Romeo della identica gara assegnatagli che gli aveva assegnato la gestione del patrimonio immobiliare meneghino, che fu invece affidato a una società in house. La seconda volta che l’imprenditore di riferimento del governo nazionale e di quello degli enti locali si trovò a sbattere contro un muro fu nel 2008 a Roma.
Anche allora era cambiato il vento e a sorpresa dalle urne uscì vincente la destra con sindaco Gianni Alemanno, e fra i primi atti ci fu la revoca dell’appalto sulla manutenzione della grande viabilità della capitale, che Walter Veltroni aveva affidato a Romeo. Ha dovuto stringere i denti ed aspettare un po’, e comunque gli rimase in carico la gestione non proprio brillantissima del patrimonio immobiliare di Roma: ce l’ha ancora adesso ininterrottamente dal 2005 pure con Virginia Raggi

Gran navigatore, Romeo però ha avuto le porte aperte sempre con il centro sinistra. E non è un caso scorrendo i bilanci della sua Romeo Gestioni, la società operativa più importante del gruppo, che i fatturati mettano a segno il record appena il centrosinistra riesce a conquistare il governo. Intendiamoci, gli appalti conquistati nel facility management e nel property management che sono sempre stati la sua specialità, avevano durata pluriennale, e i fatturati oscillavano di poco fra 120 e 130 milioni di euro all’anno. 

Ma quando tornò Prodi a palazzo Chigi, ecco la Romeo gestioni fare subito un bel balzo e chiudere l’anno 2007 con 160 milioni di euro, per poi scendere a 145 milioni l’anno successivo quando al governo torna Silvio Berlusconi. In quel 2007 per altro Romeo fa anche un altro gran salto: al Quirinale, dove entra per la prima volta grazie a Giorgio Napolitano, che decide di esternalizzare a lui alcuni servizi di manutenzione immobiliare. Un contratto iniziale da 1,2 milioni di euro per un triennio, che rispetto al giro di affari del gruppo Romeo è poca cosa, ma il prestigio conquistato con quella commessa non ha prezzo. Il gruppo entra con lo stesso compito anche in Senato, e solo alla Camera trova le porte chiuse.

La vera età dell’oro coincide però proprio con l’arrivo di Matteo Renzi a palazzo Chigi. Il 2014 per tutti e due è l’anno del 40%. Renzi conquista quella percentuale nelle urne delle europee, e poi la perderà per strada assai in fretta tornando sotto i numeri di Veltroni. Romeo vede lievitare il suo fatturato proprio del 40% quell’anno, in cui passa da 147 a 206 milioni di euro. Ma a differenza di Renzi manterrà la cifra. Anzi, la consoliderà: nel 2015 il fatturato sale a 224 milioni di euro anche
grazie alla conquista di un nuovo appalto: è lui a vincere il facility management di quell’Expo 2015 guidata da Giuseppe Sala
 
 
Un vero e proprio boom, centrato per altro proprio su palazzo Chigi: perchè da quando arrivano i Renzi boys Romeo diventa di casa. E’ il vincitore dell’appalto Consip sul facility management, e ogni due minuti lo chiamano a palazzo Chigi o nei vari immobili che ospitano le strutture decentrate della presidenza del Consiglio. Qualche esempio? Il 26 gennaio 2015 tocca a lui cambiare i condizionatori della Biblioteca chigiana: 5.550 euro. Stesso giorno sostituzione anche del gruppo frigorifero: 3.888 euro. E ancora il 26 è Romeo a fare le pulizie straordinarie nell’alloggio di rappresentanza abitato a palazzo Chigi proprio da Renzi: 1.346,12 euro. 



