Nella guerra degli spioni alla quale tutta la politica partecipa, la Lega di Matteo Salvini mette a segno un colpo decisivo: la nomina di un proprio rappresentante alla presidenza del Copasir, il Comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica. Si tratta del deputato Raffaele Volpi che succede al “dem” Lorenzo Guerini,
nel frattempo diventato ministro della Difesa. Col cambio della
maggioranza, la presidenza del Copasir sarebbe comunque toccata a un
rappresentante delle opposizioni. Ed è stato il leghista a spuntarla con
6 voti su dieci. Poi, tre schede bianche e un voto al deputato Elio
Vito.
La sua vittoria va di traverso ai Cinque Stelle i quali pur di sbarrare la strada a un uomo di Salvini hanno tentato un accordo con Forza Italia per convogliare i voti sul forzista della Commissione, Elio Vito. Questa volta però l’asse con il Partito Democratico non ha funzionato. I “dem” si sono acconciati ad appoggiare il leghista probabilmente perché neanche a loro dispiace che da qualche parte in Parlamento vi sia qualcuno in grado di tenere sulla corda il premier Giuseppe Conte. Già, perché l’ex avvocato del popolo oggi migliore amico di se stesso, da qualche tempo si è montato la testa. Il rapporto privilegiato con Donald Trump lo ha mandato su di giri. Le sue dichiarazioni lambiscono il delirio lucido, come quella di dirsi nella relationship con l’Amministrazione americana più duro di Bettino Craxi a Sigonella. Un paragone bugiardo e inelegante per autopromuoversi.
Fu Beppe Grillo a dargli dell’elevato e lui ha cominciato a comportarsi da tale. Ma in politica l’autoesaltazione non funziona quasi mai. I sostenitori, in casa grillina, cominciano a stufarsi di essere trattati dal premier come Kleenex. Vorrebbero contare nelle scelte di governo e non sentirsi scavalcati da un arrogante “ghe pensi mi” che sulla bocca di un foggiano suona strano. Sul fronte Pd e renziano di “Italia Viva” la priorità resta quella di stare al Governo, ma non necessariamente di tenersi Giuseppe Conte. E allora perché non lasciare che ci pensi la Lega a cuocere a fuoco lento l’avvocato arrembante sulla graticola del Copasir? Per questo speciale barbecue non poteva essere scelto cuoco più adeguato.
L’onorevole Raffaele Volpi è il campione del “democristianesimo” realizzato al tempo dei tweet. Uno di basso profilo, poco incline ai riflettori e ancor meno a rispondere alle domande dei giornalisti. Il curriculum è quello del burocrate. Diplomato geometra, una carriera da funzionario di partito. Una storia parlamentare relativamente lunga (nel 2008 la sua prima volta alla Camera) e senza particolari picchi di notorietà. Al Governo una sola volta, nel 2018, da Sottosegretario alla Difesa. Insomma, una vita in grigio che, associata all’aspetto piuttosto bonario da nonno intento a portare al mattino i nipotini a scuola, potrebbe ingenerare qualche dubbio sull’adeguatezza al ruolo, difficilissimo, di presidente della Commissione che controlla gli apparati di Sicurezza del Paese. Ma l’apparenza inganna. Volpi è il classico mastino che quando addenta la preda non la molla. Uomo-macchina, abituato a muoversi al riparo dalle luci della ribalta, è l’uomo a cui Salvini ha affidato la conquista del Sud. È lui che ha chiamato a raccolta i vecchi arnesi della destra post-almirantiana e finiana, non sempre di adamantina illibatezza e con qualche inciampo giudiziario di troppo nel curriculum, per rimetterli in circolazione dopo una gigantesca cosmesi. E per questa operazione-nostalgia è stato premiato dal Segretario federale in persona che lo ha nominato, lo scorso luglio, proconsole della Lega in Campania, ufficialmente coordinatore regionale per vigilare sugli irrequieti neo-leghisti campani.
