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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

16/04/16

Profumo di complotto ai danni della Marina #iostoconlamarina



Cari lettori, prendo spunto da una nota inviata dalla Marina Militare (leggi) che precisa su alcune notizie divulgate a mezzo stampa oggi.
Queste ultime settimane c’è stato un gran tam tam di notizie sui giornali legati al filone di inchiesta denomitato "Trivellopoli".
Da direttore di una testata che segue le vicende militari ho colto un’anomolia alcuni giorni fa. Esattamente il 2 aprile alcuni giornali hanno addirittura rintitolato nella notte le proprie edizioni (vedi ultima immagine in fondo) pur di sbattere in prima pagina una divisa. Leggendo gli articoli non si capiva il perché il militare fosse stato nominato.
La foto dell’ammiraglio De Giorgi, è stata rilanciata da tutti i media nel week-end. Nessuna testata ha saputo però spiegare il contenuto delle accuse o i fatti contestati all’ammiraglio. Perché?
L’attacco ha preso contorni definiti nei giorni successivi: una elargizione lenta e quasi giornaliera di accuse - quasi tutte incentrate su fatti accaduti in passato - seducenti per un pubblico affamato e abituato agli scandali nazionali ma che lascia intravedere un’architettura dietro tale attacco. Ricordiamo che l’accusa con la quale è stato gettato del fango sulla Marina e sul suo capo è stata addirittura quella di associazione a delinquere, poi però derubricata in abuso di ufficio.
Cosa avrebbe combinato l’ammiraglio? Avrebbe, per esempio, promosso e poi trasferito un ammiraglio di stanza ad Augusta semplicemente perché "scomodo". Si è gridato allo scandalo per la promozione, ma sono venuto in possesso di un documento del 2014 firmato da una commissione (vedi a dx dettaglio) - quindi una decisione collegiale e non singola come da accusa - e controfirmata dal ministro Pinotti, che vede l’ammiraglio Camerini in pole position per la promozione nel 2015, perché i primi tre sono stati promossi nel 2014. (vedi sotto documento completo). È ora chiaro che la motivazione gridata di "promuovere per rimuovere" sembra essere un millantato credito di qualcuno che vantava titoli al telefono che non aveva (intercettazione Colicchi- Gemelli). Mi torna in mente la prima intervista fatta al portavoce dei Servizi Segreti in cui, riferendosi a millantatori indagati che si presentavano come uomini dei Servizi, affermava che “nello spogliatoio del calcetto posso pure spararla grossa dicendo che sono l'uomo di Belen, fuori la realtà è ben diversa...
Chi ha avuto modo di seguire la storia contemporanea della Marina si sarà accorto che in questi ultimi tre anni la Marina Militare - era ormai ridotta ai minimi termini rispetto ai numerosi compiti che è chiamata a svolgere (Mare Nostrum ne è stato un esempio assieme a molte altre missioni estere) - ha avuto grazie all’azione del suo capo di stato maggiore un'eco importante in molti ambienti ed è riuscita a far approvare una legge che, se anche non la rivoluziona, la salva da morte certa. L’accusa è anche qui di aver cercato convergenze attraverso la sensibilizzazione dell’importanza del settore marittimo per un paese come è l’Italia.
Mi viene in mente il commento di un blogger che ha scritto: “Ma a chi avrebbe dovuto chieder i soldi l’ammiraglio, al Papa?”. Sempre lo stesso diceva che quello che ha fatto è ciò che ci si aspetta da un capo di stato maggiore: la salvaguardia della propria forza armata.
Con l'avvio del Programma Navale diverse fonti ben informate mi hanno riferito in passato che De Giorgi ("uomo pignolo") si sarebbe anche scontrato con l'amministratore delegato di Fincantieri durante l’esame delle unità navali commissionate, esigendo il rispetto dei massimi parametri qualitativi.
Analizzando l’arco temporale nella quale si è sviluppata tutta la vicenda, mi sembra strano che il nome del capo della Marina sia stato fatto, come ho già ricordato anche senza alcuna altra notizia di venerdì, quando il lunedì successivo il consiglio dei ministri avrebbe dovuto scegliere un eventuale capo della protezione civile e, poiché il mandato dell’ammiraglio è in scadenza (prossimo 21 giugno) e visti i suoi precedenti in tale settore (ricorderete l’operazione Tevere, nella quale l’ammiraglio allora capo di stato maggiore del COI diresse le operazioni che permisero, con l’impiego di nocchieri del Vespucci e incursori di Marina, di liberare ponte Sant’Angelo dalle ostruzioni e scongiurare così l’allagamento di Roma), il suo, sarebbe stato sicuramente un nome papabille anche se scomodo per molti suoi nemici.
Già, di nemici a questo punto l’ammiraglio deve averne molti e anche molto potenti visto il livello di accuse e la bassezza dei modi con la quale sono state avanzate. Accuse "suggerite" e riprese senza far troppe domande?
 


