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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

05/03/16

L’Avvento di Renzi




Molti tendono a considerare Matteo Renzi una soluzione, mentre egli è il problema non dell’Italia, ma di se stesso.
Se esaminiamo la vicenda del presidente fiorentino alla luce del liberalismo classico, non dei variegati pseudoliberalismi spuntati sotto le nostrane bandiere rosse, dopo (dopo!) che il bolscevismo era stato ammainato dal pennone del Cremlino nell’anno di grazia 1991, constatiamo che, in forza delle capricciose spinte renziane, va diffondendosi la dottrina che il potere del premier deve essere meno limitato e più potenziato, non solo perché ciò sarebbe un bene in sé alla luce della modernità globalizzata, ma anche per consentirgli di fare quelle riforme che, a suo dire, sono attese da ben prima che la Costituzione fosse emanata. Egli sostiene una sorta di teoria pagana dell’Avvento: l’Italia lo aspettava da sempre per risorgere dal letargo nel quale, peraltro, la sua radice politica l’aveva addormentata. Sennonché Renzi è un risorto senz’essere morto prima. Non c’è niente di divino in lui, benché egli lo creda davvero.
Sentiamo spesso dire che in tutti i leader politici la considerazione di sé supera i meriti. Insomma, che la presunzione sovrasta la valutazione. Ma tra gli scopi nobili di un vero statista non è ricompresa l’affermazione personale, se non come un mezzo per conseguire un nobile risultato. Tutto questo, appunto, sfugge, per ora, nella figura e nell’opera del Oresidente del Consiglio. Il suo “disegno deformatore” delle istituzioni (legge elettorale+riforma costituzionale) serve a concentrare e rafforzare nelle sue mani il potere politico e l’indirizzo governativo. Egli mira ad avere le mani più libere per agire più liberamente. Perché? Perché è ultraconvinto di rappresentare, politicamente parlando (e forse non solo), il bene della nazione, com’è comprovato pure da certe sue demagogiche misure legislative ed amministrative le quali denotano l’intenzione di comprare i voti e l’appoggio in alto e in basso degli strati sociali, piuttosto che di liberalizzare la società.
Secondo le immortali parole del nostro Maestro di libertà, David Hume, “Gli scrittori politici hanno stabilito come una massima che, nell’escogitare qualunque sistema di governo, e nel fissare i molti limiti e controlli della Costituzione, ogni uomo dovrebbe proprio essere presunto un farabutto ed avere nessun altro fine, in tutte le sue azioni, che l’interesse personale. In base a questo interesse noi dobbiamo guidarlo e, per mezzo di esso, farlo cooperare al pubblico bene nonostante la sua insaziabile avidità ed ambizione. Senza ciò, essi dicono, invano ci glorieremo dei benefici di qualunque Costituzione e troveremo, alla fine, che non abbiamo nessuna sicurezza per le nostre libertà e proprietà, eccetto la buona volontà dei nostri governanti; cioè non avremo nessuna sicurezza in assoluto”.
Orbene, la polimorfa fretta operativa e la ridondante supponenza teorica di Renzi non sono appoggiate su alcuna coerente base ideale, ma sostenute da ondivaghe e fragili opinioni. Il suo modo di pensare e d’agire (cioè secondo lo schema: siccome lo penso io, dev’essere così), sembra evocare, sebbene in sedicesimo e in controluce, le preoccupazioni humiane.

di Pietro Di Muccio de Quattro - 5 marzo 2016


Ma quali soldi alla ricerca. Stagisti della Cultura al verde. Il ministro Franceschini viola pure i vecchi patti


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Altro che investimenti per la ricerca. Il ministero dei Beni culturali e del Turismo (Mibact) non ha pagato nemmeno le persone che lavorano al progetto “500 giovani per la cultura”, avviato nel 2013 e successivamente rinnovato. I tirocinanti sono senza lo stipendio da gennaio. Si parla di 800 euro al mese, una cifra non certo eccessiva, che pure non viene corrisposta. E la condizione potrebbe protrarsi.
SALTA IL BANCO – Ma qual è la causa? “Per un problema è di carattere tecnico amministrativo, non dipeso dal ministero, i pagamenti sono stati attribuiti ai segretari regionali”, ha spiegato il segretario generale del Mibact, Antonia Pasqua Recchia. E i tempi per risolvere la grana non sembrano essere rapidissimi: “Si stanno trasferendo i fondi”, dice Recchia. Parole che suonano come una beffa dopo la promessa del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha annunciato un piano di 2,5 miliardi di euro per la ricerca. “Sarebbe il caso di risolvere i problemi esistenti e chiudere con la politica dei tirocini riservati a persone già formate”, dice a La Notizia la deputata di Sinistra italiana, Monica Gregori. L’ex viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, ha chiesto un chiarimento ufficiale al ministro Dario Franceschini. Il deputato di Si ha polemizzato con il governo sulla riforma della Pubblica amministrazione, ritenendola colpevole del disguido nella parte che riguarda la “riorganizzazione delle competenze e delle funzioni legate al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e del rapporto tra quest’ultimo e il Ministero dell’Economia e delle finanze”. Del resto il bando ha fatto discutere sin dalla sua pubblicazione nel 2013, quando al Mibact c’era Massimo Bray. Ai 500 giovani fu proposto un contratto di 500 euro al mese. E senza alcuna prospettiva. Nella riformulazione il bando ha messo a disposizione uno stipendio di 800 euro. Salvo poi incepparsi a gennaio.
NODO ASSUNZIONI – Salvo Barrano, presidente dell’Associazione nazionale archeologi, contesta la logica del progetto: “Il meccanismo non deve funzionare così. Perché nel caso in cui i giovani non dovessero essere assunti, si sentirebbero svantaggiati. Ma se fosse proposto un contratto, gli esclusi avrebbero ragione ad avanzare rimostranze. Molti sono stati estromessi perché erano troppo formati. Così non si premia il merito.” Anche il “comitato nazionale 500 giovani”, che si è nel frattempo costituito, ha alzato la voce. E ha chiesto quale “contributo professionale i giovani potranno dare in prima persona all’interno degli Enti, in uno scenario lavorativo futuro”. Insomma, vogliono certezze Monica Gregori esprime un giudizio severo. “Questo non è lavoro, né investimento sulla ricerca. Il governo rafforza solo il precariato”. Per carità, l’ultima Legge di Stabilità ha previsto l’assunzione di 500 tecnici. Ma poi al Mibact ci sono tirocinanti non pagati per mesi.

di Stefano Iannaccone - 4 marzo 2016
fonte: http://www.lanotiziagiornale.it/ 

04/03/16

VITTIME DEL DOVERE



vittime del dovere, italiani caduti in missione


Non ci siano vittime di serie A o di serie B, tra i caduti per la nostra nazione e per la Repubblica, ma un unico status, per tutti i nostri militari che abbiano perso la vita in servizio, in azioni di guerra, in attentati bellici come in missioni di pace, o semplicemente durante lo svolgimento del proprio dovere, anche per incidente. È ciò che chiedono allo Stato i parenti, riuniti nell’Associazione Onlus “Mario Frasca”, fondata nel 2012 e presieduta dal padre Antonio; segretario è Vincenzo, fratello del militare dell’esercito italiano morto in Afghanistan il 23 settembre 2011, insieme a Riccardo Bucci e Massimo Di Legge. Nei giorni scorsi, una rappresentanza si è recata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ha promosso una manifestazione davanti al Parlamento, il 25 febbraio scorso, per chiedere l’unico riconoscimento per le “vittime del terrorismo nelle missioni di pace all’estero”, con una modifica della normativa vigente che, nelle leggi n. 206/2004 e n. 246/2006, distingue tra “vittime del terrorismo” e “vittime del dovere e del servizio”.

“Sul sito web del Ministero della Difesa, i 177 nostri caduti dal 1950 ad oggi sono in un unico elenco. La legge, però, fa differenza di categoria e, quindi di trattamento”, spiega Vincenzo Frasca. Chi è “vittima del dovere” non ha diritto ai funerali di Stato, né ad onorificenze, come la Medaglia d’Oro al Valore Militare, né ai risarcimenti per i genitori e i fratelli, come avviene invece per le “vittime del terrorismo”, ma soltanto per la moglie e i figli. Uno schiaffo alla parità di trattamento e di riconoscimento del servizio reso alla nazione e alla pace dai soldati italiani.

