La storia di Salvatore Girone e 
Massimiliano Latorre, il susseguirsi di rinvii e mancate sentenze, il 
loro rocambolesco ritorno in India dopo la decisione del Governo di 
trattenerli in Patria, sono ormai questioni che superano il carattere 
nazionale o bilaterale. Non solo perché finalmente sembra intrapresa la 
via dell’internazionalizzazione della controversia. Ma anche perché il 
caso s’intreccia con la questione della credibilità dell’Occidente come 
forza trainante del globo, sotto l’aspetto economico e politico. Giulio Terzi di Sant’Agata,
 già Ministro degli Affari Esteri, commenta il ruolo dell’Europa e degli
 Stati Uniti nella situazione economica attuale, il futuro della Cina, 
la crisi Ucraina e – ovviamente – la vicenda dei due marò.
Ambasciatore, quale sarà il ruolo dell’Occidente nel futuro prossimo? Tra
 il 2009 e il 2011 mi sono interessato alle analisi sul declino 
dell’Occidente e dalla capacità degli Stati Uniti di mantenere il ruolo 
di superpotenza o, quantomeno, di garante della sicurezza globale. 
Nell’informazione e nelle Università ci sono i declinisti e gli anti-declinisti. Da una parte, chi considera inevitabile la progressione economica della Cina, dell’India e dei Brics, situazione che sarebbe necessariamente alternativa alla possibilità dell’Occidente di mantenere una sua gravitas fondamentale
 nello sviluppo della società internazionale. Dall’altra, chi vede 
questa solo come una possibilità. Potrebbe accadere, certo, ma è una 
situazione nella quale ancora non ci troviamo. Per questo molti 
auspicano un maggiore sforzo degli Stati Uniti e dell’Unione Europea 
nell’aggiornare le rispettive agende economiche, di sicurezza e di 
sviluppo per mantenere la centralità di cui tutt’ora gode. Per questo 
nacque l’idea del TTIP.
Il Transatlantic Trade and Investment Partnership. Esatto.
 L’idea era nata da un consigliere economico di Hillary Clinton e poi se
 ne è appropriata la Casa Bianca. Un’iniziativa importante a cui i 
partner europei hanno risposto positivamente, anche se dopo alcune 
esitazioni iniziali. Anche dell’Italia.
A cosa erano dovuti questi tentennamenti europei? Principalmente
 a problemi settoriali. Per i francesi, ad esempio, era forte il timore 
di mettere a rischio l’identità culturale. Questo perché l’abbattimento 
delle barriere tariffarie e non tariffarie non significa solo 
omologazione degli standard unici, ma fa anche nascere la grande 
questione della proprietà intellettuale, della ricerca e delle garanzie 
sui brevetti. L’attuazione del libero scambio tra America ed Europa, 
considerando che gli investimenti reciproci sono i più consistenti del 
mondo, darebbe uno slancio incredibile alla crescita dell’area. Tutto 
questo dimostra quanto una rassegnazione al “declinismo” sia 
assolutamente fuori luogo.
Crede che questo accordo possa contrastare l’ascesa economica della Cina? È
 evidente che il divario tra Cina ed America si sta riducendo 
considerevolmente. Secondo alcuni studi di settore, in termini comparati
 di capacità di potere d’acquisto, la Cina avrebbe già superato gli 
Stati Uniti. In termini assoluti il Pil è ancora la metà, ma l’economia 
cinese cresce ogni anno del 7% mentre gli Usa si fermano intorno al 
2,5-3%. Anche se per quanto riguarda la ricchezza individuale il divario
 è enorme. Tant’è che gli stessi cinesi hanno contrastato tutta questa 
pubblicità fatta sul sorpasso, perché vogliono mantenere i privilegi di 
essere un paese in via di sviluppo. Un’ampia parte del mondo cinese, 
infatti, è molto lontana da una sostenibilità del proprio sviluppo e 
quindi ha tutti gli interessi ad essere riconosciuta tale dal Fondo 
Monetario e dalle altre istituzioni internazionali. L’Occidente deve 
focalizzare l’attenzione sul ruolo formidabile che può ancora avere in 
una realtà globale che è diventata, e tenderà in futuro ad essere, più 
competitiva, più conflittuale e più settaria. Bisogna smetterla di 
piangersi addosso nella convinzione che l’Occidente sia ormai condannato
 ad esser messo alla porta. Avremo ancora un ruolo centrale. Bisogna 
ritrovarne consapevolezza a livello nazionale, europeo e di aggregazione
 atlantica.
