Il Paese che odia la propria libertàOra che il “Decreto Maduro”, altrimenti conosciuto sotto l’usurpato nome di “Dignità”, è stato approvato alla Camera, e sicuramente lo sarà anche al Senato – con o senza apposizione della fiducia – si possono fare alcune riflessioni sulla trasformazione dell’Italia in un Paese che sembra detestare, se non odiare, le proprie stesse libertà.
A cominciare da quella d’impresa che poi fornisce a tutti le premesse per un benessere e per un vero sviluppo. Fin dal dopoguerra – spesso con l’aiuto fattivo e un po’ maldestro degli Usa – il nostro Paese ha dovuto difendere i propri confini – reali, politici ed esistenziali – dai partiti come il Pci che, avendo all’epoca giurato fedeltà ai regimi comunisti e liberticidi come quello dell’Unione sovietica, facevano di tutto per attrarci in quell’orbita fatale. In quel buco nero fatto di gulag e miseria. Di stermini di massa e di epurazioni della borghesia. Non ci sono riusciti. Perché sia pure in maniera molto ingenua e inconsapevole la maggioranza dei votanti si fidava più dell’America che ci aveva salvati tutti, che dei “rossi” che nel frattempo si erano annessi con i carri armati tutta l’Europa dell’Est, compreso un pezzo di Germania. Nel secondo dopoguerra scegliere la libertà era una cosa ovvia e istintiva anche per chi non capiva nulla della politica e forse anche di altri settori dello scibile umano. A partire dall’economia. Le cose si sono complicate – e non poco – con la fine del comunismo, appena preceduta dal crollo del Muro di Berlino che ne era il simbolo più odioso.
Gli italiani, nel confuso desiderio di emanciparsi dagli Stati Uniti non si resero conto che si stavano – come per nemesi – cacciando in un cul-de-sac che è quello che oggi è sotto gli occhi di tutti. L’ansia di liberarsi di una classe dirigente democristiana vissuta e percepita alla stregua dei governatorati nelle ex colonie, e di un’intera dirigenza politica dei partiti e partitini laici, a loro volta vissuti e percepiti come “di complemento” alla stessa Democrazia cristiana, illuse lo stato maggiore dell’ex Pci, che nel frattempo aveva prudentemente cambiato nome, di poter contare sulla magistratura per “ripulire” il Paese.
Così nacque il progetto di “Mani pulite”, con l’accorgimento di fare un paio di modifiche legislative anche costituzionali perché la scelta fosse senza ritorno: aumentare a dismisura il quorum per varare nuove leggi di amnistia e indulto (quelle che i Radicali hanno sempre invocato come valvola di sicurezza di un sistema giudiziario e soprattutto carcerario mal funzionante da sempre) e abolire la famigerata commissione inquirente rendendo possibile, a qualunque pubblico ministero di provincia in cerca di notorietà, indagare su qualsivoglia politico di qualunque partito. Un suicidio che ha portato all’azzeramento di intere classi partitiche, di interi partiti e di ogni ricambio possibile all’interno di quel sistema. Promuovendo allo stesso tempo la nascita di partiti leaderistici, non democratici al proprio interno e pronti a ogni inganno per accaparrarsi voti e potere.
Tutto questo fino alla nascita dei partiti dell’antipolitica, ultima truffa intellettuale finora conosciuta, che adesso ci ritroviamo persino a governare. Mentre si compivano queste catarsi e queste palingenesi però, il Paese, che già aveva ereditato nel sistema giustizia l’assetto autoritario delle leggi speciali contro il terrorismo e la mafia, precipitava nel buco nero del circo mediatico-giudiziario. I processi, come durante la rivoluzione maoista, si facevano sulle piazze televisive e non nelle aule di giustizia. I pm, non i giudici si badi bene, venivano promossi a salvatori della patria e con il grido “onestà”, variante positivista del bracardiano “in galera!”, nascevano le formazioni politiche dell’antipolitica destinate a prendere il potere solleticando i più bassi e liberticidi istinti delle persone. Era il senso comune che prevaleva sul buon senso, per citare Manzoni all’incontrario.
Contemporaneamente, dal lato economico, le utopie pauperiste, comuniste e antilibertarie scacciate dalla porta nel dopoguerra grazie agli americani e alla tv a colori, rientravano dalla finestra attraverso le predicazioni di improbabili guru che appassionavano i giovani diseredati da vent’anni di crisi post-ideologica con il gioco del “vaffanguru”. E oggi se l’Italia rischia di diventare in pochi anni l’unico esempio – insieme al Venezuela – di un Paese prospero che decide di autoflagellarsi economicamente e socialmente, è proprio per quest’odio delle libertà, dell’individuo, della società, dell’impresa ed economiche in genere, che hanno sempre caratterizzato le vecchie ideologie collettiviste, nazionaliste e dello stato etico.
Ora che secondo alcuni non esiste più la destra e neanche la sinistra (e che chi lo crede vivrebbe con il cervello nel Novecento) si è ricompattata quella melma antiliberale che proprio nel Novecento trovò un punto di alleanza comune nel famoso patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop. Il nazionalismo socialista hitleriano e il collettivismo sovietico avevano più o meno gli stessi punti in comune che hanno oggi i due protagonisti del Governo giallo-verde in Italia. Odio verso il mondialismo, odio verso il liberalismo e il liberismo, disprezzo dell’individuo, esaltazione del ruolo dello Stato in tutto: dalla sicurezza all’economia. E con effetti prevedibilmente devastanti. Non nel brevissimo termine, forse, ma nel medio lungo sì.