“Chiediamo che i nostri militari caduti in missioni internazionali all’estero, in Kosovo, Libano, Iraq, Afghanistan, Albania, siano riconosciuti e onorati tutti allo stesso modo, senza discriminazioni e differenze”, dice Vincenzo Frasca. Accanto a lui, discreta e affranta da un dolore che non passa, c’è Rosa Papagna, la madre di Francesco Saverio Positano, il caporalmaggiore degli Alpini del 32mo reggimento Genio che ha perso la vita in Afghanistan il 23 giugno 2010, precisamente a Shindand, nel corso di un pattugliamento. “Mi avevano detto che era morto per un malore. Quando è il corpo è tornato in Italia abbiamo chiesto un’autopsia e il referto del medico ha escluso la morte per cause naturali. È stato investito da un automezzo blindato in retromarcia”, presumibilmente durante una manovra. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Si è trattato di un incidente. Ma i genitori di Francesco non ci stanno a considerare la sua morte di meno valore di quella di chi è stato ucciso in un attentato terroristico. Era all’estero comunque in missione, in difesa dei valori di pace e di democrazia, rischiando la vita allo stesso modo di chiunque altro suo commilitone.
Nel 2014, sono caduti in missione militare all’estero il maresciallo Luigi Sebastianis, il 12 agosto, in Libano, e il maresciallo aiutante dell’Arma dei Carabinieri Corrado Oppizio, il 24 febbraio, in Libia. L’8 giugno 2013, in Afghanistan, Giuseppe La Rosa. Nel 2012, il caporalmaggiore dei Bersaglieri Michele Padula, il 18 giugno, in Kosovo; in Afghanistan, il caporale degli Alpini Tiziano Chierotti, il 25 ottobre, l’appuntato dei Carabinieri Manuele Braj, il 25 giugno, il sergente dei Gustatori Michele Silvestri, il 24 marzo, il caporalmaggiore della Fanteria Francesco Currò insieme ai primi caporali maggiori Francesco Paolo Messineo e Luca Valente, il 20 febbraio, il tenente colonnello della Fanteria Giovanni Gallo, il 13 gennaio.

Nel 2011, sempre in Afghanistan, con Frasca, Bucci e Di Legge, sono morti: il maggiore dell’Arma dei Carabinieri Matteo De Marco, il 16 settembre, il primo caporalmaggiore dei Paracadutisti David Tobini, il 25 luglio, il primo caporalmaggiore dei Gustatori paracadutisti Roberto Marchini, il 12 luglio, il caporalmaggiore scelto Gaetano Tuccillo, il 2 luglio, il tenente colonnello dell’Arma dei Carabinieri Cristiano Congiu, il 4 giugno, il tenente degli Alpini Massimo Ranzani, il 28 febbraio, il caporalmaggiore degli Alpini Luca Sanna, il 18 gennaio. Nel 2010, sempre in Afghanistan: il caporalmaggiore degli Alpini Matteo Miotto, il 31 dicembre, nello stesso attentato del 9 ottobre: i primi caporali maggiori degli Alpini Gianmarco Manca, Francesco Vannozzi e Sebastiano Ville, con il caporalmaggiore Marco Pedone, il tenente d’assalto Paracadutisti Alessandro Romani il 17 settembre, il primo maresciallo dei Guastatori alpini Mario Gigli con il caporalmaggiore capo Pierdavide De Cillis, il 28 luglio, il capitano di Artiglieria Marco Callegaro, il 25 luglio, il caporalmaggiore dei Guastatori alpini Luigi Pascazio insieme al sergente Massimiliano Ramadù, il 17 maggio, l’agente dei Servizi di Sicurezza Pietro Antonio Colazzo, il 26 febbraio.

Un elenco di nomi che parla di vite offerte per i valori di Patria e di civiltà. In un andare a ritroso negli anni fino alla nascita della Repubblica. La maggior parte di loro si trova nell’anonimato pubblico. Ingiustamente. Ecco, allora, il nome degli altri nostri eroi e martiri della democrazia: nel 2009, in Kosovo, il primo maresciallo Concetto Gaetano Battaglia, in Afghanistan, i caporali maggiori Alessandro Di Lisio e Rosario Ponziano, i primi caporali maggiori Matteo Mureddu, Giandomenico Pistonami, Davide Ricchiuto, Massimiliano Randino, il sergente maggiore Roberto Valente, il tenente Antonio Fortunato, il maresciallo Arnaldo Forcucci. Nel 2008, in Afghanistan, il maresciallo Giovanni Pezzulo e il caporalmaggiore Alessandro Caroppo. Nel 2007, sempre in Afghanistan, il maresciallo capo Daniele Paladini e il sottoufficiale del Sismi Lorenzo D’Auria.

Sono i nostri caduti negli ultimi dieci anni. Ce ne sono tanti altre, di morti silenziose sui media, i cui nomi non hanno meritato neppure il ricordo nelle pagine di cronaca. L’elenco completo di un appello tragico si trova sul sito del Ministero della Difesa. Sono i nostri militari impegnati in operazioni di pace in Iraq, in Kosovo, in Albania, in Bosnia-Erzegovina, in Croazia, in Somalia, in Burundi, in Ruanda, in Mozambico, in Libano, nella Guerra del Golfo, in Egitto, in Eritrea, nel Congo Belga. Se l’Italia manterrà la sua vocazione repubblicana, di ambasciatrice di pace, e se saprà onorarli tutti egualmente, come meritano, non saranno morti invano.


Accadde oggi: nel 2005 muore Nicola Calipari, fece da scudo a Giuliana Sgrena


La vicenda non fu mai chiarita e la versione italiana non coincise mai con quella statunitense



Un’altra triste pagina della storia italiana più recente. Un altro uomo di Stato, di quelli che per lo Stato si prodigano e si sacrificano, che ha perso la vita mentre svolgeva il proprio lavoro e mentre si trovava in missione in Iraq per riportare a casa la giornalista de Il manifesto, Giuliana Sgrena, appena liberata dai suoi rapitori. Lui era Nicola Calipari, agente segreto italiano, nato a Reggio Calabria il 23 giugno 1953. Un altro figlio dell’Italia, del Sud in questo caso, che è andato a morire a Baghdad il 4 marzo 2005, per mano di soldati statunitensi. “Fuoco amico”, dunque. Un errore che a Calipari è costato caro, e che ancora oggi non è stato chiarito.

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Ma andiamo con ordine. Nicola Calipari aveva avuto una lunga e meritevole carriera: era entrato a far parte degli scout nel reparto «Aspromonte» del gruppo Reggio Calabria 1 dell’Associazione Scouts Cattolici Italiani (ASCI). Dal 1965 intraprese il percorso educativo fino a diventare, nel 1973, capo scout nei gruppi Reggio Calabria 1 e Reggio Calabria 3 AGESCI. Laureatosi in giurisprudenza, nel 1979, si arruolò in Polizia, ottenendo molti riconoscimenti in particolare relativamente ad operazioni antidroga e di contrasto al traffico internazionale di armi. Entra quindi nel Sismi nel 2002 e tra i suoi incarichi è anche responsabile, nei territori iracheni, per le trattative volte alla liberazione delle operatrici umanitarie Simona Pari e Simona Torretta e dei tre addetti alla sicurezza Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Non si riesce invece a riportare a casa Fabrizio Quattrocchi ed Enzo Baldoni, che saranno giustiziati dai loro rapitori. È inoltre mediatore per la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, rapita il 4 febbraio 2005 dall’Organizzazione della Jihad islamica mentre si trovava a Baghdad per realizzare una serie di reportage per il suo giornale.


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Dopo l’esito positivo del sequestro e la liberazione della Sgrena, grazie alla trattativa portata a termine proprio da Calipari, la sera del 4 marzo gli uomini dei servizi segreti cercano di riportarla a casa. L’auto con a bordo la giornalista, l’autista Andrea Carpani e Nicola Calipari, si sta recando all’aeroporto di Baghdad, dove un aereo li attende per riportarli in patria. Si trovano sulla Route Irish quando si avvicinano a un presunto posto di blocco statunitense. Appena il veicolo si avvicina agli americani, questi iniziano a scagliarli contro una serie di colpi d’arma da fuoco; Calipari, per istinto, per esperienza e per senso del dovere, si protende per fare scudo col suo corpo a Giuliana Sgrena. Ed è proprio in questo momento che viene ucciso da una pallottola che gli si conficca propria in testa, senza lasciargli scampo. Ma i colpi d’arma da fuoco sono tanti e anche la giornalista e l’autista del mezzo vengono feriti.

