La decisione del Tribunale Internazionale costituito presso la Corte
Permanente dell’Arbitrato dell’Aja di consentire il rientro in Italia
del Fuciliere di Marina Salvatore Girone, se confermata e resa
effettiva, sarebbe la prima vera buona notizia di questa vergognosa
vicenda che si trascina da oramai da più quattro anni.
Trattandosi di una buona notizia è subito arrivato, immancabile, il
tweet di Renzi (che in predenza si era tenuto ben lontano dal problema)
anche se è solo di recente che il suo governo, dopo avere pasticciato e
cincischiato come i precedenti, ha imbroccato la strada giusta, vale a
dire quella dell’arbitrato internazionale.
il Tribunale Internazionale ha preso una decisione 10 mesi dopo la
richiesta italiana di arbitrato a fronte dei 4 anni e due mesi
forzatamente trascorsi in India da Salvatore Girone.
Viene da chiedersi, quindi, come mai l’arbitrato sia stato richiesto
così tardi, visto che secondo il diritto internazionale era l’unica via
possibile, oltre che, come si è visto, la più efficace.
Per rispondere alla domanda, non si può fare a meno di ripercorrere
l’incredibile e vergognosa sequenza di errori, superficialità,
incapacità ed incompetenza che hanno caratterizzato la vicenda.
Una vicenda dalla quale la credibilità internazionale dell’Italia è
uscita a pezzi, come possiamo constatare anche nel caso, condotto in
modo altrettanto improvvisato e dilettantesco, della controversia con
l’Egitto per la tragica morte di Giulio Regeni.
Dei tre governi che hanno gestito, in modo sempre inadeguato, la
questione marò (salvo la recente ma pur sempre tardiva svolta di Renzi),
la poco invidiabile palma del peggiore va senz’altro al governo Monti,
principale responsabile dell’accaduto e dal quale sono state prese le
decisioni più vergognose nonostante, oltretutto, ministro della difesa
fosse proprio un Ammiraglio.
Una sequenza di errori e incompetenza che ha coinvolto tutta la
gestione, sia politica che tecnica, del problema, a cominciare dalla
sciagurata decisione di far rientrare la Enrica Lexie nel porto indiano
di Kochi sottovalutando, o non rendendosi conto, della situazione e
delle conseguenze apparse, però, immediatamente evidenti al momento
dell’attracco della petroliera.
Sul piano del diritto la questione sarebbe relativamente chiara:
l’incidente (ammesso che ne siano effettivamente responsabili i militari
italiani, il che non è del tutto certo) sarebbe accaduto in acque
internazionali, su una nave battente bandiera italiana (quindi
territorio italiano a tutti gli effetti) con (asserita) responsabilità
di militari nell’espletamento di doveri istituzionali e quindi quali
organi dello Stato, che in quanto tale ne deve rispondere, protetti da
immunità funzionale.
L’India, però, paese teoricamente “amico”, assume subito un
atteggiamento di grave prevaricazione: ignorando del tutto la
Convenzione sul diritto del mare del 1982, ratificata tanto dall’Italia
quanto dall’India, e non riconoscendo unilateralmente alcuna immunità
funzionale sequestra senza le necessarie formalità le armi di ordinanza
presenti sulla nave (proprietà del Governo Italiano) e arresta come due
comuni malfattori Salvatore Girone e Massimiliano Latorre con la pretesa
di processarli sul posto per “omicidio”.
L’inchiesta della Polizia del Kerala che segue, nella quale le
autorità italiane sono ammesse solo come “osservatori”, resta al di
sotto del livello minimo ammissibile di credibilità e serietà.
Basti dire che tutte le prove, dopo i sommari esami dei periti
locali, vengono distrutte: bruciato il peschereccio, bruciati i corpi
delle vittime, distrutti o scomparsi i proiettili, dei quali sarà
impossibile ricostruire le traiettorie. (Alcune palesi incongruenze
delle “perizie” indiane emergeranno proprio nelle udienza
dell’arbitrato).