(di Andrea Cucco) - 12/04/16 
 

IMMIGRAZIONE: "I delinquenti stranieri vengono tutti qui da noi"

Il nostro Paese sembra attirare il peggio dell'immigrazione: abbiamo la percentuale di detenuti "importati" più alta d'Europa


Le carceri italiane scoppiano con 3950 detenuti privi di un posto letto degno di questo nome, su un totale di 53.495 reclusi.




E la percentuale di ospiti stranieri dietro le sbarre, 33,4%, è ben più alta rispetto alla media europea del 21%. Battiamo Francia, Inghilterra e Germania nonostante il numero degli immigrati a casa loro sia nettamente superiore rispetto all'Italia. Come se non bastasse 200 detenuti islamici sono monitorati costantemente perché considerati ad alto rischio jihadista. I più pericolosi, in carcere per terrorismo, sono 32, compreso il nocciolo duro dei 19 rinchiusi a Rossano, che conta pure degli ex di Guantanamo.
L'Associazione Antigone ha presentato ieri i dati aggiornati del rapporto annuale sulle «Galere d'Italia», dove il problema maggiore è il sovraffollamento del 108%. Oltre ai circa 4mila senza letto ci sono 9mila reclusi che vivono in meno di 4 metri quadri pro-capite, standard minimo previsto dal Consiglio d'Europa.
Sugli oltre 53mila detenuti complessivi, 17.920 sono stranieri. In diminuzione rispetto ai quasi 25mila del 2010, ma rimane il fatto che un detenuto su tre non è italiano. Significa che nonostante i numeri minori di immigrati rispetto ad altri Paesi europei, a casa nostra arriva una bella fetta di delinquenza straniera. In termini percentuali registriamo 12 punti in più rispetto alle media europea. In Francia su oltre 66mila detenuti, gli stranieri sono 13.860, il 21,7%. Nel 2015 i reclusi stranieri nel Regno Unito erano circa 11mila, appena il 12,7% della popolazione carceraria. La Germania si avvicina a noi con 16.668 detenuti stranieri, ma la popolazione tedesca supera gli 80 milioni.
La maggioranza dei reclusi stranieri in Italia è composta da marocchini (16,9%) seguiti dai romeni (15,9%), albanesi (13,8%), tunisini (11%), nigeriani (3,9%) ed egiziani (3,4%). Undicimila sono i musulmani, ma i praticanti risultano, secondo il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, circa 7400. Agli stranieri sono stati contestati 8192 reati contro il patrimonio, dai furti alle rapine, 6.226 violazioni della legge sulle droghe, 6559 reati contro la persona, 95 casi di associazione di stampo mafioso e 1372 violazioni della legge sull'immigrazione.
Il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, a margine della presentazione del rapporto, getta acqua sul fuoco sul rischio di radicalizzazione jihadista. «Duecento sono gli islamici attenzionati, magari perché si tratta di ferventi religiosi, ma non è detto che siano radicalizzati» sostiene il rappresentante dell'Onlus. In realtà il numero totale fra monitorati con il controllo di telefonate e colloqui, attenzioni e segnalati arriva a 400 reclusi. Una cinquantina sarebbero i minori a rischio proselitismo dietro le sbarre. «Abbiamo denunciato per tempo la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana. Pur non avendo manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell'entrata in carcere, si sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l'influenza di altri detenuti già radicali», sostiene Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe).
Dopo gli attentati di Bruxelles una decina di reclusi hanno applaudito e urlato Allah o akbar (Dio è grande) alzando il volume della tv, che trasmetteva le immagini del terrore nella capitale belga. In occasione della carneficina di Parigi di novembre erano un'ottantina. Poi sono diminuiti per non farsi identificare. Secondo il Sappe i festeggiamenti per gli attentati di Bruxelles sono avvenuti in due momenti distinti soprattutto a Rossano. A Biella, in gennaio, un islamico che inneggiava alla guerra santa è stato trasferito in un carcere di massima sicurezza. Lo scorso giugno a Padova altre scene da invasato jihadista per un recluso, che ha sfasciato la cella. In alcuni casi sono state trovate nelle celle foto della guerra santa e addirittura bandierine nere del Califfo.
«La polizia penitenziaria monitora costantemente la situazione - spiega Capece -. Ma servono fondi per la formazione, l'aggiornamento professionale e nuovi agenti. La legge di stabilità ha bocciato un emendamento, che avrebbe permesso l'assunzione di almeno 800 uomini».