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L’addetto americano alla mitragliatrice è Mario Lozano, newyorkese nato nel Bronx nel 1969, appartenente alla 42ª divisione della New York Army National Guard. Ma forse, anche altri soldati hanno partecipato alla sparatoria, scagliando le loro munizioni sull’auto italiana. Sul caso è ovviamente stata aperta un’inchiesta, ma la versione statunitense e quella italiana non hanno mai coinciso. L’accaduto creò forti attriti diplomatici fra Italia e USA, proprio come accadde durante la strage del CermisSecondo il governo statunitense l’auto con a bordo Calipari e la Sgrena viaggiava ad una velocità vicina ai 100 km/h e i militari del check-point 541 avrebbero seguito la cosiddetta procedura delle quattro S, prevista nelle regole di ingaggio, ovvero: Shout (grida): i soldati, a 150 metri di distanza segnalano al conducente di fermars; Show (mostra): a 100 metri dal posto di blocco il conducente del veicolo viene colpito da un laser verde, per costringerlo a rallentare; Shove (allontana): nel caso l’auto non avesse ancora rallentato, i soldati sparano alcuni colpi in aria; Shoot (spara): quando il veicolo giunge alla pericolosa distanza di 50 metri, i soldati si ritengono autorizzati a sparare.
La versione italiana, basata sulla testimonianza di Giuliana Sgrena fu diversa: sostenne di aver visto, dopo una curva che li avrebbe fatti rallentare fino ad una velocità massima di circa 50 km/h, una luce accecante e poi di aver udito l’esplosione di numerosi colpi d’arma da fuoco. Inoltre, secondo, la giornalista non si trattava di un posto di blocco e la pattuglia dei soldati americani non aveva fatto alcun segnale per identificarsi o per intimare l'”alt”. La giornalista dichiarò inoltre che i suoi sequestratori le avevano riferito che gli statunitensi non volevano tornasse viva in patria. La magistratura italiana, che aveva aperto un’inchiesta sulla vicenda, incriminò il Mario Lozano per l’omicidio di Calipari e il tentato omicidio di Sgrena e Carpani, maggiore dei Carabinieri in forza al SISMI.


Marx secondo Vendola & co: capricci e solidi interessi privati



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Solo il suicidio delle destre (troppo lento, fastidiosamente lento) riesce a mascherare la fine della sinistra. E la vicenda della falsa paternità di Vendola serve, ancora una volta, per mascherare una crisi irreversibile. Ma proprio Vendola e’ l’emblema di questa crisi. Di valori, di contenuti, di idee. Una sinistra che ha rinnegato Marx non per convinzione ma, semplicemente, perché era troppo lungo da leggere e troppo difficile da comprendere.
Una sinistra che ha rinnegato la propria storia per approdare ai capricci del leader di Sel. Hanno sostituito la lotta per i diritti collettivi con gli strilli per i bisogni individuali. Hanno schifato i poveri ed i deboli italiani per essere politicamente corretti nel sostegno riservato esclusivamente agli invasori, a partire dai clandestini. Hanno distrutto regole, hanno derubato i risparmiatori nel nome del diritto di arricchirsi ad ogni costo. Soprattutto se ad arricchirsi erano i famigliari ed i famigli dei vertici del partito. Hanno punito i pensionati per la colpa di essere vivi, hanno fatto della precarietà altrui la propria stella polare. Sino a quando la sinistra della sinistra ha deciso che poteva bastare.
In nome della difesa di lavoratori e pensionati? Ma no! In nome della volontà di non spartire il bottino con Verdini e soci. E allora la sinistra della sinistra si ribella. Medita uscite dal Pd per confluire in quell’oggetto del desiderio che dovrebbe riaggravare le varie anime rosse. Peccato che le proposte non cambino. Tutela degli allogeni a danno degli indigeni, impoverimento generalizzato, libertà di violare norme e leggi in nome della libertà di espressione e dei capricci individuali, cazzeggio mantenuto con soldi pubblici. Una sinistra all’americana. Nordamericana, sia chiaro. Una sinistra radical chic, bobo, gauche caviar: possono cambiare le definizioni, ma la melma e’ la stessa. E non è un caso che in questa carnevalata non sia presente il partito comunista di Marco Rizzo. Perché Rizzo pensa che i diritti dei lavoratori vengano prima dei capricci del singolo lavoratore, che l’invasione serva solo a chi vuole avere manodopera a bassissimo costo da sfruttare. Ovvio che il suo partito abbia pochissimo spazio sui giornali di servizio.
Forse, però, non è altrettanto ovvio che, di fronte ad una sinistra di questo livello, la destra non abbia saputo far altro che suicidarsi con beghe tra personaggi degni solo di una commedia all’italiana di infimo livello. Ma allora, perché stupirsi se il parlamento legifera e la magistratura ignora le leggi e ne applica di inesistenti? Se la politica abdica al suo ruolo, e’ inevitabile che qualcuno riempia il vuoto. Non solo la magistratura ma anche la finanza, gli speculatori italiani e soprattutto stranieri, i governi di altri Paesi. Lo scontro e’ tra di loro, il parlamento italiano non esiste ed il governo cura i propri interessi privati

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03/03/16

Migranti sfruttati e violentati. E c’è chi guadagna miliardi. Oltre 3mila i centri d’accoglienza privati


Cara Mineo

Per avere un’idea di come la gestione migratoria sia fallimentare basterebbe questo: a oggi sono ben 14 le Procure che hanno aperto fascicoli sulla gestione poco trasparente (per usare un eufemismo) dei centri d’accoglienza per i migranti che sbarcano in Italia. Mafia Capitale, insomma, non è che un esempio di un mondo che, giocando sull’emergenza, è sprofondato nel malaffare, sulla pelle di migliaia di clandestini e rifugiati, in fuga dalla guerra, in cerca di una terra promessa e mai raggiunta. Insomma, mentre a Calais si sgombera la “giungla”, in Italia non va meglio. Secondo i più recenti dati del Viminale, sono 3.090 le strutture di accoglienza gestite da privati. Ovviamente un tale numero di strutture vuol dire (anche) soldi. Ed ecco allora i costi (pubblici) e i guadagni (privati) dell’accoglienza: il Viminale ha stimato per l’anno 2015 una spesa complessiva di 1.162 milioni di euro.
QUADRO OSCURO – Il giro di soldi, dunque, non è di poco conto. Il minimo sarebbe quello di garantire un’assoluta trasparenza che, tuttavia, non c’è. Secondo quanto denunciato da diverse associazioni (da CittadinanzAttiva a Libera) in un report dal titolo non casuale – InCastrati – non esiste neppure un elenco pubblico di tali strutture, della loro ubicazione, di chi le gestisce. Nulla di nulla. A suon di emergenza, dunque, è stato il caos più totale. Eppure, denunciano le associazioni, il servizio dovrebbe funzionare ora che è direttamente in mano alle prefetture. E invece sono proprio questi enti che spesso fanno di tutto per mantenere il quadro tenebroso. Basti questo: le associazioni hanno presentato presso 104 prefetture (su 106 totali) richieste di informazioni sulla gestione migranti. Ebbene, gran parte delle Prefetture interpellate, salvo alcune eccezioni, ha in buona sostanza rigettato le istanze, limitandosi a fornire alcuni dati generici. Non solo: 52 prefetture hanno ritenuto di non rispondere affatto. Classico esempio di buona amministrazione. Ma non basta: anche il Viminale è stato interpellato. Ma anche in questo caso gli hotel, le strutture e le coop convenzionate restano segrete perché, addirittura, la pubblicazione dell’elenco dei centri e la loro ubicazione sarebbe inopportuna per ragioni di tutela della sicurezza delle persone ospitate e che vi lavorano.
VIOLENZE E SOPRUSI – E, se a guadagnare sono i gestori delle strutture, a perdere sono coloro che dovrebbe essere accolti. Già, dovrebbero. Perché il sistema fa acqua da tutte le parti. Andiamo nella Provincia di Benevento dove è attiva la “Cooperativa Maleventum” che in questa zona gestisce ben 11 centri. “Tutti centri in cui i servizi sono ridotti al minimo se non meno”. Qualche esempio? “Nel centro di Dugenta – si legge ancora – vi sono 49 migranti che non ricevono nessun tipo di servizio”. Vi è un bagno per dieci persone, che “qualcuno viene a pulire una volta alla settimana”. E il cibo? Scadente, tanto che, racconta uno dei 49, “ognuno di noi si compra da mangiare con i soldi che ci danno mensilmente”. Parliamo di 75 euro a testa. Tutti condannati inevitabilmente al caporalato, in molti casi. Alcuni migranti del Cara di Mineo raccontano come ogni giorno lavorino dalle 5 del mattino alle 2 del pomeriggio e percorrano in bici 24 km ad andare e tornare per una cifra che va dai 15 ai 25 euro al giorno. Nelle terre del Cosentino invece i richiedenti asilo raccolgono cipolle per molto meno. E ancora: ci sono casi in cui la “periferizzazione” facilita abusi. Il caso più emblematico è quello di un centro in Calabria a Pedivigliano (Cosenza): qui per mesi è stata presente in struttura con 28 uomini una ragazzina nigeriana di 16 anni senza che nessuno la trasferisse. Per fortuna si è evitato il peggio. Ma la ragazzina, quando è stata soccorsa dalle associazioni, era terrorizzata. Sola e abbandonata. Per non parlare di quello che accade nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione). Qui i migranti dovrebbero essere solo di transito prima del rimpatrio, ma invece il loro soggiorno si prolunga per mesi. E spesso, tra violenze e prigionia, si impazzisce. A., raccontano le associazioni, è ospite di uno dei tanti hotel. È giovanissimo e molto vulnerabile. Viene adescato al di fuori del suo centro da una donna e due uomini. Viene drogato e violentato. Nei giorni seguenti delira ed impazzisce di fronte a tutti i suoi compagni. Senza nessuna segnalazione a strutture di sostegno psicologico, viene messo su un aereo, in pochissimi giorni. Il viaggio di 500 euro viene pagato dall’albergatore stesso. A. è scomparso nel nulla, pazzo. A ridurlo così è stata la “nostra accoglienza”.