Capitolo Russia. Putin non ha esitato a forzare la mano nella crisi ucraina. L’Occidente
 deve anche capire quali sono i suoi riferimenti. L’immagine di un 
Presidente così volitivo, Putin, che si muove per soccorrere i propri 
connazionali in difficoltà in Crimea e nelle altre zone ucraine usando 
la forza, suscita molte simpatie. Anche nel mondo della Destra.
Non
 è forse l’avversione ad un’Europa che la Destra non considera adeguata 
alle sue aspettative a farle rivolgere lo sguardo ad Est? Credo
 che ci siano anche altri aspetti. Ad esempio, se si osserva il successo
 di Marine Le Pen, bisogna riconoscere un substrato culturale 
tradizionalmente antagonista verso l’America. Un partito come quello 
gollista, di centrodestra moderato, aveva un carattere nazionale 
fortemente radicato. Non certo paragonabile alla mentalità del 
democristiano o del socialista italiano. I francesi hanno sempre 
ritenuto di essere loro la grande potenza globale. Per questo la Le Pen 
propone un’alleanza strategica con la Russia, nella quale imbarcare 
anche la Germania. C’è una tendenza, infatti, nel mondo tedesco a 
mantenere una posizione neutrale tra Est ed Ovest. Questo raccordo tra 
la cultura francese e la pulsione neutralista tedesca spiega 
l’atteggiamento dei due Paesi verso la Russia. Una posizione che, 
personalmente, non capisco. È antitetica a tutti gli interessi 
occidentali.
Come giudica l’operato della diplomazia europea nella crisi ucraina? Ha sofferto forse l’atteggiamento neutralista tedesco? La
 Germania è stata la capolista della politica di partenariato orientale,
 proposta inizialmente dalla Polonia e dalla Svezia nel 2008. Ha spinto 
molto per “l’allargamento ad Est”, senza porsi il problema 
dell’atteggiamento russo. Questo si è accelerato dopo la crisi in 
Georgia e Putin ha lasciato inizialmente fare. Quando è tornato alla 
Presidenza, però, ha rilanciato l’idea dell’Unione Euroasiatica, per 
ricostruire uno spazio di vicinato filorusso nel quale ci fosse un 
richiamo a qualcosa di simile alla Russia imperiale.
L’Europa, invece, è stata gravemente 
carente sul partenariato meridionale. L’Italia ha fatto una pressione 
costante per ottenere accordi che, inoltre, avrebbero potuto risolvere 
in grande misura i recenti flussi di migrazione. Tutto questo è stato 
accantonato per dedicare sempre più risorse al partenariato orientale. 
Invece, dopo le primavere arabe del 2011 e le avvisaglie del progetto 
euroasiatico di Putin, bisognava fare l’esatto contrario.
Passando
 alla vicenda Marò, la ministra Mogherini recentemente ha dato il via 
all’internazionalizzazione del caso. Un passo che sembra arrivare con un
 po’ di ritardo. È stato fatto scandalosamente tardi. E 
continuiamo scandalosamente a tardare ad agire. Il Governo Monti il 22 
marzo 2013, quando è stata presa l’ignobile decisione di rimandare i due
 militari in India, disse pubblicamente che, accondiscendendo alle 
richieste indiane, il problema si sarebbe risolto in un clima di grande 
cordialità. Non si capisce perché dovessimo essere cordiali con un Paese
 che ha catturato in alto mare, con un trucco e con la forza, due nostri
 militari in azione anti-pirateria. Minacciando, peraltro, di applicare 
le leggi anti-terrorismo a chi la pirateria la combatte. Monti era 
convinto che la cessione dei due marò avrebbe rasserenato gli animi 
indiani e loro sarebbero stati così bravi da rimandarceli indietro nel 
giro di qualche settimana. Questo, come abbiamo visto, non è successo.