- Sab, 16/04/2016
fonte: http://www.ilgiornale.it 

15/04/16

Marò, prossima tappa Bruxelles: 19 aprile, ore 16:00…




maro
Roma, 15 apr – Quasi due anni fa (settembre 2014) presentai una “petizione” (n. 2089/2014) alla apposita commissione della Ue, supportata da centinaia di firme. Vi si chiedeva una azione della stessa Ue nei confronti dell’India affinché nella gestione della vicenda Marò rispettasse i suoi impegni con l’Europa in tema di diritti umani riferiti alla lunga privazione della libertà dei due accusati. Questa petizione fu accolta e trasmessa all’Alto Rappresentante Mogherini, che rispose con una lettera di circostanza il 7/10/2015 ricordando le varie fasi della vicenda e l’intervento del Tribuale di Amburgo (ITLOS). Ma nel frattempo c’era stata la risoluzione votata dal Parlamento Europeo (del gennaio 2015, che pur auspicando una positiva soluzione del caso di fatto nei punti A) e B) dava ragione all’India sulla responsabilità dei militari italiani nella morte dei due pescatori, responsabilità in realtà mai dimostrata). 
 
All’epoca fummo costretti a ingoiare il rospo ponendo l’accento sui buoni propositi ma certamente sarebbe ora da chiedere ai 68 parlamentari italiani e stranieri che hanno firmato quel testo con quale criterio abbiano dichiarato colpevoli due persone per cui l’India non aveva neanche depositato le accuse formali. Chi vuole leggere l’analisi del testo proposto, con le varie posizioni originarie poi confluite in una proposta comune di tutte le forze politiche italiane può farlo a questo link.  Questo testo sciagurato è probabilmente quello che ha poi permesso all’India, in apertura dei lavori del Tribunale di Amburgo (ITLOS), di presentarsi con le “Osservazioni Scritte” del 6 Agosto 2015 in cui si ribadiva perentoriamente la colpevolezza dei due accusati (“non può essere messa in discussione”, è ovvio dal loro punto di vista, lo dice anche il Parlamento Ue!) condito con le solite sprezzanti offese all’Italia (“l’Italia in questa vicenda cerca compassione”, una staffilata).

Tutto è cambiato il 27 Agosto 2015, quando il Tribunale di Amburgo mi ha consegnato i documenti giudiziari (autopsie, perizia balistica, sopralluoghi etc. etc) che fino ad allora le autorità indiane avevano tenuto gelosamente nel cassetto, ma facendone un sapiente uso come “veline” passate ai media per millantare prove di colpevolezza inesistenti una volta avuti in mano i documenti originali. Abbiamo lavorato in molti, io per quattro mesi ad analizzare fin nei minimi dettagli i documenti che finalmente avevo in originale, un gruppo di traduttori che hanno passato tutto in inglese, e infine un capillare lavoro di diffusione via web in tutto il mondo verso migliaia di soggetti, compresa l’India e compresi i tribunali. Sulla inconsistenza, sulle omissioni, contraddizioni, falsità etc. dell’impianto accusatorio indiano e quindi dell’innocenza dei due accusati nessuno ha potuto sollevare la benchè minima obiezione, e le contestazioni che all’inizio erano ridotte alle solite ridicole accuse in politichese (il finto ingegnere di Casa Pound, “quello che non sapete” sulla vicenda Marò, la annunciata “inchiesta collettiva” dei buontemponi del WuMing, e amenità varie) si sono esaurite in un corrucciato silenzio.