 Il 2 febbraio ci pensa la Romeo Il 2 febbraio ci pensa la Romeo a sostituire a palazzo le maniglie delle porte dei wc: 4.114 euro. Il 26 febbraio Romeo porta nella sede decentrata di via della Mercede frequentata anche dal sottosegretario Luca Lotti due macchine cattura-topi: sono le Ekomille che li prendono e li ubriacano fino alla morte con una sorta di sostanza alcolica: 3.120 euro. Il 27 febbraio fornisce due estintori: 154 euro. Il 4 marzo successivo affidano a lui la sostituzione di 21 videocamere di sorveglianza: 9.338 euro.
Stesso giorno, si occupa di spurgare le fognature di palazzo Chigi: 1.102,84 euro. Il 24 marzo, grandi pulizie delle stanze di rappresentanza: 1.168 euro. Il 30 marzo ecco gli uomini della Romeo gestioni entrare a villa Pamphili per ricaricare 29 estintori: 1.210 euro. Il 3 aprile si occupa del condizionamento della stanza n. 1.091 della sede decentrata in via della Mercede: primo intervento da 1.143 euro, secondo da 348,26 euro. Stesso giorno sostituisce 12 tavolette wc nell’altra sede decentrata di palazzo Vidoni: 1.884 euro. 

 

Il 4 maggio tocca sempre alla Romeo la “Sostituzione del kit di potenza e delle tubazioni di preriscaldamento dei gruppi elettrogeni”: 13.429,56 euro. Si può continuare così all’infinito. Romeo è stato chiamato a risolvere problemi a palazzo Chigi per 104 volte nel 2015, 146 volte nel 2016 e già 18 volte nei primi due mesi del 2017. Nel periodo è stato chiamato 24 volte a fare le pulizie straordinarie dell’appartamento di Renzi ovviamente prima che lui ricevesse lì dentro personalità importanti.







da L'imbeccata di Franco Bechis - 3 marzo 2017
fonte: http://limbeccata.it

02/03/17

«Isis paga il viaggio verso l’Europa ai migranti minorenni che si uniscono al Califfo»

Lo afferma un rapporto del think tank Quilliam: «Da giugno 2016 a gennaio ci sono stati 263 tentativi di reclutamento. Offerti fino a duemila dollari»


Lo Stato islamico paga ai migranti minorenni che attraversano il Mediterraneo dalla Libia all’Europa il costo del viaggio, se questi promettono di aderire al jihad. Lo afferma un rapporto del think tank Quilliam, secondo cui circa 88.300 minori sono a rischio radicalizzazione.

FINO A DUEMILA DOLLARI. Secondo il rapporto, pubblicato ieri, gruppi jihadisti, tra cui Isis e Boko Haram, tentato di reclutare giovani nei campi profughi per compiere attentati in Europa. Lo Stato islamico ha offerto somme fino a duemila dollari ai rifugiati dei campi profughi di Libano e Giordania. Nikita Malik, ricercatrice presso Quilliam, dichiara al Guardian: «I giovani richiedenti asilo vengono avvicinati dai gruppi estremisti perché sono più vulnerabili all’indottrinamento».

263 TENTATIVI. Esaminando il materiale online di Isis, talebani, Al-Qaeda, al-Shabaab e Boko Haram, Malik ha individuato, da giugno 2016 a gennaio, 263 tentativi da parte di gruppi jihadisti di convincere dei rifugiati a compiere attentati terroristici contri gli infedeli e a convertirsi all’islam. Uno dei luoghi principali di questo reclutamento è la costa nordafricana, dove i terroristi pagano il viaggio a chi si unisce a loro, e la città libica di Qatrun.

OLTRE 10 MILA SCOMPARSI. Si legge nel rapporto: «Lo Stato islamico offre ai migranti che vogliono attraversare il Mediterraneo fino a mille dollari per unirsi all’Isis. Oltre a facilitare l’accesso per l’Europa a potenziali combattenti dell’Isis, aumenta così anche il sentimento anti-rifugiati in Europa». Il pericolo è aumentato dal fatto che circa 10 mila minorenni non accompagnati sono spariti dai radar delle autorità statali una volta arrivati in Europa.