Il governo Monti? incapaci e codardi
Di fronte alla condotta, apertamente ostile e non conforme al diritto
internazionale, dell’India il governo dei tecnici, male assistito dalla
diplomazia, sbanda incapace di trovare il bandolo della matassa e
subisce senza nessuna capacità di reazione.
La linea adottata è ondivaga e inconcludente: si contesta a parole la
giurisdizione indiana ma ci si costituisce nei relativi giudizi (il che
comporterebbe un implicito riconoscimento della sua legittimità), viene
offerto un risarcimento alle famiglie delle vittime (con implicita
ammissione di responsabilità) nel maldestro tentativo di ridurre la
tensione, si evitano accuratamente provvedimenti sul piano diplomatico e
ci si limita a cercare di mitigare le pretese della controparte che
pretenderebbe di imprigionare i due marò come delinquenti comuni in un
carcere locale, ottenendo solo di trattenerli in stato di fermo in una
guest house adiacente, mantenendo l’uniforme.
Purtroppo la questione si intreccia, nello stesso periodo, con una
brutta storia di elicotteri e bustarelle che coinvolge Finmeccanica e
alti funzionari indiani, forse corrotti per portare a casa un super
contratto, e il governo Monti, che evidentemente privilegia il senso
degli affari al senso dello Stato, non vuole indispettire la controparte
nella speranza di salvare il mega affare.
Naturalmente sarà un fallimento anche su questo fronte: l’India rispedirà al mittente gli elicotteri e si terrà i marò.
I rapporti economici con l’india sono comunque molto rilevanti e sono
fortissime le pressioni degli ambienti imprenditoriali per non fare
arrabbiare i potenziali clienti; non a caso la linea viene dettata più
dal Ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera che, come niente
fosse a crisi iniziata, guida delegazioni di imprenditori in cerca di
affari, che da quello degli Esteri Giulio Terzi di Santagata.
La questione subisce quindi una grottesca escalation nei meandri
della inaffidabile giustizia indiana che porta, a fronte della sempre
più colpevole impotenza del governo italiano, ad applicare
retroattivamente ai militari italiani una legge speciale antiterrorismo
che prevede addirittura la pena di morte.
Protagonista negativo di questa fase della vicenda è Staffan de
Mistura, diplomatico ONU nominato vice ministro degli esteri, che viene
incaricato di seguire il dossier con poteri speciali.
Ovviamente l’azzimato aristocratico italo svedese non sarà capace di
combinare niente se non ingarbugliare ulteriormente la faccenda in un
confuso ed inutile viavai tra Roma e Nuova Delhi mendicando inservibili e
fumose rassicurazioni sulla non applicazione della pena di morte ai
marò, come se la soluzione del problema fosse addolcire in qualche modo
l’atteggiamento di tribunali privi di giurisdizione.
Solo ad aprile del 2014 l’inconcludente personaggio sarà finalmente rimosso dal governo Renzi.
Nullo è anche il peso dell’Italia sul piano internazionale: nessun
alleato spende una parola, il segretario dell’ONU (sotto la cui egida
operava la missione anti pirateria dei nostri militari) Ban Ki Moon, se
ne lava elegantemente le mani e Lady Ashton, responsabile della politica
estera dell’UE, rilascia addirittura un comunicato in cui definisce
“contractors” (cioè guardie private) i nostri militari.
A quanto pare nessuno a Bruxelles era stato in grado di spiegarle che
si trattava di militari delle forze armate italiane che espletavano
compiti di istituto.
Si arriva così al punto più basso e vergognoso della vicenda: il 21
marzo 2013 il governo tecnico, oramai a fine corsa, annuncia che i marò,
rientrati temporaneamente in Italia, non sarebbero tornati in India.
La reazione indiana è violentissima: calpestando la Convenzione di
Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961, ai sensi della quale la
persona diplomatica è “inviolabile”, il governo indiano impone
all’ambasciatore italiano di non lasciare il Paese e dichiara di non
riconoscergli l’immunità diplomatica.
Un atto inaudito e senza precedenti che costituisce una gravissima violazione del diritto internazionale.