Con loro è stato facile millantare la colpevolezza usando il “fattore ideologico” che acceca chi ne è vittima e lo costringe a fingere di non sapere che le pallottole repertate sulle vittime non passano nella canna dei fucili degli accusati: sono troppo grosse! Ma questo vale per tutti: giudici, avvocati, medici forensi, periti balistici, esperti di chiara fama e così via per cui ci si aspettava che di fronte all’evidenza dei fatti, e di fronte allo sproloquio indiano del 6 Agosto scorso “almeno” la questione delle pallottole troppo grosse e della ridicola Perizia Balistica sarebbe stato sollevato. Abbiamo preparato un dossier che è andato agli avvocati fin da novembre 2015, abbiamo poi inviato il link di tutto il documento in inglese a tutti gli addetti ai lavori (oltre che come già detto a migliaia di soggetti in tutto il mondo), tutto puntuale e circostanziato coi rimandi ai documenti originali indiani…
E ci siamo ritrovati nelle udienze del 30 e 31 marzo 2016, sulla base delle quali il Tribunale Arbitrale dell’Aia deve decidere se sottrarre o meno i due accusati alla giurisdizione penale indiana “almeno” fino alla decisione definitiva su chi debba celebrare il processo (se Italia o India)… Ci siamo ritrovati che nei verbali non c’è una parola “neanche” sulle pallottole troppo grosse limitandosi come al solito ai “motivi umanitari”, e le autorità indiane, evidentemente rassicurate dal fatto che nessuno gli contesta niente, ripropongono l’atteggiamento borioso e offensivo. Per metterla in termini giudiziari è come se un avvocato avesse le prove dell’innocenza del suo assistito, ma per non indispettire l’accusa se le tiene nel cassetto. E alle nostre riservate proteste risponde: eh, ma se gli danno l’ergastolo, vedrete che succede! Brrrr. A New Delhi già tremano.

Insomma un altro “Muro di Gomma” (corsi e ricorsi storici…). Possiamo portare anche dieci documenti originali indiani che scagionano “oggettivamente” i due accusati, ma questo, non si capisce perché, non si può dire, non può trovare spazio nelle carte “ufficiali”. Anzi, facciamo una risoluzione del Parlamento Ue che li dichiara colpevoli, e poi ci rimettiamo alla clemenza della Corte trasformando un belato in ruggito. Sembra una situazione senza speranza che ha messo in difficoltà alcuni che pur si sono battuti come leoni in questa vicenda. Invece…
Invece qualche giorno fa mi scrive la segreteria della Commissione UE: hanno in agenda di discutere la mia petizione n. 2089/2014: Vuole intervenire di persona? Ma certamente! Gli spiego che ci sono fatti nuovi rispetto a settembre 2014 e gli invio i link. Mi chiedono una sintesi che tradurranno nelle varie lingue da distribuire ai Commissari prima della discussione, fatto. La trovate a questo link. In buona sostanza spiego “i fatti nuovi” che scagionano i due accusati, basati ormai sui documenti giudiziari indiani, e fornendo tutti i riferimenti per le verifiche. E chiedo alla commissione di nominare 4 esperti, non italiani, che vadano ad esaminare le carte indiane e prendano atto di quanto vado sostenendo, oppure mi smentiscano. Chiaramente tutto dovrà essere reso pubblico, basta cassetti.

A questo punto sarà autorevolmente certificato che il Parlamento Europeo è stato ingannato e la risoluzione di Gennaio 2015 dove ai punti A) e B) si dichiara la colpevolezza dei due accusati va annullata, e va fatta una nuova risoluzione che insieme ai buoni propositi tenga conto della oggettiva innocenza dei due accusati così come risulta dalle carte indiane depositate al Tribunale di Amburgo. Quindi il prossimo appuntamento è a Bruxelles, Parlamento Europeo, ore 16 di martedi 19 aprile. Io sarò presente e se il Presidente lo ritiene opportuno mi chiederà un breve intervento di cinque minuti, ma quello che ho da dire è già in possesso dei Commissari che lo discuteranno pubblicamente alla mia presenza.

Chi vuole potrà seguire la discussione sia in diretta che in differita a questo link. E quindi appuntamento con tutti il 19 Aprile ore 16:00, a Bruxelles. Dove risponderanno:

– Si, nominiamo i quattro esperti e andiamo a leggere le carte indiane. Noi siamo la Ue! 