Foto Ansa

redazione - 7 febbraio 2017

Crac Credito Cooperativo Fiorentino, Verdini condannato a nove anni. Due anni e sei mesi al deputato di Ala Massimo Parisi


Verdini niente sottosegretari


Nove anni di reclusione per Denis Verdini. Il senatore di Ala è stato condannato in primo grado nell’ambito del processo per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino. Oggi non era in aula per ascoltare la sentenza dei giudici, arrivata dopo sette giorni di camera di consilio. Per lui erano stati chiesti 11 anni. Verdini è stato presidente della banca per 20 anni, fino al luglio del 2010. Il senatore era imputato con le accuse di associazione per delinquere, bancarotta e truffa ai danni dello Stato per i fondi dell’editoria andati alla Società toscana edizioni, che pubblicava il Giornale della Toscana e Metropoli. La pena è stata calcolata con sette anni per la pena di bancarotta e altri due anni per la truffa ai danni dello Stato per i contributi all’editoria. Assoluzione, invece, per quanto riguarda l’accusa di associazione per delinquere. Verdini è stato assolto relativamente ai prestiti concessi a Marcello Dell’Utri per cui gli erano stati contestati dalla Procura una serie di fidi scoperti di conto corrente per un ammontare di 2,8 milioni tra il dicembre 2006 e il marzo 2010.

Insieme a Verdini è stato condannato anche il deputato di Ala Massimo Parisi. A lui due anni e sei mesi per truffa ai danni dello Stato relativamente ai contributi pubblici all’editoria, per il ruolo da lui rivestito nella galassia dei giornali della Società Toscana di Edizioni. Tra i condannati anche gli imprenditori Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei: per loro cinque anni e sei mesi per concorso in bancarotta. Verdini, Fusi e Bartolomei sono stati anche interdetti perpetuamente dai pubblici uffici. Ma c’è di più, perché Verdini, Parisi e altri imputati del filone editoria dovranno pagare anche una provvisionale immediatamente esecutiva nei confronti della presidenza del Consiglio di 2,5 milioni. Il risarcimento del danno cagionato alla presidenza del Consiglio, invece, dovrà essere liquidato in separata sede. Condanna al pagamento di una provvisionale da 175mila euro alla Banca d’Italia (che si era costituita parte civile) da parte dei vertici della ex banca. I 15 condannati sono anche stati dichiarati “inabilitati all’esercizio di un’impresa commerciale ed incapaci di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni dieci”. Inoltre Verdini, Parisi e altri nove condannati sono anche stati dichiarati “incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione per un arco temporale pari alla durata della pena a ciascuno inflitta”.
Fiduciosa per l’appello la legale del senatore di Ala Ester Molinaro che ha così commentato la sentenza: “Abbiamo dimostrato che per il senatore Denis Verdini non c’era il reato di associazione per delinquere. Negli altri passaggi processuali dimostreremo che anche per gli altri reati contestati i fatti non sussistono. Rispettiamo la sentenza ma consideriamo quello di oggi solo un passaggio. Attendiamo le motivazioni per andare poi a un altro grado di giudizio”.

dalla Redazione
 
fonte: http://www.lanotiziagiornale.it

La biopazzia al potere




Ma che razza di società sta sorgendo? È un tam tam quotidiano che colpisce la vita, la morte, la nascita, la famiglia. C’è una Grande Fabbrica dell’Opinione che   marcia a senso unico, in un corso accelerato di demolizione dell’umanità come l’abbiamo finora conosciuta. E impone a tappe forzate la corsa verso un mondo capovolto.

La mamma diventa un ente superfluo, da sopprimere o da ridurre a utero in affitto per la gioia delle coppie omosessuali che vogliono comprarsi un figlio. E i magistrati, smentendo la legge, confermano la piena legittimità dei loro desideri e aggiungono che non c’è bisogno di geni per chiamarsi genitori.

Ma la parola genitori, guarda un po’, deriva proprio dalla parola geni. Si può accettare la dizione “genitori adottivi” perché un padre e una madre suppliscono ai genitori biologici; ma due uomini dello stesso sesso che per un loro desiderio decidono di farsi il loro figlio non sono genitori in alcun senso. Al più sono tutori. La madre non è un accessorio sostituibile.
L’abolizione della mamma segue a ruota la soppressione del papà, ente inutile in una società senza padre.