Volpi ha il fiuto del cane da tartufi per cui, c’è da scommettere, affronterà il confronto con il Presidente del Consiglio sulla questione, spinosa, degli incontri segreti con il ministro delle Giustizia statunitense William Barr e della sua collaborazione con gli 007 americani alla ricerca di prove del presunto complotto dei Democratici Usa per incastrare Donald Trump, prendendola alla lontana. Non è un velocista, ma un passista. Da spalatore non si accontenterà delle chiacchiere argute che vorrà propinargli il presidente del Consiglio, ma vorrà scavare. Potrebbe voler sentire tutti quelli del Dis, dal capo operativo Gennaro Vecchione, all’ultimo usciere della sede romana. Poi toccherà a quelli delle strutture Aise e Aisi. E con tutti proverà a instaurare un feeling, basato sulla reciproca utilità nel più classico spirito del do-ut-des. Volpi non è tipo da lasciare nessuno a bocca asciutta, ma neppure di restare lui a pancia vuota. Lavorerà ai fianchi i suoi interlocutori fino a quando non avrà ottenuto ciò che vuole sapere. Il che non è affatto una buona notizia per Conte.
Se il premier pensava di giocarsi anche quelli del Copasir come si è girato e rigirato i suoi sprovveduti grillini, si prepari a cambiare tattica. Non se la caverà raccontando ai Commissari che, da garante di tutti, avrebbe coperto le malefatte compiute dai suoi predecessori a Palazzo Chigi, in particolare quelle di un sempre più nervoso Matteo Renzi che minaccia fuoco e fiamme contro chi provi a incastrarlo con l’affaire Russiagate. Non faccia conto sull’aiuto del presidente Trump. Visto come “The Donald” usa e getta persone e gruppi dopo essersene servito, come volta le spalle agli alleati per fare gli interessi americani e della sua Amministrazione, Conte non provi a rifare lo scherzetto dell’Affidavit dello scorso agosto, per intenderci quello di “Giuseppi... A very talented man who will hopefully remain Prime Minister!” passato alla storia nel novero delle stranezze dell’uomo della Casa Bianca. Certi coup de théâtre riescono una volta sola. E non se la caverà neppure tirando in ballo il Quirinale. È vero che nei mesi scorsi vi è stata una forte moral suasion del Colle per tenerlo sullo scranno di Palazzo Chigi. Ciò però non implica che il presidente Sergio Mattarella se lo sia caricato nello stato di famiglia. Il problema del Quirinale era di avere un Governo in linea con l’asse di potere franco-germanico in Europa.
Da quando Beppe Grillo, padrone del Movimento Cinque Stelle, ha deciso di trasferirne il possesso, con un comodato d’uso non si capisce quanto gratuito, ai “Dem”, il rischio di un ritorno anticipato alle urne, con vittoria scontata della destra egemonizzata dalla Lega, è stato temporaneamente scongiurato. Quindi, se il premier dovesse essere silurato se ne farebbe un altro. Come si dice: morto (politicamente) il re, viva il re!
La sua vittoria va di traverso ai Cinque Stelle i quali pur di sbarrare la strada a un uomo di Salvini hanno tentato un accordo con Forza Italia per convogliare i voti sul forzista della Commissione, Elio Vito. Questa volta però l’asse con il Partito Democratico non ha funzionato. I “dem” si sono acconciati ad appoggiare il leghista probabilmente perché neanche a loro dispiace che da qualche parte in Parlamento vi sia qualcuno in grado di tenere sulla corda il premier Giuseppe Conte. Già, perché l’ex avvocato del popolo oggi migliore amico di se stesso, da qualche tempo si è montato la testa. Il rapporto privilegiato con Donald Trump lo ha mandato su di giri. Le sue dichiarazioni lambiscono il delirio lucido, come quella di dirsi nella relationship con l’Amministrazione americana più duro di Bettino Craxi a Sigonella. Un paragone bugiardo e inelegante per autopromuoversi.
Fu Beppe Grillo a dargli dell’elevato e lui ha cominciato a comportarsi da tale. Ma in politica l’autoesaltazione non funziona quasi mai. I sostenitori, in casa grillina, cominciano a stufarsi di essere trattati dal premier come Kleenex. Vorrebbero contare nelle scelte di governo e non sentirsi scavalcati da un arrogante “ghe pensi mi” che sulla bocca di un foggiano suona strano. Sul fronte Pd e renziano di “Italia Viva” la priorità resta quella di stare al Governo, ma non necessariamente di tenersi Giuseppe Conte. E allora perché non lasciare che ci pensi la Lega a cuocere a fuoco lento l’avvocato arrembante sulla graticola del Copasir? Per questo speciale barbecue non poteva essere scelto cuoco più adeguato.
