Non solo il petrolio low cost
dell’Isis. Ankara specula in molti modi sulla tragedia siriana. Mentre
la Nato giustifica il paese socio
Non è solo questione del petrolio di contrabbando proveniente dai pozzi
petroliferi occupati dall’Isis, che secondo i russi farebbe la fortuna
di un figlio e di un genero di Erdogan. La Turchia e i turchi hanno
spogliato e ancora stanno spogliando materialmente la Siria in molti
modi. Il petrolio è solo uno dei capitoli della storia. Fa un po’
sorridere che il comunicato finale della riunione dei capi di Stato
dell’Unione Europea (Ue) col primo ministro turco Ahmet Davutoglu il 29
novembre scorso a Bruxelles citi esplicitamente la cifra che Ankara
avrebbe speso dal 2011 a oggi per far fronte all’emergenza profughi
siriani sul suo territorio. «Avendo la Turchia accolto più di 2,2
milioni di siriani e avendo speso 8 miliardi di dollari», si legge nel
comunicato del Consiglio europeo, «la Ue ha sottolineato che era
importante condividere il peso nel quadro della cooperazione
Turchia-Ue». Gli 8 miliardi vengono menzionati al fine di giustificare
l’impegno europeo a «fornire una prima tranche di risorse supplementari
di 3 miliardi di euro», da tutti interpretato come un segnale di
cedimento a un ricatto e di debolezza politica.
Degli 1,5 milioni di migranti irregolari che hanno raggiunto l’Europa
quest’anno, la metà è arrivata dalla Turchia passando per la Grecia.
Siriani per la maggior parte, ma non solo. Tutti hanno attraversato un
tratto di mare pattugliato da decine di imbarcazioni militari turche
impegnate a far rispettare le proprie acque territoriali, ma che per
mesi non hanno visto niente sia quando i viaggi procedevano come
previsto, sia quando le imbarcazioni naufragavano e centinaia di
profughi morivano annegati. Occhiuti quando si tratta di abbattere jet
russi e giustificati poi dalla Nato, i turchi diventano miopi in mare.
Quando dalla Grecia i superstiti sono sciamati a centinaia di migliaia
in tutta Europa, l’Unione ha dato il consueto spettacolo di disunione.
Non riuscendo a decidere se doveva accoglierli o respingerli, sta
cercando di attuare una terza soluzione: pagare chi glieli ha mandati
perché smetta di mandarli. Da qui l’accordo con la Turchia, che si
impegna a trattenerli sul suo territorio in cambio degli aiuti
finanziari europei e del rilancio del processo di adesione del paese
all’Unione. Bloccato praticamente da dieci anni a questa parte a causa
dei ripensamenti di Francia e Germania e dell’evidente impossibilità per
i turchi di fare progressi su certi capitoli del negoziato, il processo
di adesione è stato riavviato da una dichiarazione firmata dai leader
europei e dal primo ministro Davutoglu appena due giorni dopo l’arresto
del direttore e del caporedattore di Cuhmuriyet, il giornale che aveva
documentato collusioni fra i servizi segreti turchi e l’Isis. Bruxelles è
talmente con le spalle al muro sulla questione dei profughi, che non ha
avuto esitazioni a esporsi a una figuraccia macroscopica.
Un export in forte crescitaDunque la Turchia piange miseria per aver dovuto sborsare tanti soldi
per soccorrere i poveri profughi siriani, e l’Europa per solidarietà e
senso di responsabilità apre i cordoni della borsa. In realtà, a parte
gli aspetti politici della questione e il ruolo che la Turchia svolge
nella guerra civile del paese confinante, il bilancio delle entrate e
delle uscite finanziarie turche causate dalla crisi siriana non è quello
che Ankara vuol far credere. E nella colonna delle entrate non vanno
conteggiati solo i profitti del petrolio di contrabbando. Un recente
studio del ricercatore David Butter per conto della britannica Chatham
House – The Royal Institute of International Affairs, basato sui dati
dell’ente statistico turco, mostra un curioso fenomeno: l’interscambio
commerciale fra Siria e Turchia crolla con lo scoppio della guerra
civile nella prima, e nel 2012 è ridotto a un quarto di quello che era
nel 2010; successivamente però rimbalza, e mentre in Siria le
devastazioni e i lutti raggiungono picchi senza precedenti, nel 2014
l’export turco verso il paese degli Assad torna ai valori del 2010: 1,8
miliardi di dollari. Invece l’export siriano verso la Turchia non ha
conosciuto rimbalzi: valeva 452 milioni di dollari nel 2010, è sceso a
115 milioni nel 2014. Come si spiega il mistero? Secondo Butter il
rimbalzo va interpretato «in parte come risultato della fornitura di
aiuti attraverso il confine settentrionale della Siria, e in parte come
risultato di nuove relazioni commerciali, incluse vendite da parte di
compagnie siriane che si sono impiantate nella Turchia orientale. Un
aspetto importante delle relazioni commerciali con la Turchia è stato il
trasferimento di imprese siriane dall’altra parte della frontiera.