La società parricida e matricida è una società senza figli, salvo quelli nati in provetta. Si deplora la politica che non segue subito l’onda emotiva e non legifera in materia come ordina l’Onda, coi suoi artefici e i suoi magistrati. E invece passa inosservato il silenzio assordante e imbarazzante, di Papa Bergoglio che di fronte allo stravolgimento della vita e della famiglia, dagli uteri in affitto ai suicidi assistiti, parla d’altro, fa finta di niente…

Una generazione sta demolendo in poco tempo l’esperienza di tante generazioni che l’hanno preceduta, con una presunzione assoluta. E il Santo Padre tace.

Cosa c’è alle origini di questa follia? C’è la perdita dei confini, del senso della misura, della natura e del limite. Sono io, solo io, a decidere quando morire e come; sono io a decidere, senza il concorso di una donna, di avere un figlio, affittando un utero o facendo shopping oltreoceano. Sono io a decidere se interrompere o meno una gravidanza non desiderata, anche se va di mezzo la vita di una persona.

La libertà e la modernità si riducono a non porre limiti ai miei desideri. Non conta nulla il resto, gli altri, i legami affettivi, la paternità, la maternità, la responsabilità di essere al mondo e di mettere al mondo.Non conta altro che la mia volontà.

Questa è la follia del nostro tempo, il potere smisurato dei propri desideri che viene presentato come Diritto, Libertà e Autonomia. E chi si oppone viene accusato di vivere nel medioevo. Dimenticando che anche noi, nati in famiglie da padri e madri, siamo nati e cresciuti in quel medioevo.
Se difendere la maternità, la paternità, la famiglia e la vita sono segni di medioevo, allora cos’è la modernità, il trionfo del disumano, la perdita del limite, la dittatura dell’Ego, l’abolizione della natura? No, signori, questo non è il futuro, questa è la fine della civiltà e la fuoruscita dall’umanità nel nome di un transumano geneticamente modificato, dove l’identità è sostituita dal desiderio, l’umano dal mutante e il noi siamo dall’Io voglio.

Non confondete la fine con un inizio.

di Marcello Veneziani

MV, Il Tempo 2 marzo 2017

01/03/17

Ventimila uccisi perché italiani. NON DIMENTICHIAMOLI



Memorie di un’epoca – rubrica mensile a cura di Luciano Garibaldi
biografie, eventi, grandi fatti, di quel periodo in cui storia e cronaca si toccano

Come mai la tragedia delle foibe, della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia era stata confinata nel regno dell’oblio per quasi sessant’anni? La risposta va ricercata in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra dall’altra, in primis il PCI (Partito Comunista Italiano) che aveva molte cose da nascondere. 