L’onorevole Raffaele Volpi è il campione del “democristianesimo” realizzato al tempo dei tweet. Uno di basso profilo, poco incline ai riflettori e ancor meno a rispondere alle domande dei giornalisti. Il curriculum è quello del burocrate. Diplomato geometra, una carriera da funzionario di partito. Una storia parlamentare relativamente lunga (nel 2008 la sua prima volta alla Camera) e senza particolari picchi di notorietà. Al Governo una sola volta, nel 2018, da Sottosegretario alla Difesa. Insomma, una vita in grigio che, associata all’aspetto piuttosto bonario da nonno intento a portare al mattino i nipotini a scuola, potrebbe ingenerare qualche dubbio sull’adeguatezza al ruolo, difficilissimo, di presidente della Commissione che controlla gli apparati di Sicurezza del Paese. Ma l’apparenza inganna. Volpi è il classico mastino che quando addenta la preda non la molla. Uomo-macchina, abituato a muoversi al riparo dalle luci della ribalta, è l’uomo a cui Salvini ha affidato la conquista del Sud. È lui che ha chiamato a raccolta i vecchi arnesi della destra post-almirantiana e finiana, non sempre di adamantina illibatezza e con qualche inciampo giudiziario di troppo nel curriculum, per rimetterli in circolazione dopo una gigantesca cosmesi. E per questa operazione-nostalgia è stato premiato dal Segretario federale in persona che lo ha nominato, lo scorso luglio, proconsole della Lega in Campania, ufficialmente coordinatore regionale per vigilare sugli irrequieti neo-leghisti campani.
Volpi ha il fiuto del cane da tartufi per cui, c’è da scommettere, affronterà il confronto con il Presidente del Consiglio sulla questione, spinosa, degli incontri segreti con il ministro delle Giustizia statunitense William Barr e della sua collaborazione con gli 007 americani alla ricerca di prove del presunto complotto dei Democratici Usa per incastrare Donald Trump, prendendola alla lontana. Non è un velocista, ma un passista. Da spalatore non si accontenterà delle chiacchiere argute che vorrà propinargli il presidente del Consiglio, ma vorrà scavare. Potrebbe voler sentire tutti quelli del Dis, dal capo operativo Gennaro Vecchione, all’ultimo usciere della sede romana. Poi toccherà a quelli delle strutture Aise e Aisi. E con tutti proverà a instaurare un feeling, basato sulla reciproca utilità nel più classico spirito del do-ut-des. Volpi non è tipo da lasciare nessuno a bocca asciutta, ma neppure di restare lui a pancia vuota. Lavorerà ai fianchi i suoi interlocutori fino a quando non avrà ottenuto ciò che vuole sapere. Il che non è affatto una buona notizia per Conte.
Se il premier pensava di giocarsi anche quelli del Copasir come si è girato e rigirato i suoi sprovveduti grillini, si prepari a cambiare tattica. Non se la caverà raccontando ai Commissari che, da garante di tutti, avrebbe coperto le malefatte compiute dai suoi predecessori a Palazzo Chigi, in particolare quelle di un sempre più nervoso Matteo Renzi che minaccia fuoco e fiamme contro chi provi a incastrarlo con l’affaire Russiagate. Non faccia conto sull’aiuto del presidente Trump. Visto come “The Donald” usa e getta persone e gruppi dopo essersene servito, come volta le spalle agli alleati per fare gli interessi americani e della sua Amministrazione, Conte non provi a rifare lo scherzetto dell’Affidavit dello scorso agosto, per intenderci quello di “Giuseppi... A very talented man who will hopefully remain Prime Minister!” passato alla storia nel novero delle stranezze dell’uomo della Casa Bianca. Certi coup de théâtre riescono una volta sola. E non se la caverà neppure tirando in ballo il Quirinale. È vero che nei mesi scorsi vi è stata una forte moral suasion del Colle per tenerlo sullo scranno di Palazzo Chigi. Ciò però non implica che il presidente Sergio Mattarella se lo sia caricato nello stato di famiglia. Il problema del Quirinale era di avere un Governo in linea con l’asse di potere franco-germanico in Europa.
Da quando Beppe Grillo, padrone del Movimento Cinque Stelle, ha deciso di trasferirne il possesso, con un comodato d’uso non si capisce quanto gratuito, ai “Dem”, il rischio di un ritorno anticipato alle urne, con vittoria scontata della destra egemonizzata dalla Lega, è stato temporaneamente scongiurato. Quindi, se il premier dovesse essere silurato se ne farebbe un altro. Come si dice: morto (politicamente) il re, viva il re!