di Carmine Gazzanni - 2 marzo 2016

02/03/16

Terzi al Copasir: i marò sono innocenti, il governo italiano tace ancora




Terzi al Copasir: i marò sono innocenti, il governo italiano tace ancoraCi sono prove che non sono stati i fucili dei militari italiani a colpire i pescatori indiani e che la nave sulla quale si trovavano era in acque internazionali, ma il governo italiano tace su questo. Lo ha detto, a quanto si apprende, l’ex ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ascoltato al Copasir sulla vicenda dei due marò. Terzi è stato convocato dal Comitato a seguito di una sua intervista in cui parlava di pressioni esercitate per far tornare in India i due marò quando, tre anni fa, erano rientrati in Italia per la licenza natalizia. A seguito della decisione del governo Monti di far ritornare a Nuova Delhi i fucilieri, Terzi si dimise. «Ci aspettavamo – ha riferito il senatore M5s Vito Crimi, al termine dell’audizione – molto di più dall’ex ministro per capire chi esercitò le pressioni e cosa successe in quei dieci giorni passati tra l’11 marzo 2013, quando Terzi annnunciò che i due marò sarebbero rimasti in Italia ed il 21 marzo, quando il Governo cambiò idea e decise di farli rientrare in India».

L’ex ministro Terzi: non ci sono prove contro i marò

 

A tenere alta l’attenzione sul caso, ci ha pensato Massimiliano Latorre, che pochi giorni fa ha postato sui social network il video del loro arbitrario arresto: «Questo accadeva il 19 febbraio 2012, 4 anni fa, cioè quando ci portarono in carcere». È la frase che accompagna il video montato con le foto delle fasi dell’arresto postato su Facebook da Massimiliano Latorre, il fuciliere tarantino accusato insieme al collega barese Salvatore Girone di aver ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati al largo della coste del Kerala. Latorre attualmente è in convalescenza in Italia per motivi di salute dopo aver ottenuto un permesso dalle Autorità indiane, mentre Girone è ancora trattenuto in India. Intanto lunedì scorso la Corte permanente di arbitrato (Cpa) dell’Aja ha reso noto il programma e le modalità dell’udienza del 30 e 31 marzo dedicata a esaminare la richiesta dell’Italia sul rientro del marò Salvatore Girone, attualmente detenuto in India. La seduta del Tribunale arbitrale inizierà alle 9.30 con le argomentazioni dell’Italia, mentre nel pomeriggio è in calendario la replica indiana. Lo stesso ordine sarà seguito il giorno dopo. In base all’articolo 1 del regolamento procedurale, si legge, «l’India ha risposto per iscritto alla richiesta italiana il 26 febbraio». Lo scorso 11 dicembre il team della difesa italiana aveva presentato una domanda alla Cpa per “misure provvisorie” concernenti il rientro di Girone e la sua permanenza in Italia per tutta la durata del procedimento arbitrale.

I Marò sono sempre più soli!





Monselice, 2 marzo 2016.  
Quatto anni di silenzi, di domande e di mancate risposte. Quattro anni di profonda e ripugnante vergogna, ingiustizie nelle azioni da parte di due Stati, l' Italia e l' India, che quasi sembra radicato addirittura una sorta di dileggio da parte di quest'ultimo Paese nei confronti di uno Stato occidentale che con l' India ha solo e forse avuto la "colpa" di occupare piccoli spazi di qualche migliaio di prigionieri militari italiani, durante la seconda guerra mondiale. Se fosse così è talmente puerile e ridicolo il pregiudizio che l' India avrebbe nei nostri confronti, che la stessa storia, se avesse un'anima, si ribellerebbe persino!

Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono prigionieri di un paradossale complotto diplomatico, a mio avviso, con un pretestuoso inganno su cui aleggia, per azioni commesse, dove purtroppo ci sono di mezzo dei morti, uno scenario assurdo, fatto di carte, vertenze legali infinite, tribunali e processi inesauribili!
E' una brutta storia questa vicenda, perchè è una situazione che non ha un senso. Sono passati quattro anni e questi poveri militari di Marina sono avvitati a fallimenti di burocrazie incrostate ad un sedime di tanta omertà. Si sono viste schiene girate da entrambe le parti, fin troppe e questa vicenda è destinata a raggiungere, se andrà bene, i sei anni, fino al 2018, da quando, maledettamente, è iniziata questa sciagurata avventura, soltanto quando l' Alto arbitrato internazionale, forse, potrà mettere la parola fine.
Violando tutti i principi cardini di una difesa leggittima di questi due militari, invischiati in una vicenda, a mio avviso più grossa di loro, fin'ora nessuno ha pagato, io dico per loro. Purtroppo spiace confermare quanto l'imbarazzo sia tale da parte delle stesse televisioni pubbliche che, prese da altre situazioni molto gravi, fenomeni sociali, soprattutto, a cui i governanti, anche di altre Nazioni, tentano di trovare una giusta strada per uscire da situzaioni disastrose, non si occupano più dei nostri fucilieri di Marina e, nel frattempo, a nessuno è stato "presentato il conto" per saldare un grande debito, una lacuna, più appropriatamente, una voragine.