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Il 10 febbraio scorso, in occasione della celebrazione del “Giorno del Ricordo”, «Riscossa Cristiana» ha pubblicato l’ottimo articolo di Alfonso Indelicato dedicato al calvario degli italiani del confine orientale. Assieme alla puntuale ricostruzione storica di Indelicato, veniva riproposto anche l’articolo che dedicai un anno fa alla commemorazione dell’evento. Ciò non m’impedisce di tornare sull’argomento, soprattutto alla luce di numerosi episodi che rivelano come la triste vicenda delle foibe continui a dividere, anziché a unire, come dovrebbe, dopo così tanto tempo.
Infatti sono trascorsi ormai tredici anni da quando, nel 2004, fummo chiamati a celebrare il «Giorno del Ricordo», in memoria dei quasi ventimila nostri fratelli assassinati dagli jugoslavi comunisti di Tito, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nelle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. La domanda che sorge spontanea è questa: come mai quella tragedia era stata confinata nel regno dell’oblio per quasi sessant’anni? Tanti, infatti, ne erano passati tra quel biennio 1945-46 che vide realizzarsi l’orrore delle foibe, e l’auspicato 2004, quando il Parlamento approvò la «legge Menia» (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l’aveva proposta) sulla istituzione del «Giorno del Ricordo».
La risposta va ricercata in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra dall’altra, in primis il PCI (Partito Comunista Italiano) che aveva molte cose da nascondere.
Fu soltanto dopo il 1989 (crollo del muro di Berlino ed autoestinzione del comunismo sovietico), che nell’impenetrabile diga del silenzio incominciò ad aprirsi qualche crepa. Il 3 novembre 1991, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato cinquant’anni. Poi arrivò la TV pubblica con la fiction «Il cuore nel pozzo» interpretata fra gli altri dal popolare attore Beppe Fiorello. Un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato, in reverente omaggio ai Caduti, davanti al sacrario di Basovizza l’11 febbraio 1993. Così, a poco a poco, la coltre di silenzio che, per troppo tempo, era calata sulla tragedia delle terre orientali italiane, divenne sempre più sottile e finalmente tutti abbiamo potuto conoscere quante sofferenze dovettero subìre i nostri fratelli della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Ma vediamo come e perché si verificò la tragedia delle foibe. L’Italia era entrata nel conflitto mondiale alleandosi con la Germania e dichiarando guerra il 10 giugno 1940 alla Francia e all’Inghilterra, poi agli Stati Uniti d’America il 7 dicembre 1941. Dopo tre anni di guerra, le cose si erano messe male per noi, e il regime fascista di Mussolini, che governava il Paese ormai da vent’anni, aveva decretato il proprio fallimento con la storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Ne erano seguiti lo scioglimento del Partito fascista, la resa dell’8 settembre, lo sfaldamento delle nostre Forze Armate.
Nei Balcani, e particolarmente in Croazia e Slovenia, le due regioni balcaniche confinanti con l’Italia, il crollo dell’Esercito italiano aveva fatalmente coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia). Qui avevano avuto il sopravvento le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, nome di battaglia «Tito», che avevano finalmente sconfitto gli odiati “ustascia” (i fascisti croati agli ordini del dittatore Ante Pavelic), e i non meno odiati “domobranzi”, che non erano fascisti, ma semplicemente ragazzi di leva sloveni, chiamati alle armi da Lubiana a partire dal 1940, allorché la Slovenia era stata incorporata nell’Italia divenendone provincia autonoma.
Tito e i suoi uomini, stella rossa sul berretto, fedelissimi di Mosca, odiavano a morte gli italiani e non avevano mai fatto mistero di volersi impadronire non solo della Dalmazia e della penisola d’Istria, ma di tutto il Veneto, fino all’Isonzo.
Fino alla fine di aprile 1945 erano stati tenuti a freno dai tedeschi che, con una ferocia eguale, se non superiore, alla loro, avevano dominato Serbia, Croazia e Slovenia con il pugno di ferro dei loro ben noti sistemi (stragi, rappresaglie dieci a uno, paesi incendiati e distrutti). Ma con il crollo del Terzo Reich, nulla ormai poteva più fermare gli uomini di Tito, irreggimentati nel IX Korpus, e la loro polizia segreta, l’OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). L’obiettivo era l’occupazione dei territori italiani.