Poi è arrivato il governo Letta. Un
 esecutivo che aveva una fortissima continuità con quello precedente. 
Nessuno, quindi, si è sognato di cambiare linea politica. Non si è mai 
nemmeno pensato di sostituire De Mistura, il negoziatore che aveva 
sostenuto con forza questa linea d’azione fallimentare. La filosofia è 
rimasta questa: i marò vadano in India, vengano processati e, una volta 
condannati col tempo si negozierà un accordo di restituzione. Scambiando
 così i nostri valorosi uomini delle forze armate con criminali, 
rapinatori e delinquenti indiani detenuti in carceri italiane. Poi è 
arrivato Renzi, la chiamata ai marò, le dichiarazioni dei ministri 
interessati e la decisione di aprire all’arbitrato internazionale. Ma 
anche qui mi pare ci sia la volontà di dichiarare, ma non la volontà di agire
Un’idea che aveva sostenuto durante il suo mandato alla Farnesina. Non
 solo l’avevo proposto un anno fa, ma avevamo già avviato l’arbitrato 
internazionale obbligatorio quando decidemmo di trattenere in Italia i 
due fucilieri di marina. Adesso, quindi, non c’è bisogno di consultare 
giuristi, come pare si voglia fare. Ormai lo sanno anche le pietre quali
 sono i dati giuridici per richiedere un arbitrato internazionale.
Lei
 ha sostenuto, dopo le sue dimissioni, che erano state pressioni 
economiche a far cambiare idea al Governo e rispedire i marò in India. Questo
 l’hanno confermato, poi, tutte le parti in causa. Quelli che hanno 
spinto per quella decisione l’hanno motivata con ragioni economiche. Più
 si va avanti e più bisogna constatare che ci sono dei ceppi che legano 
le gambe del Governo sulla strada dell’arbitrato internazionale. E 
questi freni non possono essere immotivati: devono esserci degli 
interessi. I motivi devono essere quelli di un partito degli affari che 
non possono essere dichiarati alla luce del sole. E vivendo in un Paese 
in cui è più che diffuso l’atteggiamento affaristico e collusivo di 
organizzazioni che riescono sempre ad influire sulle scelte importanti 
di politica economica, sorge spontanea la domanda su cosa ci sia 
veramente dietro la volontà di non agire del Governo.
Il
 Ministro Bonino, il primo ottobre 2013, riferendosi ai marò ha 
dichiarato: “non è accertata la colpevolezza e non è accertata 
l’innocenza. I processi servono a questo”. Non lascia intravedere una 
tendenza, forse diffusa, a pensare che in fondo è giusto che vengano 
giudicati in India? C’è un mondo nella nostra opinione 
pubblica, diffusa soprattutto sui social network, che vede con grande 
insofferenza lo straordinario ruolo che le nostre forze armante svolgono
 nel mondo. Per una fetta della cultura italiana, allevata in decenni di
 anti-patriottismo, anti-sovranità, anti-interesse nazionale, se 
qualcosa va storto in un teatro operativo è sempre colpa dei militari 
italiani. Un atteggiamento pernicioso e grave, che deve essere 
contrastato in ogni possibile modo. Sulla loro innocenza, io ne sono 
convinto. Perché ho visto la perizia balistica, so che ci sono 
incongruenze sui tempi degli incidenti, so che le ricostruzioni indiane 
sono artefatte e non è mai stato presentato un capo di imputazione in 
più di due anni. In ogni caso non è la magistratura indiana a dover 
giudicare. Ma quella italiana.