C'è un silenzio che stramazza al suolo che è impressionante, non so se per indifferenza, o perchè l'asse dei problemi si è spostata ad altre situazioni, per cui chi tace continua a farlo di fronte all'impotenza, senz'altro di una collettività nazionale che però è molto arrabbiata!

di Adalberto de' Bartolomeis - 2 marzo 2016

01/03/16

Parliamo di tutto tranne che delle cose serie


 


La maggioranza si è occupata per mesi di uteri in affitto, di unioni civili, di nomine in Rai, di canguri e lo ha fatto con dei metodi che, se fossero stati usati da altri, avrebbero suscitato moti di piazza con annesse agende rosse, petizioni dei soliti quattro costituzionalisti militanti e latrati alla volta degli autori di fantomatici editti bulgari. Invece qui siamo al cospetto di un governo quasi amico per cui va anche bene che si discuta dell’orrendo termine “petaloso” in quanto le armi di distrazione di massa non sono mai abbastanza ed il popolo ha bisogno di narrazioni cui attaccarsi visto che le cose serie sono noiose ed è bene, tra l’altro, che non se ne parli.
Adesso la ricreazione è finita e l’Unione europea nei prossimi mesi ci presenterà il conto dato che le cifre esposte da Renzi e Padoan fanno acqua da tutte le parti e la procedura di infrazione, salvo soluzioni politiche, è impietosamente dietro l’angolo. Il debito pubblico cresce al 132,4 per cento del Pil (portando il deficit al rialzo), il rapporto deficit/Pil viaggia verso il 2,5 per cento grazie ad una crescita che l’Ocse stima intorno all’1% (contro l’1,6% previsto dal Governo) ed all’appello mancherebbero circa 25 miliardi di euro per tamponare i buchi provocati da un’armata brancaleone che, invece di bloccare gli sprechi, li genera e chiede per giunta ulteriori margini di flessibilità da utilizzare per distribuire qualche altro fotti popolo.
Mai che nessuno nomini la spending review, sparita dai discorsi di Renzi (e dalle pagine di una stampa completamente azzerbinata), perché altrimenti rischierebbe di diradarsi la nebbia entro cui il popolo italiano ha scelto di vivere abbandonandosi ai racconti quotidiani del presuntuosetto di Rignano e dei suoi paggetti col papi nella banca popolare. E ci volevano proprio le parole del Presidente della Corte dei Conti per rompere l’incantesimo: la spending review è stata un parziale fallimento, ha detto con tono pacato ma lasciando trapelare dalla mimica facciale di volersi comportare come Ugo Fantozzi a proposito della Corazzata Potëmkin. Ma se fosse solo la revisione della spesa – con relativa moria di commissari succedutisi e dimessisi – ad essere un fallimento, ci si potrebbe anche stare. Qui invece parliamo di un più ampio sistema di riforme meramente annunciate (e per giunta brutte) a destare dei sentimenti che svariano dallo sdegno all’ilarità. Renzi appare in pubblico a parlare di Italia che cambia, che fa le riforme meritandosi il rispetto degli altri Paesi ma tutte le volte ci interroghiamo su quali diavolo siano questi cambiamenti a cui si riferisce: forse la riforma del Senato che non abolisce il Senato e che è subordinata ad un referendum (quindi inesistente)? Forse si riferisce all’abolizione delle Province, che non è un’abolizione ma una confusione senza precedenti? Premesso che per abolirle sarebbe necessaria una riforma costituzionale e che le competenze di tali enti non sono state ancora devolute alle Regioni (ed in alcuni casi alle Aree Metropolitane), va detto che le Province esistono ancora e buona parte dei dipendenti vaga spaesata senza sapere bene di cosa occuparsi e soprattutto con quali risorse.
Si tratta di una riforma incompiuta che ha come unico merito quello di aver cancellato 100 presidenti di Provincia, oltre 750 assessori e 3mila consiglieri (sono stati sostituiti da sindaci eletti dai sindaci), con un risparmio ridottissimo che incide solo per lo 0,9% (circa 100 milioni di euro). Per il resto siamo ancora all’istituzione di osservatori e Conferenze di servizi per il monitoraggio della riforma, mentre nel frattempo lo Stato si appropria delle entrate degli enti provinciali che, falcidiati dai tagli, continuano a fare debiti fuori bilancio per pagare le spese correnti, rasentando il dissesto e non assicurando alcun servizio (come ad esempio la manutenzione stradale). E tra un rimpallo burocratico e l’altro, i 550 centri per l’impiego restano appesi a questi enti territoriali evanescenti che si apprestano a costituire la cosiddetta “area vasta” in un sistema di confusione totale che moltiplica gli sprechi.
Intanto Gutgeld, l’ennesimo guru della spending review renziana, tace sull’argomento impegnato com’è a lanciare il nuovo slogan per placare gli animi nazionali che sono soliti infervorarsi al bar rigorosamente a cavallo tra una partita di calcio e l’altra. Adesso c’è la “turboriforma”, null’altro se non un nome ad effetto fatto apposta per far credere ai cittadini che il dimagrimento della macchina statale sia dietro l’angolo. La storiella del momento vorrebbe che delle 8176 (leggasi ottomilacentosettantasei) società partecipate dallo Stato Italiano, l’ultimo con una partecipazione statale degna dell’Unione Sovietica, un buon numero di carrozzoni possa essere abolito agevolmente.
Nessuno ricorda però che il provvedimento varato l’anno scorso, per abolirne 3570 di carrozzoni, fu mandato in vacca in Parlamento in data 31 ottobre 2015 nel silenzio più totale di un mondo politico che lo aveva dato per certo un attimo prima. Prevediamo che anche in questo caso si ciancerà ancora qualche giorno di turboriforme per poi mettere la turbomarciaindietro lasciando vivere questi pachidermi mangiasoldi ottimi per piazzare amici e politici trombati. D’altronde è la stessa finaccia che storicamente è toccata ai provvedimenti che si sono posti l’obiettivo di abolire i cosiddetti enti inutili. È dai tempi di Enrico Costa (ministro nel 1998) che si disegnano mappe dello spreco e soggetti pubblici da abolire. Costa fu il primo a contarne in maniera sistematica circa 500, anche se la prima generica legge per sopprimerli è datata 1956; da allora ogni tentativo è stato inghiottito nel vortice dei micro-emendamenti buttati lì nottetempo per tenerli in piedi arrecando un danno erariale di parecchi miliardi di euro. Ci provò anche il povero Calderoli (che ne contò addirittura 1612) ma invano visto che questi sopravvivono paffuti ed immobili articolandosi in enti sottoposti al controllo della Ragioneria generale dello Stato, enti controllati dal ministero dell’Economia, enti regionali, Enti controllati dai Comuni e via via sperperando. I nomi sono divertenti: si va dal Pio sodalizio Fornai, all’Opera Pia Bresciani in Roma, all’Ente per lo studio dei materiali plastici per i poteri di difesa dalla corrosione, all’Istituto per la conservazione della gondola e la tutela del gondoliere per finire con veri e propri carrozzoni come l’Arcus (società per lo sviluppo dell’arte), che nel 2014 ha fatto registrare uscite per 38 milioni di euro e 417mila euro di retribuzioni lorde. Qualcuno pensò bene di creare l’Iged, ovvero l’ente inutile nato per abolire gli enti inutili, costato 99 milioni dal 2000 al 2006, anno in cui se ne decretò l’abolizione. Fu veramente abolito? Che domande, in Italia non si butta niente. È stato solo accorpato nella Pubblica amministrazione sparendo nel porto delle nebbie.