Non avevano fatto i conti, però, con le truppe Alleate che avanzavano dal Sud della nostra penisola, dopo avere superato la Linea Gotica. La prima formazione alleata a liberare Venezia e poi Trieste fu la Divisione Neozelandese del generale Freyberg, l’eroe della battaglia di Cassino, appartenente all’Ottava Armata britannica. Fu una vera e propria gara di velocità. Gli jugoslavi erano favoriti dal fatto che le truppe tedesche si erano arrese in quasi tutta l’Istria e tenevano sotto controllo soltanto Trieste e la linea costiera, per cui gli jugoslavi poterono impadronirsi di Fiume e di tutta l’Istria interna, dando subito inizio alle feroci esecuzioni contro gli italiani. Ma non riuscirono ad assicurarsi la preda più ambita: la città, il porto e le fabbriche di Trieste. Infatti, la Divisione Neozelandese del generale Freyberg entrò nei sobborghi occidentali di Trieste nel tardo pomeriggio del 1° maggio ‘45, mentre la città era ancora formalmente in mano ai tedeschi che, asserragliati nella fortezza di San Giusto, si arresero a Freyberg il 2, impedendo in tal modo a Tito di sostenere che aveva «preso» Trieste. La rabbia degli uomini di Tito e dei loro complici comunisti italiani si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari in Russia del periodo 1917-1919.
Fin dall’ottobre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» ed indicò «in almeno 7500 il numero degli scomparsi». In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei Lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani furono almeno ventimila.
Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluse con la firma del trattato di pace il 10 febbraio 1947, a Parigi. Tradita e abbandonata anche dagli inglesi e dagli americani, i veri vincitori della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia dovette rinunciare per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria, a parte della provincia di Gorizia, a tutte quelle regioni e province dalle quali gli italiani fuggivano a diecine di migliaia, abbandonando le loro case e ammassando sui carri trainati dai cavalli le poche masserizie che avevano potuto portare con sé.
Purtroppo, una delle cose più vergognose fu il comportamento dei ministri comunisti che facevano parte del governo De Gasperi. Un esempio per tutti: Emilio Sereni, che ricopriva la determinante carica di ministro per l’Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione (tra le domande ve ne erano non poche firmate da esponenti comunisti italiani rimasti dall’altra parte della linea Morgan, che tuttavia si sentivano prima di tutto italiani), minimizzò e falsificò i dati. Rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’era più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parlò di «fratellanza italo-slovena e italo-croata», sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, affermò che le notizie sulle foibe erano «propaganda reazionaria».
Il trattato di pace di Parigi regalò alla Jugoslavia l’Istria, Fiume, Zara e le isole dalmate, con il diritto a Belgrado di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, che sarebbero poi stati  indennizzati dal governo di Roma. Ebbene – e questa è l’ingiustizia più grave, che perdura tutt’ora – i sopravvissuti, e i loro eredi, non hanno mai visto un centesimo. La stragrande maggioranza emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada, chi negli Stati Uniti. Tantissimi riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia e oggi rappresentano una nobile comunità che continua a lottare perché almeno sia rispettata la verità storica. Cosa che purtroppo, anche in molti libri di storia per le scuole, non avviene.
E perché non avviene? Per quella tendenza che ha preso il nome di “giustificazionismo”. Ovvero: le stragi di italiani vi furono, sì; uomini, donne e vecchi gettati vivi a morire in foiba vi furono, sì. Ma si trattò di una ritorsione, di una vendetta per le atrocità che le popolazioni slave (croate e slovene) avrebbero subìto per mano degli italiani negli anni in cui questi dominavano le loro terre. Ebbene, mai una prova è stata portata a sostegno di questa tesi infamante e calunniosa. Non ci sono nomi, non ci sono fotografie, non ci sono documenti scritti. Soltanto invenzioni.
La numerosa serie di atti d’accusa preparata dalle polizie segrete comuniste che, in mancanza di prove reali e certe, le fabbricavano, fu una costante soprattutto nei Paesi dove, dopo la guerra, sopravvisse il regime comunista. Nelle aree comprese nella sfera sovietica (a cominciare dai Balcani), la legge e la giustizia venivano piegate agli scopi politici.