Perché
 la Procura militare di Roma non è intervenuta, procedendo al fermo dei 
militari, rendendo così impossibile un loro rientro in India? Nell’affidavit
 che avevamo sottoscritto per permettere il rientro per la licenza 
natalizia nel 2012 era scritto che il governo italiano avrebbe fatto 
tutto il possibile per fare in modo che i marò tornassero in India, 
“nell’ambito delle sue prerogative costituzionali”. Questo inciso voleva
 esattamente dire che l’esecutivo italiano non avrebbe potuto far nulla 
per limitare l’azione dei giudici. Eventualità conosciuta alle autorità 
indiane: se la magistratura italiana avesse ritirato il passaporto o 
avviato un giudizio, nessuno avrebbe potuto gridare allo scandalo. In 
una lettera del dicembre 2012, inviata al Presidente Monti, al ministro 
della Giustizia e a quello della Difesa, suggerivo di sensibilizzare la 
Procura di Roma. Nulla di tutto ciò è stato fatto.
Se
 potesse tornare indietro, ripeterebbe il gesto delle “irrituali” 
dimissioni – come le ha definite Napolitano – del marzo 2013, annunciate
 davanti al Parlamento e con il Governo già dimissionario? Forse
 già dopo la licenza natalizia, vista la totale indifferenza con il 
quale venne affrontata la questione, sarebbe stato giusto prendere una 
decisione più dirompente. Questo è l’unico dubbio che mi è sorto. 
Stavamo però ancora aspettando la sentenza sul riconoscimento 
dell’immunità funzionale che i legali indiani ci avevano assicurato. 
Speranza, poi, disattesa.
Quali sono stati gli errori più gravi dei governi che si sono succeduti. Il primo e più grave è stato quello di autorizzare l’abbandono delle acque internazionali all’Enrica Lexie.
 Poi è stato un susseguirsi di errori: dal dare il via libera per 
l’interrogatorio di Latorre nel porto di Sochi ai due ritorni in 
India. Nei miei viaggi istituzionali, ho sempre sollevato come prima 
cosa la questione dei nostri fucilieri. Non credo invece che molti altri
 colleghi di governo lo abbiano fatto. Monti ha sottovalutato 
l’importanza del caso-marò per l’interesse nazionale e la sovranità 
italiana, lasciando due militari in mani indiane senza fare nulla di 
veramente serio.
Il Corriere della Sera definì le sue dimissioni “una scelta sbagliata” che avrebbe messo a repentaglio la credibilità italiana. Certo.
 Perché questi giornali erano certi che l’idea del partito affarista 
indiano di lasciare Latorre e Girone in India, così da non compromettere
 le relazioni economiche, fosse la scelta giusta. Hanno osteggiato 
l’Arbitrato Internazionale nonostante la storia recente sia piena di 
azioni di questo genere. Anche l’Italia ha aperto, solo tre anni fa, una
 controversia con la Germania sulla questione degli internati militari 
italiani. Chi dice che non si può fare perché “l’India è un Paese 
importante” mente sapendo di mentire. Bisogna uscire dallo steccato di 
questa informazione che risponde ai poteri forti, condizionata 
dall’appartenenza politica e dalle strutture societarie dei principali 
organi d’informazione. Parlano o tacciono sui marò in base a quelle che 
sono le convenienze politiche pre-elettorali. Ci vuole un’informazione 
libera, indipendente e che faccia del giornalismo investigativo.
“Non
 bisogna avere aspettative su una soluzione rapida del caso”, ha detto 
pochi giorni fa il Ministro Mogherini. Sarà ancora lunga l’attesa dei 
marò? Credo che il Ministro proceda con prudente cautela: se 
guardiamo la storia di questi due anni, infatti, è costellata di rinvii e
 mancati rientri. Ma più che i tempi, vorremmo sapere “cosa” e “come” 
sta avvenendo. E non può valere la scusa del “non disturbate il 
manovratore”: l’opinione pubblica deve essere informata. De Mistura ha 
raccontato per mesi di assi nella manica e manovre machiavelliche che 
avrebbero risolto la questione. Tutte cose che si sono rivelate bolle di
 sapone. C’è una responsabilità politica del Governo nei confronti delle
 forze armate, dell’opinione pubblica e degli altri Paesi: bisogna 
chiudere al più presto questa vicenda.
Giuseppe De Lorenzo - 12 maggio 2014
fonte: http://ideaoccidente.wordpress.com
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