Secondo fonti turche ufficiali, il 25 per cento circa delle 4.249
compagnie comprendenti soci stranieri che sono state create in Turchia
nei primi undici mesi del 2014 comprendevano investitori siriani. Le
imprese turche con soci siriani sono state le più numerose fra le
imprese turche partecipate da stranieri anche nel 2013, ma allora
rappresentavano solo il 12,6 per cento del totale. Il presidente della
Camera di commercio della città portuale di Mersin, avrebbe dichiarato
che il grande aumento di esportazioni dalla città verso la Siria è
dovuto alla delocalizzazione di imprese siriane nell’area circostante. I
dati ufficiali sugli scambi commerciali non includono i considerevoli
volumi di merci di contrabbando attraverso la frontiera turca, compreso
petrolio e prodotti già raffinati del valore di svariate centinaia di
milioni di dollari, che hanno raggiunto il mercato turco partendo da
aree sotto il controllo dell’Isis».
Le razzie criminose Insomma, la guerra ha trasformato molte imprese siriane in imprese
turche, che in Turchia hanno trasferito macchinari e capitali
finanziari. Ora esportano soprattutto nei territori siriani sotto
controllo ribelle e pagano le tasse all’erario turco. Quanto all’accenno
all’Isis e al suo ruolo nel contrabbando di petrolio e carburanti,
quello citato non è l’unico passo che chiama in causa lo Stato islamico.
A un certo punto si fa notare che nel 2014 si registrò «un picco di 311
milioni di dollari di esportazioni dalla Turchia alla Siria nel mese di
luglio, mentre per il resto dell’anno la media mensile sarebbe
equivalsa a 135 milioni di dollari. Non è chiaro che cosa abbia causato
questo picco nelle esportazioni, ma sta di fatto che esso coincise col
culmine delle avanzate dell’Isis in Iraq e in Siria, e almeno una parte
delle vendite addizionali potrebbe essere rappresentata da
approvvigionamenti addizionali di origine turca da parte dell’Isis, per
esempio tubi d’acciaio e altro materiale per progetti di raffinazione di
idrocarburi».
Insieme al trasferimento delle attività industriali o commerciali
dalla Siria alla Turchia, l’altro grande beneficio che l’economia turca
ha avuto dalla guerra siriana è il trasferimento di capitali. Scrive
Samer Abboud, docente all’Arcadia University della Pennsylvania e autore
di un prezioso libro sul conflitto siriano: «Città come Reyhanli,
Gaziantep e Antiochia, e le province meridionali in generale, hanno
conosciuto un significativo boom economico a partire dal 2011. Le banche
turche sono state inondate di denaro siriano e, secondo dati relativi
all’ultima parte del 2012, le banche della provincia dell’Hatay hanno
registrato un aumento dei depositi in valuta estera del 101 per cento.
Aumenti simili sono stati registrati in tutte le banche della Turchia
meridionale, lasciando concludere che molti dei siriani che hanno
abbandonato il paese hanno portato con sé i propri risparmi e sono in
grado di vivere fuori dai campi profughi. Inoltre molti industriali
siriani che avevano venduto le loro proprietà nella Siria settentrionale
avevano cominciato a riposizionarsi in Turchia, trasferendo i loro
capitali finanziari per avviare nuove operazioni o entrare in
partnership con imprenditori locali».
