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n Iraq, dove la democrazia è stata calata dall’alto, le brigate jihadiste dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), ora piú semplicemente Stato Islamico,
 stanno mettendo a rischio la stabilità del Paese tra lo stupore — e 
l’impotenza — della comunità internazionale. A tre anni dal ritiro delle
 truppe statunitensi, dunque, ci accorgiamo che a Bagdad la guerra non è
 mai finita: ha solo cambiato protagonisti e bersagli. Partiamo da un 
fatto: lo scontro civile tra le forze governative e le milizie 
terroriste attive nel Paese ha fatto 7.000 morti nell’ultimo anno e quasi 1.500 solo nello scorso gennaio. A una prima analisi, il collasso dello Stato iracheno sarebbe essenzialmente legato a tre concause: il conflitto in Siria,
 le politiche discriminatorie d’al-Maliki e il ritiro dei soldati 
statunitensi alla fine del 2011. Questa lettura è utile per inquadrare 
il contesto in cui l’ISIS sta operando; ma, per comprendere perché in 
Iraq le cose vadano cosí male, bisogna salire piú in alto, per osservare
 le dinamiche in corso nell’intera regione mediorientale.
L’ISIS è un gruppo jihadista ma non qaedista: lo scorso anno, ha rotto i rapporti con al-Zawahiri; ma è, di fatto, il nuovo punto di riferimento per i fondamentalisti
 del Levante. Non è nato solo per combattere, ma per vincere e restare 
sul territorio in modo strutturato: lo dimostra non tanto la recente 
proclamazione del califfato a cavallo tra Iraq e Siria, quanto l’accordo col Fronte al-Nusra
 (o almeno con la sua fazione attiva al confine coll’Iraq). È ancora 
presto per stabilire se si tratti d’un accordo destinato a durare o solo
 d’una mossa tattica di breve periodo; ma, se effettivamente le due 
formazioni avessero stretto una joint venture coll’intero gruppo al-Nusra, si potrebbe dire che l’ISIS ha sostituito (o quasi) al-Qaida come gruppo di riferimento per il fondamentalismo sunnita.
Fin qui, le cose che sappiamo. Quelle che invece non sappiamo si riassumono in alcune domande semplici e tuttavia dalle risposte complesse. Chi ha dato ad Abu Bakr al-Baghdadi,
 comandante dell’ISIS, i milioni di dollari necessari per equipaggiare e
 armare i 10.000 uomini ai suoi ordini? Come ha fatto la sua formazione 
ad acquistare cosí tanto potere in cosí poco tempo? E perché proprio 
ora? In altre parole, quale regía si nasconde dietro gli ultimi 
avvenimenti in Iraq? Per rispondere, dobbiamo prima volgere uno sguardo a
 ciò che accade in Siria e nella complessa trama di rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita,
 e poi risalire indietro fino al 2003, quando l’America decise 
d’invadere Bagdad. Il collasso iracheno, come vedremo, è solo la punta 
dell’iceberg.
Il triangolo America – Arabia Saudita – Siria
Iraq e Siria condividono un confine lungo qualche centinaio di chilometri, che corre essenzialmente lungo il territorio d’al-Anbar.
 Si tratta della piú ampia delle province irachene: s’estende dai 
sobborghi di Bagdad ai confini statali con Arabia Saudita, Giordania e 
appunto Siria. È passando da qui che, negli anni dal 2003 al 
2008, i gruppi fondamentalisti provenienti da ogni dove accorrevano 
verso il suolo iracheno, in richiamo alla crociata contro le forze d’occupazione USA. L’ISIS sfrutta quelle stesse reti di comunicazione e trasporto per sferrare le proprie offensive verso est, usando la Siria come retrovia.
Già, la Siria. Oggi, del conflitto siriano non si parla quasi piú: con la vittoria d’Assad
 alle urne, per molti quasi un preludio a quella sul campo, Damasco pare
 uscita dagli schermi radar dell’Occidente; ma non certo da quelli 
dell’Arabia Saudita, principale sostenitore finanziario, militare e 
logistico delle milizie anti-Assad.
Negli ultimi sei mesi, le relazioni tra 
Riyad e Washington si sono inasprite proprio a causa della guerra ombra 
che la petromonarchia sta combattendo in Siria al fianco dei ribelli. In
 un incontro privato di qualche tempo fa, il Segretario di Stato 
americano John Kerry ha avuto un duro scontro col principe Bandar bin Sultan, capo dell’intelligence
 saudita dal 2012 ed ex ambasciatore saudita a Washington: Kerry 
accusava i sauditi d’«aiutare troppo» i miliziani; Bandar accusava 
l’America di non «aiutarli abbastanza». In febbraio s’è saputo che il 
principe Bandar, pur rimanendo a capo dei servizi segreti, non era piú 
responsabile della politica saudita a Damasco, sostituito dal ministro 
degl’Interni Mohammed bin Nayef, piú filoamericano di Bandar e 
conosciuto per la sua campagna contro al-Qaida nella penisola arabica. 