Il governo tecnico, però, invece di reagire si cala le braghe e senza
tanti complimenti rispedisce in fretta e furia i due sfortunati
militari in bocca al “nemico”.
Un episodio indegno che, come troppo spesso avviene nella storia
italiana, mette a nudo l’inadeguatezza di un’intera classe dirigente di
fronte a problemi seri che riguardano l’interesse nazionale.
Stando alla ricostruzione poi resa pubblica dall’allora ministro
degli esteri Terzi di Santagata (l’unico a dimettersi) sarebbero state,
ancora una volta, le pressioni esercitate da Corrado Passera in nome
degli affari a determinare il voltafaccia del governo nonostante le
solidissime argomentazioni giuridiche a favore della decisione di
trattenere in patria i marò.
Sta di fatto che la vicenda, oramai divenuta farsa, ebbe comunque
effetti disastrosi sulla credibilità italiana (il che non aiuta di certo
nemmeno gli affari) e che nessuno dei personaggi coinvolti ne uscì
bene.
Non Mario Monti, confermatosi così capo di un governo disastroso in
tutto; men che meno, soprattutto, l’Ammiraglio Giampaolo Di Paola,
ministro tecnico della difesa, che senza fare una piega consegnò i suoi
uomini anziché difenderli, adoperandosi affinchè tutto avvenisse nel più
breve tempo possibile e senza intoppi.
Nemmeno il comandante supremo delle Forze Armate, ovvero l’allora
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ebbe niente da dire
salvo chiedere ai marò di ubbidire agli ordini.
Anche buona parte della stampa nostrana fece le sua parte, sostenendo
incredibilmente la posizione dell’India: dai commentatori di sinistra
arrivarono editoriali di fuoco, intrisi di terzomondismo di maniera,
contro la decisione di “non rispettare i patti” trattenendo in Patria i
marò.
Francesco Merlo su Repubblica in un retorico editoriale intitolato
“L’onore perduto della democrazia” evocò addirittura l’8 settembre,
tuonando contro il disonore causato dalla “destra badogliana del tutti a
casa”, rivelando peraltro una conoscenza piuttosto confusa della
storia: la destra avrà tanti difetti ma non è mai stata “badogliana”
(casomai vittima del tradimento badogliano) e l’8 settembre può si
essere evocato nella circostanza, ma solo per descrivere l’ignavia dei
capi che, restandosene ben protetti, abbandonano i loro uomini
mandandoli allo sbaraglio.
Trascurando totalmente gli aspetti giuridici della questione (i
pareri degli organi competenti favorevoli alla decisione di trattenere i
militari salteranno fuori solo molto tempo dopo) nessuno si chiese che
valore potessero avere “patti”, in realtà un banale ricatto, stipulati
con un paese ostile ed inaffidabile che calpestava sistematicamente il
diritto internazionale, applicava norme penali retroattive comportanti
la pena di morte, revocava l’immunità diplomatica di un ambasciatore e
che finirà per trattenere illecitamente per oltre quattro anni un
militare straniero di un paese teoricamente amico senza essere mai stato
in grado di formulare un’accusa formale.
Archiviato il Governo Monti, la musica non cambia con Enrico Letta:
il ministro degli esteri Emma Bonino, sempre disposta a spendersi per le
cause più disparate, non muove un dito per Salvatore Girone e
Massimiliano Latorre, lasciati nelle mani degli Indiani e del confuso e
maldestro De Mistura.
Della Bonino sul tema si ricordano solo dichiarazioni di critica alla
decisione di imbarcare militari su navi civili, manco fosse la trovata
creativa di un ministro e non una legge dello Stato (DL n. 107 del 12
luglio 2011, convertito con L. n. 130 del 2 agosto 2011) approvata dal
Parlamento con voto bipartisan.
Arriviamo così al governo Renzi ed ai giorni nostri: dopo avere
pasticciato ancora un po’, il 17 dicembre 2014 viene richiamato
l’ambasciatore e, poco meno di un anno fa, si procede finalmente ad
attivare l’arbitrato internazionale, che avrebbe dovuto essere in realtà
la prima cosa da fare.