Oppure: –

No, le carte indiane non le andiamo a leggere, stiamo qui a scaldare le sedie. Vedremo che succede. 

 
Luigi Di Stefano . 15 aprile 2016
fonte: http://www.ilprimatonazionale.it

N.B. – La sessione è già calendarizzata (potete controllare sul sito web del Parlamento Europeo) ma chiarisco che chiederò per iscritto al Presidente se ci fossero stati tentativi, diciamo “pressioni”, per farla saltare. In questo caso denuncerò la cosa alla commissione di vigilanza della UE e elevo querela contro l’autore/i alla Procura della Repubblica di Roma, italiani o stranieri che fossero. A buon intenditor poche parole.

14/04/16

La leadership del Capo della Marina contro i veleni ed i gossip anonimi delle trivelle


de giorgi 

I continui attacchi mediatici contro il Capo di Stato Maggiore della Marina, Ammiraglio De Giorgi, orditi con sistematicità quotidiana di veleni propinati ad arte, nascondono evidentemente –al di là dell’accertamento di eventuali reati da valutare e giudicare nelle sedi opportune- una precisa e deprecabile volontà da parte di qualche occulto regista, o di qualcuno particolarmente interessato, nel demolire con ogni mezzo la reputazione e la figura di altissimo profilo di un Ammiraglio che nella sua onorevole e lunga carriera, ha sempre mostrato un amore viscerale per la ‘sua’ Marina, con un comportamento integerrimo ed una rara onestà intellettuale. E’ ora di finirla con gli scarafaggi e gli acari che si nascondono fra le pieghe di lettere anonime, sintomo di vigliaccheria e inettitudine, che hanno trovato terreno fertile nel continuare a inveire contro un individuo già provato, che comunque non ha certo bisogno di queste righe per difendersi e per la sua assoluzione; almeno – si spera che- queste contro-considerazioni possano servire all’opinione pubblica per comprendere dove sta la ragione vera e dove invece alberga il tentativo di linciaggio personale, e di riflesso, di un’intera Forza Armata. Qualcuno fra i più avveduti avevano prefigurato che la vicenda sarebbe finita con le anonime, con strali degli scontenti, e addirittura con ‘’questioni di pilo’’ tanto care ai nostri brillanti talk-shows: ora ci siamo incredibilmente arrivati in questa italietta gossipara e fariseica. In un momento così delicato ci si era astenuti dal prendere le difese ‘’civiche e del diritto’’ di una persona che comunque era stata tirata in ballo dalle vicende politiche connesse le trivelle di Potenza, con tutta una serie di intercettazioni apparse sulla stampa, foraggiate da alcune gole profonde che evidentemente le passano ai loro amici della stampa, prima ancora che entrino nelle formali camere della giustizia: questa è l’Italia, che piaccia o meno, con i media che surrogano i giudici con delle pre-sentenze disastrose e deviate, e fanno presa sulla pubblica opinione assai più di quelle, tardive, emesse dai giudici. Ma, forse, è arrivato il momento di esprimere qualche considerazione obiettiva e controcorrente. Tralasciando i contenuti delle intercettazioni che spesso sono parziali e fuori dal contesto, le specifiche accuse contenute nelle anonime risultano comunque finora del tutto fuori luogo e malevoli; alle illazioni contenute in tali missive dense di acrimonia e di veleni, d’ora in poi verrà sistematicamente fornita una più giusta, corretta e veritiera chiave di lettura, in quanto divenute non più tollerabili poichè sintomo di autentica vigliaccheria e di indebite rivendicazioni, se non ipocrite vendette sul piano personale. Prima ancora val la pena richiamare alcuni concetti validi in uno Stato democratico e soprattutto liberale, quale dovrebbe essere l’Italia, per meglio inquadrare la vicenda De Giorgi- trivelle. Lo Stato di diritto in un Paese democratico dovrebbe avere come fondamento il governo della legge, della legittimità e dei diritti fondamentali dell’individuo, e non basarsi su accuse anonime, gossip e, quindi sul cd. stato etico che è invece governo degli uomini, dei loro credi, delle loro convinzioni, confondendo spesso la morale propria? con la legge. Lo stato di diritto ha fiducia nella propria giustizia, ma non è giustizialista, ed anche