Fin qui abbiamo parlato di trasferimenti di attività industriali da
parte dei proprietari. Ma c’è anche il capitolo delle razzie e dello
smantellamento criminoso di impianti e attrezzature industriali. Nel
marzo del 2013 la Federazione delle Camere dell’Industria siriane fece
causa allo Stato turco presso un tribunale tedesco accusando Ankara di
complicità nel saccheggio e nello smantellamento di fabbriche e imprese
del distretto di Sheikh Najjar, ovvero la zona industriale di Aleppo,
posta una decina di chilometri a nord-est della città. Nel luglio 2014
l’area fu riconquistata dall’esercito governativo, e nell’agosto di
quest’anno un giornalista turco del quotidiano Radikal ha fatto un
reportage sul posto. Da esso risulta che le fabbriche smantellate e
trasferite in Turchia sarebbero state circa 300, su un totale di 963
stabilimenti tessili, alimentari, chimici, farmaceutici. Il
vicepresidente della Camera dell’Industria e del Commercio di Aleppo,
Bassil Joseph Nasri, informa che le imprese danneggiate hanno deciso di
rivolgersi alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja: «Abbiamo
costituito un team speciale per seguire la denuncia. I proprietari dei
beni rubati stanno cercando di rintracciarli. In molti casi i numeri di
serie sono stati abrasi, ma si tratta di macchinari speciali, e non è
difficile individuarli. Ci sono imprenditori che hanno localizzato i
loro macchinari rubati, uno di loro è andato in Turchia e lo ha
riportato indietro. Sappiamo che le attrezzature sono state vendute
nelle province di Kilis, di Gazantiep e dell’Hatay. I saccheggiatori si
erano fatti accompagnare da ingeneri dalla Turchia per individuare le
parti più pregiate. In alcuni casi hanno asportato l’intero macchinario,
in altri pezzi particolari. Stiamo individuando i ladri, e altre
denunce in sede giudiziaria seguiranno».
Il traffico umano
Un altro flusso poco indagato di denaro da tasche siriane a tasche
turche è quello che riguarda il traffico dei profughi verso l’Europa.
Prima che la firma dell’accordo con l’Unione Europea imponesse un alt,
si spera non temporaneo, al fenomeno, hanno tratto beneficio da questa
attività illegale innumerevoli cittadini turchi. Racconta un reportage
del New York Times da Smirne (terza città per numero di abitanti) del
settembre scorso che in Turchia si è sviluppata una «economia sommersa
multimilionaria» che «trae profitto dalla massiccia onda umana che corre
verso l’Europa. Gran parte di questa nuova economia è visibile qui
sulle strade, dove i trafficanti adescano i rifugiati, i negozi di
abbigliamento espongono giubbotti e ciambelle di salvataggio, corriere e
taxi trasportano passeggeri verso remote spiagge di partenza lungo la
costa. Il denaro scorre attraverso Smirne, divenuta un triste snodo per
gli emigranti e una città dell’oro per i residenti. Nascosta alla vista è
l’estesa infrastruttura del contrabbando di esseri umani, con
improvvisati “uffici assicurativi” dove viene depositato il denaro che
serve al pagamento, fabbriche segrete che sfornano giubbotti di
salvataggio inefficienti e fornitori clandestini di gommoni a poco
prezzo che talvolta si bucano o si ribaltano durante il viaggio verso la
Grecia, causando l’annegamento delle persone». Prima del recente giro
di vite, le autorità apparivano coinvolte: «Qui a Smirne lo Stato sembra
assistere inerte al quotidiano spettacolo di emigranti che attraversano
la città e si recano sulla costa per salire sui gommoni per la Grecia.
Osservatori internazionali dicono che mentre i migranti pompano denaro
nell’economia ufficiale, chi realizza i guadagni più forti sono gang
criminali molto organizzate che probabilmente corrompono le autorità
perché guardino dall’altra parte. Gli stessi siriani e la manovalanza
dei trafficanti asseriscono che le autorità vengono talvolta pagate per
lasciar passare i migranti». Come titolava quel famoso film di Alberto
Sordi: finché c’è guerra c’è speranza. Di fare soldi.
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