Alla tragedia delle foibe, l’autore, Luciano Garibaldi, giornalista e storico, ha dedicato, assieme alla professoressa Rossana Mondoni, tre libri per i tipi delle edizioni Solfanelli: «Venti di bufera sul confine orientale», «Nel nome di Norma», dedicato al ricordo di Norma Cossetto, la studentessa triestina tra le prime vittime della violenza rossa, e «Foibe, un conto aperto».

di Luciano Garibaldi - 28 febbraio 2017

https://www.riscossacristiana.it


27/02/17

Basta Pd, pensiamo alle cose serie


 


La farsa del congresso del Partito Democratico ha già stancato. Non è possibile che l’Italia resti bloccata per mesi nell’attesa di sapere cosa dirà Matteo Renzi e cosa gli risponderà Michele Emiliano: c’è ben altro di cui occuparsi e preoccuparsi di diverso dalle sorti di questi bizzarri personaggi che litigano per il potere. Andassero tutti al diavolo! La storiella che le sorti del Pd sono le sorti del Paese non la beve più nessuno. La dialettica ruvida e urticante da giornale di gossip tra capi e capetti del partito di maggioranza è soltanto una meschina arma di distrazione di massa. Si fa rumore per impedire agli italiani di ascoltare le voci di fondo del malessere che continua a serpeggiare a tutte le latitudini della comunità nazionale.
Vogliamo occuparci di problemi veri o ci teniamo le generosi dosi di oppio propagandistico spacciate da questa politica spettacolo? Che fine ha fatto l’attenzione alla crisi migratoria? Tutto risolto? Tutto a posto un corno! I numeri degli sbarchi nei primi giorni dell’anno sono da incubo. Il Viminale registra un +44 per cento di arrivi sulle nostre coste rispetto al 2016 che già di suo fu un anno record. Sono 10.070 gli stranieri che hanno messo piede in Italia nel 2017 sbarcando dai viaggi della speranza. E dell’orrore. Di questo passo sforeremo la soglia psicologica dei 200mila sbarchi annui. Si può continuare così? Il nostro Paese non è il ricettacolo di tutta la disperazione del mondo. Non ce la possiamo fare ad accoglierli tutti. Bisogna al più presto bloccare il flusso incontrollato delle partenze dei barconi dalle coste libiche.
Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha firmato un accordo con le deboli autorità di Tripoli per collaborare ad arginare il fenomeno. Evidentemente, però, il pezzo di carta non è bastato. Con un Paese in preda al caos e alla guerra civile ogni intesa diventa carta straccia se non è accompagnata da una strategia d’intervento armato che consenta di vigilare sulla corretta applicazione degli accordi sottoscritti. È bene metterselo in testa se si vuole evitare di fare bieca propaganda priva di costrutto. Ma stare in Libia non basta. Bisogna che il nostro Governo si dia una smossa per spingere gli organismi internazionali a fare la loro parte, aggredendo a monte le cause che scatenano il fenomeno migratorio.
Si prenda il caso della carestia che ha colpito il Sud-Sudan. Secondo fonti delle Nazioni Unite, la carestia ha interessato due contee del Paese africano. Oltre 100mila persone muoiono di fame. Serge Tissot, capo dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura nel Sud-Sudan, ha fatto sapere che si tratta di una carestia artificiale perché le risorse idriche e alimentari ci sarebbero se non fosse che negli anni della guerra civile le parti combattenti hanno impedito a metà della popolazione, circa 5,5milioni di esseri umani, di averne libero accesso. Cosicché oltre 250mila bambini rischiano di morire per denutrizione. Ora che si fa, li prendiamo tutti in Italia consentendo un esodo biblico da quelle terre martoriate dalla stupidità umana o proviamo a risolvere in loco la questione, usando anche le maniere forti contro gli aguzzini?
Matteo Renzi, negli anni a Palazzo Chigi, ha brigato moltissimo perché all’Italia venisse assegnato un seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. C’è riuscito a metà, strappando una presenza per un anno. Ora che un italiano è seduto nella stanza dei bottoni perché non fa il diavolo a quattro per costringere l’alto consesso a occuparsi meno di punzecchiare lo Stato d’Israele con assurde minacce e a dedicarsi invece, più proficuamente, a pianificare un intervento umanitario in grande stile per evitare la catastrofe ai sud-sudanesi e a noi? Che senso ha stare in un organismo se poi non combiniamo nulla e dobbiamo sbrigarcela da soli a raccogliere i cocci frantumati dall’altrui indifferenza? Già, dimenticavamo: alla Farnesina c’è Angelino Alfano. Allora tutto si spiega.

di Cristofaro Sola - 25 febbraio 2017