quando permane qualche ragionevole dubbio sull’innocenza dell’accusato, prevale il principio della presunzione di innocenza fino a prova -provata contro, che solo i giudici e non certo i sentenziatori mediatici, possono valutare. E’ davvero desolante e perfino pericoloso vivere in una società che si picca di ‘’stare nel diritto’’, mentre attua una amministrazione della giustizia preventiva (meglio giustizialismo) che crocifigge anzitempo con sentenze mediatiche, anticipatrici di quelle previste che hanno il pernicioso potere di devastare la reputazione personale con avventati pregiudizi, basati esclusivamente su intercettazioni passate sottobanco da qualche gola profonda o burattinaio, corroborate da anonime di ogni genere. Oggi ci troviamo, fra trivelle e comari, in pieno stato etico, contro ogni garantismo del diritto e dei diritti umani che sotto il profilo storico può definirsi ‘’barbarie’’; in altri termini significa non stare dalla parte della vera giustizia, né della legge, ma dei falsi moralismi contro i diritti basilari, dando così concretezza a forme di linciaggio: ciò vuol dire non stare dalla parte degli eventuali colpevoli, ma sostenere i diritti sacrosanti degli accusati, questo sì, e prima di tutto! La macchina del fango ben alimentata da alcune gole profonde, presumibilmente anche interne alla Difesa, si è messa in moto a pieni giri per screditare personaggi difficili da gestire, perché troppo bravi e decisionisti o perché troppo onesti e motivati: il linciaggio mediatico del Capo della Marina è sotto gli occhi di tutti ed è semplicemente scandaloso, se fossimo in uno Stato di diritto! Questo paese incolto e farisaico è persino riuscito a trasformare un principio di libertà, ovvero la tutela di chi finisce nella rete delle intercettazioni, in un problema di efficienza giuridica o giustizialista; molti evidentemente preferiscono vivere sotto una sorta di ‘’stato di polizia’’ estranea alla libertà dell’individuo ed ai suoi diritti fondamentali. E’ proprio questa la causa principale della decadenza del Paese, della sua incapacità di modernizzarsi, di essere una compiuta democrazia liberale; e va detto che anche il nostro premier non ha tutti i torti quando afferma che le procure emettono sentenze con ‘’cadenza olimpica, quadriennale’’ anticipate da sentenze mediatiche di colpevolezza nei confronti di indagati per il solo fatto di aver appreso notizie spesso fraudolente, quando non pilotate. Dossier costruiti ad arte, intercettazioni parziali infiorettate da gossip costituiscono gli elementi portanti per le sentenze mediatiche della nostra società ‘’democratico-liberale’’. Forse sarebbe bene che certi giornalisti la smettessero di fare da megafono a certi ‘’leaks’’ delle Procure o di certi questurini, e incominciassero a fare i giornalisti di professione, anche di inchiesta, ma con un approccio deontologico e civile, e non solo per vendere i loro marcescenti ed ingannevoli prodotti. Nel nostro mondo prevale invece il moralismo d’accatto, la curiosità morbosa, la cronachetta piena di riferimenti ludici e lascivi perché fa più audience, fa vendere di più, con una degenerazione della moralità, falsa ed ipocrita, sacrificando così i nostri diritti, le nostre libertà allo stato di polizia in cambio di una sorta di ordine etico pruriginoso, inadeguato e perfino pericoloso per le stesse istituzioni. Intercettazioni a tappeto, estese anche alla vita privata di ogni cittadino, insieme con le lettere anonime costituiscono i comodi elementi per configurare eventuali ipotesi di reato ed avviare le indagini nei confronti di una persona, per creare lo scandalo, anche se non si rilevano comportamenti penalmente rilevanti, ma di sicuro appetibili se dati, nel loro insieme, in pasto ad una opinione pubblica ipocrita, vendicativa e moralista: se, poi, a finire sulla graticola mediatica è un militare di rango, la goduria corale è massima! E anche qualora, nelle fasi conclusive delle vicende, si arrivasse alla completa assoluzione degli indagati, viste anche le inchieste degli ultimi anni, tutti se ne lavano ponzio-pilatescamente le mani senza che si rinvengano gli