di Vito Massimano - 01 marzo 2016
fonte: http://www.opinione.it

29/02/16

Il progresso è un cinico pifferaio magico



C’era una volta un pifferaio che si presentò nella città di Hamelin, in Bassa Sassonia, e si offrì di disinfestarla dai ratti. Il borgomastro accettò la sua proposta e gli promise un adeguato compenso se ci fosse riuscito. L’uomo incantò i topi con il suono del suo piffero e li attirò fino a un fiume, dove si tuffarono e annegarono. Ma quando reclamò la ricompensa, gli abitanti di Hamelin non lo pagarono. Allora, si vendicò. Mentre gli adulti erano in chiesa, il pifferaio ricominciò a suonare nelle strade della città e attirò a sé tutti i bambini, che lo seguirono in campagna fino a una caverna, dove furono segregati e morirono. Questa storia, che ha fondamenta storiche ed è stata tramandata con diverse varianti, ispirò la celebre fiaba dei fratelli Grimm. A mio parere, è più che mai attuale e suggerisce molteplici interpretazioni grazie alle sue allegorie. Mi piace pensare che il progresso sia il pifferaio di Hamelin dei nostri tempi. Il suono del suo flauto è piacevole, seducente, trainante. Ma è anche infido.
In primis, cos’è il progresso? La sua etimologia ne chiarisce il significato; il termine deriva dal verbo latino progredi, che significa “andare avanti”. Come chiarisce la Treccani, per progresso intendiamo l’avanzamento verso gradi o stadi superiori dell’evoluzione, un perfezionamento e quindi una trasformazione graduale e continua dal bene al meglio. L’idea di progresso umano non è sempre esistita. Nell’antichità gli esseri umani concepivano la storia come una fuga dall’età dell’oro, l’era dell’uomo primigenio, quasi perfetto. Gli antichi, vivevano in un’epoca di regresso e cercavano di fermare la decadenza. Anche in Oriente, dove vige l’idea che la storia non sia lineare ma circolare, come le stagioni, i saggi pensano che il progresso sia solo apparente, giacché l’uomo torna sempre al punto di partenza. Il concetto di progresso così come lo conosciamo nasce con la rivoluzione cristiana, debitrice di quella ebraica, ed è strettamente collegato alla visione del tempo e della storia, considerata un susseguirsi di eventi che procedono in avanti, all’infinito, come i punti di una retta. Il cristianesimo ha sublimato questo cammino introducendo l’escatologia, che si pone la salvezza come capolinea. A rendere più solida e definitiva questa visione hanno contribuito – ironia della sorte – la filosofia moderna e l’illuminismo (con l’eccezione di Rousseau), la rivoluzione industriale e la scienza. 
Ma torniamo ab ovo. È innegabile che il fil rouge della storia dell’umanità, così come ci è stata raccontata, è l’evoluzione continua, auspicabile e inarrestabile. Dal secondo dopoguerra in poi abbiamo vissuto un’accelerazione sconvolgente, che ha cambiato la vita sul pianeta. Se penso a com’era il mondo ai tempi dei miei nonni e com’è oggi, e se provo a immaginare come sarà quando i miei nipoti saranno vecchi, sbalordisco. Nello stesso tempo, però, inorridisco. Sì, avete capito bene. Il progresso di cui sono spettatore attonito non mi piace. Mi fa paura e non pensiate che io sia un laudator temporis acti, un retrivo. Sono solo spaventato dal fatto che il progresso è un pifferaio magico il cui richiamo cela grandi insidie. Per quanto oggi viviamo meglio di un tempo, grazie al benessere, alle conquiste tecnologiche, alla facilità delle comunicazioni e dei trasporti, ai benefici della ricerca scientifica, ai vantaggi che le società civili assicurano ai cittadini, è anche vero che non abbiamo riconosciuto il dovuto al pifferaio. Ci siamo rifiutati di pagarlo con l’unica moneta spendibile: l’adeguamento antropologico. Ci siamo dimenticati, o forse rifiutati, di progredire dal punta di vista umano, animico, spirituale. Ci siamo accontentati di migliorare sul piano socio-economico e materiale, come se nella vita contassero solo i soldi, il comfort, il potere, il divertimento, il benessere corporale. Esaltati dalla faccia grassa del progresso, abbiamo scordato che la ricchezza autentica è interiore, il vero benessere è basato sull’armonia, la reale autorità è la disciplina esercitata su noi stessi. Siamo progrediti, certo, ma quale prezzo stiamo pagando al pifferaio magico? La nostra rincorsa evolutiva ha comportato perdite immense e perciò rimpiango il tempo in cui eravamo meno progrediti ma più saggi. La società odierna ha sacrificato i valori portanti, gli ideali, le certezze, i principi funzionali in nome di un falso progresso: il progressismo. Ecco perché non sopporto i progressisti; mentre fissano il futuro con “occhi di bragia”, come direbbe il Divin Poeta, calpestano il passato, convinti che sia immondizia, e vivono il momento presente con la foga di che vorrebbe dargli fuoco. In pochi decenni, la furia iconoclasta che ha come fine l’innovazione a tutti i costi – dietro cui si cela la sete di potere e di dominio delle masse, oltre all’avidità basata sul massimo profitto – ha modificato l’asse terrestre, sia sul piano del pensiero sia su quello del comportamento. Dopo avere scardinato i perni umani avanziamo come folli verso un mondo dove l’individuo non conta più nulla, è soggetto alla legge dell’usa e getta, brancola nel buio privo di fiaccole. In nome del progresso, coloro che conducono verso il fiume o la caverna un’umanità fatta di topi che squittiscono senza più comprendersi fra loro, ci hanno privato delle sovranità nazionali, delle sicurezze economiche e sociali, del diritto al lavoro e più in generale della giustizia, dei principi morali, dei caposaldi come la fede e la famiglia, della fiducia nel futuro. Hanno usato le armi della tecnologia (telefonini, computer, televisione, ecc) per atrofizzare il nostro cervello, controllare ogni nostro passo e acquisto, renderci imbelli, dipendenti e schiavi del sistema. La soggettività è stata rasa al suolo, l’iniziativa privata ostracizzata. Le nostre idee non sono originali e creative, sono surrogati che ci vengono inculcati. I nostri bisogni sono falsi, la nostra capacità di reazione nulla. Quando sento dire che stanno maturando i tempi per una rivoluzione, sorrido. Per fare la rivoluzione bisogna avere idee, forza e coraggio. Parlo di merce rara, forse esaurita. 
La mia diffidenza verso il presunto progresso è cresciuta a dismisura e rifletto sui moniti di alcuni grandi pensatori. Pascal, ad esempio, diceva che “tutto ciò che non si perfeziona col progresso peggiora a causa del progresso”. Ognuno può valutare che cosa sia migliorato e cosa sia peggiorato nella sua vita grazie o a causa del progresso. Mazzini ammoniva che “il vero strumento del progresso dei popoli sta nel fatto morale”. Bè, non serve sottolineare che l’etica è crollata e che stiamo agonizzando sotto le macerie, vittime delle forti scosse telluriche del relativismo. Il seducente ma cinico pifferaio magico ci ha offuscato con grandi miglioramenti tecnologici e non solo. Il suono del suo flauto ci ha ipnotizzato, privandoci della capacità di critica e mutilando la coscienza. Siamo alienati ma sazi di canali televisivi e web, optionals e app che ci illudono di stare nella stanza dei bottoni, mentre stagniamo nel fondo del pozzo.
Allegri, però, avanziamo verso il baratro a una velocità inimmaginabile fino a poco tempo fa, godendo di mille vantaggi e gadgets ludici! Vuoi mettere vivere la fine dell’umanesimo in 3HD, interfacciandoci con i membri di una nuova famiglia allargata e multietnica, mentre il pianeta esaurisce le sue risorse e l’Agenzia delle Entrate ci impone di pagare la tassa sull’apocalisse? 
 
Giuseppe Bresciani - 27 febbraio 2016

IL SEQUESTRO DEI FUCILIERI DI MARINA LATORRE E GIRONE - ASPETTANDO IL RIENTRO DI GIRONE E …...... NIENTE ALTRO






29 Febbraio 2016
Stefano Tronconi

Nel lungo post di settimana scorsa (mi scuso per la lunghezza dei miei scritti, ma è purtroppo una quasi inevitabile conseguenza della complessità della vicenda) ho cercato di spiegare come ed in che termini sia possibile guardare con qualche ottimismo agli sviluppi attesi per le prossime settimane.
In considerazione tuttavia del sempre minore interesse che rilevo per quanto vado scrivendo sulla vicenda, mi sembra ormai inutile continuare con ulteriori approfondimenti.
Attenderò dunque anch'io le concrete novità sul campo previste, purtroppo, non prima di fine Marzo.
Anche perché il ricorso all'arbitrato internazionale ha incanalato la vicenda in un percorso pressoché blindato ed obbligato ed ha sostanzialmente messo fuorigioco (per la durata della procedura arbitrale) la strategia della rivendicazione dell'innocenza dei due fucilieri di marina.
Rivendicazione dell'innocenza che io avevo sempre vanamente sostenuto come esigenza prioritaria, anche contro l'opinione della quasi totalità dei cosiddetti 'esperti' che hanno invece sempre spinto verso l'arbitrato sulla titolarità della giurisdizione.
Il ricorso all'arbitrato internazionale sulla giurisdizione, come purtroppo è apparso chiaro nell'ultimo anno ed in particolare dopo il verdetto del Tribunale del Mare di Amburgo dello scorso Agosto, ha lasciato nella mani dell'India ogni decisione sui tempi del rientro di Salvatore.
Speriamo dunque che la prossima occasione sia quella buona in cui governo e Corte Suprema indiani si muovano in modo coordinato per favorire il rientro di Salvatore.
Speriamo che il gruppo poltico-criminale indiano che ha sequestrato Girone e Latorre non riesca a trovare nuovamente il modo di mettersi di traverso.
E speriamo che il governo e le istituzioni italiane non combinino altri 'pasticci'.
So che è desolante doversi ridurre a tali 'speranze' per ottenere il rientro in Italia di Salvatore Girone, un soldato sequestrato mentre era in servizio per lo Stato italiano, vittima di accuse inventate e del tutto innocente.
Ma purtroppo questa è l'Italia di oggi. Paese, sì patria di Macchiavelli, ma Paese ormai da decenni nelle mani di Azzeccagarbugli vari e sempre più orfano di ogni traccia di intelligenza e capacità operative a livello politico e diplomatico.

fonte: https://www.facebook.com/stefano.tronconi.79?fref=ts

IL SEQUESTRO DEI FUCILIERI DI MARINA LATORRE E GIRONE - ASPETTANDO IL RIENTRO DI GIRONE: L'ARBITRATO MANCATO DELL'ITALIA E QUELLO DETTATO DALL'INDIA.