Vedremo nelle prossime settimane se la decisione del Tribunale
Arbitrale sarà rispettata o se, ancora una volta, le autorità indiane
decideranno di calpestare il diritto internazionale.
Il caso Regeni, un altro pasticcio
La stessa pessima ricetta, fatta di improvvisazione e superficialità, sembra ripetersi, mutatis mutandis, nel caso Regeni.
Una questione dai contorni ancora oscuri, che nessuno si preoccupa di illuminare, piena di domande senza risposta.
Qui il ministro Gentiloni, pressato da giornali ed opinione pubblica,
anziché trattare per canali riservati con un paese alleato in evidente
difficoltà, ha preferito la spettacolarizzazione ad uso interno,
lanciando minacce ed anatemi dai giornali e finendo per richiamare
prontamente l’ambasciatore.
Un atteggiamento che non avvicina, né avvicinerà, alla verità che,
con molta dignità, la famiglia del ragazzo sta giustamente chiedendo.
Il governo di Al Sisi ha reagito facendosi beffe dell’Italia,
rifiutandosi di collaborare e imbastendo improbabili ricostruzioni dei
fatti.
Questa volta il Governo Italiano, evidentemente preoccupato più di
una certa opinione pubblica interna che della situazione internazionale,
non ha voluto tenere conto delle implicazioni di scelte emotive e
superficiali: l’Egitto oltre ad essere un importantissimo partner
economico (basti pensare ai giacimenti di gas appena scoperti dall’Eni,
forse non estranei all’accaduto) è (o oramai era) il principale alleato
dell’Italia in un’area che il problema della Libia ha reso
incandescente.
La velleitaria ed inutile linea dura di Gentiloni & C. non solo
non ha ottenuto né otterrà niente per Regeni, ma ha compromesso
seriamente i rapporti con Al Sisi che non ha dovuto faticare per trovare
altri alleati.
La Francia, infatti, ha subito approfittato della situazione;
Hollande con una solenne visita di stato, celebrata in Egitto come un
avvenimento epocale, ha riempito il vuoto lasciato improvvidamente
dall’Italia riempiendo anche il portafoglio con ordini di armi e
forniture industriali per svariati miliardi.
Le conseguenze della maldestra politica estera del governo renziano
le vedremo presto in Libia dove gli interessi francesi saldati con
quelli egiziani stanno portando di fatto alla separazione di
Tripolitania e Cirenaica.
Qui l’uomo forte di Francia ed Egitto, rimpinzato di armi da entrambi
(1150 veicoli da combattimento sono appena arrivati dall’Egitto mentre
da tempo consistenti reparti francesi affiancano le milizie di Haftar)
ha quasi ultimato la conquista del territorio, smantellando i capisaldi
degli integralisti islamici, che ripiegano in Tripolitania, e dirigendo
verosimilmente l’attenzione verso il controllo delle installazioni
petrolifere, con le compagnie francesi pronte a sfruttare la situazione
ed a scalzare l’Eni, da sempre padrona del campo.
Secondo la ministra Pinotti (intervistata a Porta a Porta) non
esisterebbero problemi del genere: il governo francese e il generale
Haftar avrebbero assicurato di non avere mire sulla Cirenaica e di
appoggiare il governo fantasma di Serraj.
La realtà è ben diversa: non esiste nessuna possibilità che Haftar,
oramai padrone della Cirenaica, armato sino ai denti da Egitto e Francia
e prossimo a mettere le mani sui proventi del petrolio si sottometta al
debole governo di Serraj, privo di qualsiasi autorità effettiva, al
momento incapace controllare anche solo alcuni quartieri di Tripoli e di
uscire dalla base militare in cui è rintanato.
La spartizione della Libia e la perdita della Cirenaica a favore del
duo Francia/Egitto sembrano oramai, se non già un fatto compiuto,
inevitabili.
Vedremo cosa ci racconterà la Pinotti quando succederà, o magari aspetteremo il tweet di Renzi.
5 maggio 2016
fonte: http://www.destra.it