autori di tali misfatti rovinosi della reputazione e della vita tessa degli imputati, senza un minimo di assunzione di (etica della) responsabilità da parte di chi ha cavalcato furbescamente, e sovente pilotato nell’ombra omertosa, le stesse notizie ferali. Nei nostri media, il fine distruttivo giustifica spesso e ampiamente i mezzi e gli strumenti impiegati per conseguirlo, siano esse intercettazioni, leaks o anonime, basta pararsi dietro quel deteriore paravento culturale del ‘’politicamente corretto’’, anche se ciò può annichilire l’esistenza –non solo moralmente- di un individuo. In questo Paese tutti si riempiono la bocca di voler fare, riformare, ristrutturare, ma chiunque manifesti l’intenzione di cambiare davvero la situazione di competenza e di averne le potenzialità e la capacità, finisce sempre per essere impallinato e trattato come un lestofante. Vale ancora Machiavelli: ‘’ Niente è più pericoloso da gestire, se poi si ha successo, la situazione che realizza un nuovo ordine nel proprio ambiente…Quelli che traevano beneficio dal vecchio gli sono nemici, e quelli che potranno godere del nuovo gli sono tiepidi difensori pronti a voltargli le spalle..’’. Atteso, quindi, l’esito delle verifiche delle intercettazioni e depurati dai rancorosi veleni, dalle invidie anonime interne ed esterne alla Difesa e dai gossip, esiste una ‘’bottom line’’ di fondo che ha mosso parecchie lingue biforcute per demolire almeno mediaticamente un personaggio come De Giorgi: alcuni per prenderne lo scettro, altri per eliminarlo dalla corsa a possibili futuri incarichi. Non a caso credo che possa valere per tutti l’apprezzamento del premier fatto nell’imminenza del primo attacco all’Ammiraglio ‘’ Stimo molto l’Ammiraglio De Giorgi; in Italia uno è condannato solo con sentenza passata in giudicato; io credo che di De Giorgi si può essere fieri ed orgogliosi’’. Cercando di mettere a fuoco i contenuti, i meriti e la sostanza dell’individuo, De Giorgi per sua fortuna, nonostante le anonime e qualche detrattore da strapazzo, è un Ufficiale Ammiraglio di cappa e spada che crede nelle Istituzioni, visceralmente nella ‘’sua’’ Marina, battendosi come un leone, con ogni energia e sacrificio anche personale affinchè quella Forza Armata non naufragasse nei prossimi dieci anni e diventasse quindi un inutile orpello per la sacrosanta difesa Marittima di questo Paese. In uno scenario di crisi economica contingente, fin dal suo insediamento col governo tecnico di Monti, quasi tre anni e mezzo fa, resosi ben conto della deriva della Marina, non solo come mezzi navali, ma sotto il profilo organizzativo, delle risorse umane e della loro formazione, ha subito posto in atto, due governi orsono, una serie di azioni ‘’riformiste’’ tese a riportare ‘’in galleggiamento’’ l’amata Marina, scevro da ogni interesse personale ma con la determinazione ed una leadership che da sempre lo contraddistinguono, ‘’buttando il cuore oltre l’ostacolo’’ per ricostituire un nuovo ordine nel suo comparto. Ciò ha comportato anche una serie di provvedimenti ed interventi caustici sui vari fronti, forse non sempre collocabili nel moderno concetto del ‘’politically correct’’, ma certamente incisivi e, soprattutto, con indubbi risultati riportando la Marina ed i suoi marinai ad un’efficienza materiale e morale che pareva essere tramontata negli ultimi decenni. Leadership, entusiasmo e amore per la Marina hanno governato il suo operato, riuscendo -pur in una crisi economica grave- a far comprendere alla classe politica pro-tempore l’indispensabilità della nostra Marina quale strumento essenziale per le esigenze della marittimità e della vita del nostro Paese, per far fronte alle attuali e future minacce (dalla pirateria ai flussi migratori, alla lotta contro ISIS in Libia con l’utilizzo di piattaforme idonee, ecc); l’implicito ammodernamento della Flotta costituiva, inoltre, un modo intelligente per far ripartire l’economia di questo Paese nel settore della cantieristica e della sistemistica, evitando così situazioni di crisi e di disoccupazione in tali comparti strategici. Esperti economici e industriali stimano che ad ogni