Teniamo a mente questo fatto, perché ci torneremo sopra.
Certi cambi della guardia ai vertici 
delle gerarchie militari — frutto delle complesse e oscure relazioni in 
seno alla famiglia reale — sono abbastanza frequenti nel regno saudita, e
 ciascuno di essi comporta sempre dei riflessi piú o meno marcati nei 
rapporti con le reti jihadiste internazionali. Negli ultimi mesi, ad 
esempio, Riyad sta usando il pugno di ferro
 contro i suoi cittadini che si recano in Siria a combattere nelle 
formazioni jihadiste o che le sovvenzionano dall’interno del regno, e 
ciò proprio in coincidenza dell’avvento di bin Nayef. Eppure sappiamo 
che, dal punto di vista saudita (e qatarino), la rivoluzione contro 
Assad non è stata che una strategia di destabilizzazione che, 
all’iniziale sollevazione di folle pacifiche, ha rapidamente sostituito 
la furia di formazioni radicali, armate, addestrate e finanziate da 
ricche e generose famiglie del Golfo.
Quei legami mai interrotti tra sauditi e jihadisti
Non è ancora chiaro da dove provengano i fondi dell’ISIS, ma al di là dell’autofinanziamento (il controllo dei giacimenti petroliferi serve a questo) la maggior parte degli analisti concorda sul fatto che la gran parte dei soldi arrivi proprio da ricchi donatori dell’Arabia Saudita, via Kuwait, grazie alla facilità di riciclare il denaro in questo piccolo Paese. Altri invece índicano Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Esattamente da dove arrivano quelli per i ribelli siriani — di cui in principio l’ISIS era solo una costola.
Puntare il dito contro le petromonarchie appare un esercizio fin troppo facile: non manca, infatti, chi le «scagiona» per chiamare in causa la responsabilità d’attori a piú ampio raggio, come Cina e Russia. Tuttavia, è conclamato che i sauditi abbiano alle spalle una lunga tradizione d’appoggio morale e finanziario
 alle reti internazionali del fondamentalismo. Il momento chiave per lo 
sviluppo dei movimenti jihadisti come attori politici è il 1979, anno 
dell’invasione sovietica in Afganistan e della rivoluzione khomeinista in Iran. A partire da questo momento, il triangolo tra Arabia Saudita, Pakistan
 (o, meglio, l’esercito pachistano) e Stati Uniti ha permesso di 
respingere la prima e contenere l’impatto regionale della seconda, 
contribuendo a preservare il predominio statunitense in Medio Oriente, 
ma ha anche gettato il seme per la fioritura del terrorismo islamico nel mondo, di cui al-Qaida sarebbe stata solo il primo ceppo.
I sauditi non hanno mai smesso di finanziare i fondamentalisti,
 e col tempo questi legami avrebbero comportato dei risvolti oscuri. Il 
documento finale della Commissione USA incaricata d’indagare sull’11 settembre
 ha identificato nell’Arabia Saudita la principale fonte di 
finanziamento d’al-Qaida. Non solo: l’America ha trovato complicità e 
connivenze con le reti terroristiche diffuse in Medio Oriente, in Asia 
centrale, in Europa, negli stessi Stati Uniti. Inoltre, 15 dei 19 
attentatori a bordo degli aerei immolatisi contro le Torri e il 
Pentagono erano sauditi; e tutti ricordano come l’ambasciata saudita a 
Washington sia stata l’unica, nei giorni successivi all’attacco, a non 
abbassare la bandiera a mezz’asta in segno di lutto. Ancora nel 2007, 
Stuart Levey, sottosegretario del Tesoro col compito di monitorare e 
impedire il finanziamento del terrorismo, dichiarava:
 «Se potessi tagliare i fondi ad al-Qaida da parte d’un Paese col solo 
schiocco delle dita, questo sarebbe l’Arabia Saudita». Due anni dopo, 
era Hillary Clinton ad ammettere
 che «l’Arabia Saudita resta una base fondamentale per il sostegno 
finanziario d’al-Qaida, dei talebani e d’altri gruppi terroristici».
Iraq, la rivincita saudita dieci anni dopo
Dunque, la costituzione del califfato 
sunnita d’Iraq e del Levante avverrebbe anche grazie ai lauti emolumenti
 in partenza dal Golfo; ma il coinvolgimento saudita in Iraq è molto piú
 profondo. La devastante sconfitta che sta subendo da Nuri al-Maliki non
 è solo la realizzazione del sogno del re saudita Abd Allah,
 che ha sempre visto nel primo ministro iracheno un burattino nelle mani
 del nemico Iran: è anche l’occasione per prendersi una rivincita nei 
confronti degli Stati Uniti.