22 Febbraio 2016
Stefano Tronconi

Come promesso, il commento di questa settimana prende spunto dalle dichiarazioni, suonate a molti come inaspettate, sconcertanti e sconfortanti, rilasciate dalla prof. Angela Del Vecchio nel corso del Progarmma 'Voci del mattino' andato in onda su RaiRadio1 lo scorso 16 Febbraio.
In particolare la Del Vecchio ha sostenuto che:
1) c'è da aspettarsi che Girone debba restare in India fino al pronunciamente di merito del Tribunale Arbitrale previsto non prima di fine 2018;
2) quella dell'arbitrato internazionale fosse la scelta che l'Italia avrebbe dovuto fare nel 2013.
Per giungere alla stessa conclusione da me già espressa a caldo Mercoledì scorso secondo cui non ritengo verosimile la prima affermazione fatta dalla professoressa (cioè che a Girone non sarà concesso di rientrare in Italia per tutta la durata dell'arbitrato) partirò quest'oggi dalla seconda affermazione ripercorrendo in tal modo anche un po' della storia della vicenda Marò.
Nel corso dei quattro anni trascorsi vi sono certamente stati dei momenti in cui l'Italia avrebbe dovuto e potuto scegliere la strada dell'arbitrato internazionale.
La prima e principale occasione in cui l'Italia avrebbe dovuto avviare un arbitrato internazionale (oltre ad avviare varie altre azioni) cadde sicuramente tra il 15 ed il 19 Febbraio 2012.
Erano i giorni in cui l'India rivendicava con prepotenza la custodia di Latorre e Girone che, per quanto bloccati nel porto di Kochi, ancora si trovavano sulla Enrica Lexie e quindi in territorio italiano.
Invece fu proprio la scelta italiana compiuta il 19 Febbraio di non pretendere un arbitrato e consegnare i due fucilieri di marina nelle mani della polizia del Kerala il momento culmine della capitolazione dell'Italia.
A differenza di quanto avvenuto con il rientro nel porto di Kochi che fu il risultato di un clamoroso errore di valutazione dovuto a pressapochismo e superficialità, quella del 19 Febbraio fu una scelta compiuta a mente fredda e quindi di una gravità inaudita in quanto con essa lo Stato italiano rinunciava ad esercitare la propria giurisdizione su due suoi militari in servizio.
La seconda occasione per pretendere/ricorrere ad un arbitrato internazionale fu offerta dalla stessa India all'Italia nel Dicembre 2012 in occasione del rientro concesso a Latorre e Girone per le Feste di Natale.
Era il momento in cui all'interno del governo indiano si confrontavano due fazioni in contrapposizione tra loro (da un lato quella guidata dal ministro della Difesa, Antony e dall'altro quella guidata dal ministro degli Esteri, Kurshid) e lo stesso avveniva all'interno del collegio della Corte Suprema dove le opinioni dei giudici Kabir e Chelameswar non coincidevano causando un continuo rinvio della sentenza sulla titolarità della giurisdizione.
Se in quell'occasione avesse avviato la controversia internazionale trattenendo i due fucilieri in patria ed invocando l'arbitrato, l'Italia sarebbe venuta meno alla parola data ad una Corte di grado inferiore (quella del Kerala) mentre la questione della titolarità della giurisdizione era ancora 'sub-judice', e quindi non definita, presso la Corte Suprema. L'impatto in India sarebbe quindi stato assai meno devastante.
Purtroppo i vertici italiani del tempo non furono assolutamente capace di interpretare correttamente il contesto indiano e fecero rientrare Girone e Latorre in India confidando nella Corte Suprema indiana ed allo stesso tempo costringendo tale Corte ad esprimersi.
A quel punto, benché ne dica la prof.ssa Del Vecchio, la possibilità per l'Italia di intraprendere la strada dell'arbitrato internazionale finì davvero in soffitta perché nel Gennaio 2013 la Corte Suprema indiana (a cui si era rivolta l'Italia stessa) depositò la propria sentenza che, per quanto farcita di contraddizioni e di compromessi (frutto delle diverse opinioni dei giudici Kabir e Chelameswar), stabiliva che la titolarità della giurisdizione spettasse all'India salvo che una corte speciale indiana non dovesse successivamente stabilire in modo diverso.
Quasi a compensare una tale decisione, devastante per l'Italia, il Presidente della Corte Suprema dopo poche settimane concesse una licenza ai Marò di ben quattro settimane quasi come gesto di buona volontà riparatrice. E a quel punto successe il patatrac!
La decisione dell'Italia di comunicare l'intenzione di non rispettare i termini di rientro, che aveva invece rispettato solo due mesi prima, fu vissuto in India come il più grave degli insulti e dei tradimenti possibili.
Ma come? L'Italia aveva rimandato in India i due soldati due mesi prima per un impegno preso con una Corte di rango inferiore ed ora veniva meno alla parola data ad una delle più alte istituzioni del Paese? Un comportamento assolutamente demenziale e schizofrenico agli occhi non solo dell'India, ma di tutto il mondo.
Certo, una volta comunicata la decisione di non far rientrare i due soldati una tale decisione l'Italia avrebbe dovuto tenerla ferma pur nella consapevolezza che ciò avrebbe causato una crisi diplomatica, politica ed economica senza precedenti tra i due Paesi. E l'Italia avrebbe a sua volta dovuto denunciare tutti gli sgarbi istituzionali ricevuti dall'India. Ma non raccontiamoci palle: altro che arbitrato nel 2013, sarebbe stata una gravissima crisi tra i due Paesi dalle conseguenze imprevedibili!
Invece, e questa è storia ben conosciuta, l'Italia riuscì a rimangiarsi una seconda volta la parola (questa volta data ai due fucilieri di marina) con il risultato che al loro rientro sugli sfortunati Girone e Latorre ricaddero non solo le false accuse dei politici e delle associazioni dei pescatori del Kerala, ma divennero loro stessi i capri espiatori sulle cui spalle far ricadere l'ira e la punizione meritata dall'Italia per il disprezzo mostrato verso l'India.
Nel 2013 la situazione si deteriorò a tal punto da lasciare spazio solo ad un durissimo muro contro muro!!
A questo punto si può accellerare nel riavvolgimento del nastro e ricollegarsi con gli sviluppi del 2015 che hanno portato invece all'accordo di avviare l'arbitrato internazionale.
Nel Maggio 2013 viene portata in televisione la ricostruzione dell'innocenza realizzata da Toni Capuozzo, Luigi Di Stefano e lo scrivente.
Il governo italiano purtroppo non la sposa per non indispettire ulteriormente il governo indiano e tutelare i vertici politici e militari italiani responsabili del sequestro di Girone e Latorre.
Il governo indiano non sa più che pesci pigliare rispetto al processo ai due fucilieri di marina, ma ritiene che l'India debba comunque dare una lezione all'Italia per l'affronto subito dalla propria Corte Suprema.
In ogni caso l'India può permettersi di lasciare i due Marò nel limbo in quanto l'Italia con la coda tra le gambe non esercita alcuna pressione.
La linea del governo indiano cambia con l'elezione di Narendra Modi nel Maggio 2014 e il nuovo governo assume una posizione non più 'ostile', ma semplicemente 'indifferente' rispetto alla risoluzione del caso lasciando che sia la Corte Suprema indiana ad assumere ogni decisione sul caso.
Tale posizione favorisce il rientro in Italia di Latorre durante la Presidenza del giudice Lodha alla Corte Suprema, ma poi le cose cambiano di nuovo drasticamente in peggio per l'Italia con la nomina alla Presidenza del giudice Dattu, politicamente vicino agli esponenti del Partito del Congresso del Kerala. (avvenuta nel Settembre 2014).
E' a seguito di questa nuova impasse che nel 2015 il governo indiano apre all'arbitrato internazionale come soluzione utile a guadagnare altro tempo per arrivare alla scadenza della presidenza Dattu ed al tempo stesso a mettere la sordina alla vicenda.
La novità non è stata infatti che dopo oltre tre anni di parole vuote in tal senso l'Italia abbia nel 2015 dato l'avvio all'arbitrato internazionale.
La novità è stata che il governo indiano abbia radicalmente cambiato la propria posizione ed accettato tale arbitrato dando così il segnale di voler mettere la crisi tra i due Paesi alle spalle, pur indicando chiaramente di voler mantenere il controllo sui tempi e sui modi di uscita dalla crisi stessa.
Ora che alla Presidenza della Corte Suprema il giudice Dattu è stato sostituito dal giudice Thakur, ora che il Tribunale del Mare ha legittimato i comportamenti dell'India a partire dal Febbraio 2012, ora che il Tribunale Arbitrale ha definito un calendario dei lavori per la definizione della titolarità della giurisdizione che equivalente ad una pietra tombale sull'accertamento della verità per anni a venire, il governo indiano non ha più nessuna ragione per prolungare ulteriormente la permanenza di Girone.
Infatti che Girone (come Latorre) sia innocente il governo indiano lo sa benissimo. E nel frattempo l'Italia è stata umiliata a dovere per il suo comportamento del 2013.
Cosa ha infatti ottenuto l'Italia avviando nel Giugno 2015 l'arbitrato internazionale sulla giurisdizione? Ha ottenuto di rinunciare a mettere al centro della discussione la questione reale e concreta dell'innocenza di Girone e Latorre, su cui non avrebbe potuto che prevalere, a favore di un confronto sulla titolarità della giurisdizione tra i due Paesi dall'esito tutt'altro che scontato.
L'Italia ha scelto di uscire umiliata e perdente agli occhi del mondo pur non essendo il crimine di cui sono stati accusati i suoi militari mai stato compiuto.
In altre parole, la scelta di avviare l'arbitrato internazionale nel Giugno 2015 è stata una scelta degna del miglior Tafazzi. Ma quella era diventata la soluzione migliore per l'India che potrà così evitare troppi imbarazzi per i crimini commessi da alcuni suoi uomini ai vertici politici, militari e della magistratura.
Come ho scritto Venerdì scorso, non sarà certo la Corte Arbitrale (dove tra i giudici la posizione indiana potrà contare sulla stessa solida maggioranza già vista al Tribunale del Mare) ad assumere una qualsiasi decisione sgradita all'India in merito al rientro di Salvatore Girone.
La decisione riguardante il rientro di Salvatore dovrà innanzitutto trovare la non-opposizione del governo indiano (e, fatti salvi i sempre possibili imprevisti, non vi è ragione per cui a questo punto non la debba trovare) e ricevere la sanzione della Corte Suprema indiana (e, di nuovo fatti salvi i sempre possibili imprevisti, non vi è più ragione perché non la debba ricevere). E questo potrà a questo punto avvenire in Aprile o subito dopo lo svolgimento delle elezioni in Kerala.
Tutto il resto che raccontano oggi i politici italiani, o i cosiddetti esperti che li hanno fiancheggiati in questa vicenda, o quanto si legge sulla stampa italiana è ormai solo fumo negli occhi con cui si provano a coprire i clamorosi errori che si sono fatti per quattro lunghi anni.
E la consapevolezza storica di quanto avvenuto continua a latitatre alla grande come hanno dato ad intendere anche le ultime dichiarazioni della prof.ssa Del Vecchio.