Dopo l’11 settembre, non si poteva 
dichiarare apertamente guerra all’Arabia Saudita, abbiamo detto; 
tuttavia, era possibile colpire Riyad usando lo strumento a lei piú 
familiare — l’oro nero. Secondo Margherita Paolini, coordinatrice 
scientifica di Limes, l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 aveva uno scopo ben preciso: ridisegnare il Medio Oriente non per il petrolio, ma col petrolio. Nei piani dell’amministrazione Bush,
 gli USA avrebbero potuto immettere sul mercato una poderosa quantità di
 greggio iracheno post-Saddam, provocandone un netto calo del prezzo. A 
quel punto, l’Arabia Saudita sarebbe stata costretta a mettere sul 
mercato il proprio eccesso di capacità per mantenere stabile la quota 
d’introiti necessari alla casa di Saud, ma anche per ricavare le risorse
 necessarie per sviluppare il settore energetico al fine d’incrementare 
la produzione. Siccome il know-how adeguato era in possesso delle «Big Oil»
 americane, i sauditi avrebbero dovuto trattare con loro, affidando alle
 compagnie la gestione diretta dei propri giacimenti petroliferi. Gli 
americani avrebbero dunque preso in mano direttamente la ricerca e la 
produzione del petrolio saudita. La storia, come sappiamo, ha preso un 
altro corso: il petrolio è andato alle stelle, la campagna d’Iraq s’è 
rivelata un fallimento, e i sauditi hanno mantenuto il pieno controllo 
dei propri giacimenti.
Oggi, però, la nemesi saudita sembra vicina. Avevamo detto di tenere a mente il nome di Bandar bin Sultan; secondo l’analista arabo Zayd Alisa, la sua nomina a capo dell’intelligence
 nel 2012 fu decisa allo scopo d’imprimere una sterzata alla crisi 
siriana. Nel disegno del principe saudita, per rovesciare il regime 
siriano, era necessario prima destabilizzare i vicini Iraq e Libano, 
dove il sostegno al regime alavita di Damasco era ancora forte. Le proteste sunnite nella provincia d’Anbar
 scoppiate a cavallo tra 2012 e 2013 contro le politiche settarie del 
governo d’al-Maliki hanno offerto ai servizi segreti sauditi l’occasione
 per favorire la radicalizzazione e il reclutamento di masse di giovani 
in favore delle milizie jihadiste. In proposito, lo scorso anno il Guardian
 ha rivelato un piano dei sauditi vòlto ad armare e addestrare una forza
 paraconvenzionale per combattere il regime d’Assad in Siria, anche qui 
col decisivo impulso del principe Bandar. La realtà ineluttabile — 
afferma Alisa — è che dietro la recrudescenza del jihadismo in Iraq c’è 
la mano dell’Arabia Saudita, desiderosa da un lato di togliere di mezzo 
un regime, quello d’al-Maliki, ch’essa non ha mai riconosciuto — Riyad 
non ha piú un ambasciatore a Bagdad dai tempi di Saddam — e dall’altro 
di chiudere i conti coll’America, che un decennio fa si serví proprio 
dell’Iraq per colpirla nei suoi interessi vitali. Peraltro, com’era 
prevedibile, le recenti tensioni stanno provocando un aumento repentino 
del prezzo del petrolio, il che favorisce i sauditi
 e penalizza gli americani. L’obiettivo, dunque, potrebbe essere anche 
quello d’impedire (o comunque rallentare) l’aumento della produzione 
esportata di greggio iracheno.
A onor del vero, altri analisti (come Claudio Neri, direttore scientifico dell’Istituto italiano di studi strategici) ritengono
 che l’ISIS non dipenda in alcun modo da Riyad, pur ammettendo che il 
recente accordo con al-Nusra potrebbe essere un segnale dell’influenza 
dei Saud. Una cosa è certa: manovrare i jihadisti significa giocare col 
fuoco. Gli eventi in Iraq stanno contribuendo al riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran,
 prospettiva molto, molto sgradita ai sauditi. Un intervento congiunto 
tra Teheran e Washington è impossibile, almeno sul piano militare, ma la
 comune esigenza di frenare l’avanzata dell’ISIS potrebbe offrire alle 
due rivali un’opportunità lungo la strada verso il disgelo. Inoltre, non
 dobbiamo dimenticare che la rimozione di Bandar in favore di bin Nayef è
 avvenuta in febbraio, proprio quando la presenza dell’ISIS iniziava a farsi ingombrante.
 Difficile non pensare che qualcuno a Riyad intendesse porre un freno a 
quell’organizzazione che stava crescendo troppo, troppo in fretta e 
troppo vicino ai confini del regno.
 








 
 