I BAMBINI HANNO DIRITTI MA NON SONO UN DIRITTO





fonte: https://www.facebook.com/Nelle-Note-Testimonianze-1677560255856807/?fref=ts

28/02/16

Gli “strani amori “ di Matteo Renzi




Cosa lega l’approvazione della legge sulle Unioni Civili, riscritta dopo l’accordo con i “centrini” di Angelino Alfano, l’esultanza scomposta di Denis Verdini per l’ufficializzazione dell’entrata della sua soldataglia parlamentare nella maggioranza di governo, la visita di un incazzato Jean-Claude Juncker a Roma e il precipitare della crisi in Libia? Risposta: la paura di Matteo Renzi di non farcela a reggere la situazione. Lo spavaldo cialtrone che abbiamo conosciuto in questi due anni di potere usurpato annusa il cambiamento di un clima che prima gli è stato favorevole e ora inizia a perturbarsi minacciosamente.
Non è che tutti i disastri italiani siano opera sua, tuttavia l’aver voluto nascondere le magagne di un paese alla deriva sotto la coltre di una narrazione trionfalistica e arrogante di successi mai conseguiti ha fatto di lui un personaggio inaffidabile. Per descrivere l’uscita del giovanotto dell’età dell’innocenza si potrebbe mutuare il paradigma di Alberto Arbasino: Matteo Renzi è passato dalla categoria “brillanti promesse” a quella, più frequentata, dei “soliti stronzi”. Con tutta probabilità è ciò che di lui pensano in molti negli ambienti che contano, a cominciare dalle cancellerie dei paesi partner europei. Nessuno gli crede quando parla di risanamento della finanza pubblica e di spending review, nessuno vuole accordargli un solo euro in più di flessibilità sui conti e, quel che è peggio, non sono pochi coloro che lo ritengono, a causa dei comportamenti deliberatamente lassisti dell’Italia sul fronte dell’accoglienza, il principale responsabile della crisi migratoria vissuta dall’Europa. C’è poi il conto aperto con Parigi, per quella porta sbattuta in faccia a François Hollande nel momento nel quale il presidente francese chiedeva aiuto a Roma per combattere il terrorismo jihadista in Siria.
Gli alleati, dopo mesi nei quali hanno insistito all’inverosimile perché fosse l’Italia a gestire la crisi libica, si sono rotti le scatole e hanno deciso di agire militarmente col bel risultato che, ancora una volta, sarà il nostro paese a fare la parte del fanalino di coda. Altro che comando delle operazioni: ce lo possiamo scordare che francesi, inglesi, americani e tedeschi permettano al nostro governo di tenere il banco nello Chemin de fer giocato al tavolo libico. Se questo è il quadro, ha ragione il giovanotto a preoccuparsi per il suo futuro. Matteo Renzi sa bene che, in politica, la gloria, come la fortuna, ha la fragilità di una farfalla: svolazza qualche giorno e poi scompare. Anche dell’affollata schiera degli odierni fans, stipati nelle fila del Partito Democratico come a un concerto degli U2, non può fidarsi. La maggior parte di loro sono come certi vecchi soprabiti: buoni per tutte le stagioni. Un tempo erano veltroniani, poi sono diventati bersaniani, oggi sostengono di non potere non dirsi renziani, e domani?
Allora, secondo una collaudata pratica di saggezza: piuttosto che niente, meglio piuttosto. E il “piuttosto” della odierna politica è quell’accrocco di traditori che, eletti nel centrodestra, pur di restare al potere si venderebbero anche le mamme. E quale alleato migliore di questa rustica progenie di morti di fame per blindare il governo nel momento in cui si avvicina la tempesta perfetta? Con le due fave, Verdini e Alfano, Matteo Renzi fa strage di piccioni: porta a casa uno straccio di legge sui diritti degli omosessuali, puntella la maggioranza contro le voglie di sgambetto coltivate dall’opposizione interna al partito e, ciliegina sulla torta, si prepara a favorire lo shopping bancario dei suoi sponsor finanziari mediante l’approvazione di nuove norme sul credito. Cosa c’è di meglio di un Verdini o di un Alfano per allungarsi la vita? Perché, come cantava Laura Pausini, è così che sono fatti certi Strani Amori “…che fanno crescere/e sorridere tra le lacrime…”.


di Cristofaro Sola - 27 febbraio 2016