euro speso nella ricostruzione della Flotta corrispondono, tenuto conto dell’indotto, ad un ritorno di 5-6 volte di quanto speso. Che fosse, poi, il MISE a supportarne finanziariamente i costi, a prescindere dal Ministro di turno e da eventuali spinte di faccendieri, era del tutto naturale e coerente con il passato e con quanto previsto dalla nostra Amministrazione Pubblica, in quanto come noto il Bilancio della Difesa, sempre assai striminzito non ha quasi mai consentito di avviare programmi industriali ‘’stand alone’’ di un certo rilievo. I pareri espressi dai vari governi, quindi dalla Politica intesa come comprensiva della volontà del Parlamento, sono stati sempre positivi, accorti, consapevoli e pronti a sposare – pur in quel difficile scenario- le tesi e la grave denuncia dell’Ammiraglio De Giorgi fino all’approvazione della Legge Navale con lo stanziamento iniziale di 6,7 miliardi, diminuiti per varie ragioni ‘’di Interforze’’ fino ai 5,4 miliardi di euro odierni. E la condivisione del progetto non si è limitata alla politica, ma si è estesa ai massimi esponenti dell’industria, dell’economia e perfino delle organizzazioni sindacali che hanno giudicato con gran favore l’iniziativa e l’enterprise del Capo della Marina che ha dato l’anima per il futuro della sua Forza Armata: i risultati ci sono stati, eccome e non solo machiavellici, nonostante i detrattori per definizione e qualche altro invidioso interno al dicastero Difesa che non vedeva di buon occhio queste assegnazioni straordinarie a beneficio della Marina. De Giorgi è uno che sa stare al timone, che sa tenerlo ben saldo anche nelle tempeste, e non consente deviazioni surrettizie di rotta, tanto meno dall’interno; sono comunque i fatti che contano e basta passare in rassegna gli ultimi 40 anni per rendersi conto che progetti di tale caratura, nonostante l’avanzata obsolescenza e la vetustà delle nostre navi, non sono mai stati realizzati ma per trovarne uno simile bisogna tornare alla Legge Navale del 1975, promossa e realizzata dal Capo della Marina pro-tempore, Gino De Giorgi, padre dell’attuale Giuseppe. Il lavoro svolto per convincere le diverse aree competenti e le fette di opinione pubblica è stato improbo (alcuni dicono che De Giorgi merita una medaglia per aver tutelato l’esistenza della Marina e dei suoi marinai..); ha dovuto spendersi in tutte le sedi, dalle aule parlamentari alle reiterate audizioni, ai convegni dedicati, ai confronti, alle illustrazioni sparse un po’ dovunque, con un’azione a lungo raggio, del tutto encomiabile, riuscendo con la forza della ragione rafforzata da una straordinaria capacità comunicativa e operativa a meritarsi la fiducia ed il consenso di una classe politica certamente più sensibile alle esigenze vitali della nostra Marina. In tale sforzo ha dovuto e voluto rapportarsi e stabilire tutta una serie di relazioni con appartenenti a mondi diversi per accattivarsi il consenso alla Legge Navale; non è pertanto escluso che, come capita nel resto del pianeta ed in particolare in Italia, qualcuno abbia cercato di cavalcare in modo opportunistico quel progetto, da mestatori a faccendieri, non sempre con finalità pulite e alla luce del sole. Se, poi, vi sono state delle ‘’influenze’’ poco ortodosse, che siano gli organi preposti a chiarirne la legittimità, e non i media ad anticipare sentenze farlocche mettendo alla gogna individui di valore e la loro reputazione irreversibilmente, e creando -con infiorettamenti malevoli- dissidi e zizzanie all’interno della stessa Difesa e anche sul piano politico: lo scopo di questi beceri individui è quello di infangare il Capo della Marina in modo che non ci possa essere alcuna extension nel suo mandato che scade il 21 giugno prossimo, liberando così la sua cadrega, e nel contempo creando le condizioni inibitorie per una sua nomina di alto profilo, sicuramente rispondente ai suoi meriti e alle indiscusse capacità per ben assolverle. E’ evidente che uno dei massimi problemi di questo nostro ‘’sistema Italia’’ sia proprio questo: demolire le persone capaci ed in grado di ragionare con la propria testa, che sanno tenere con fermezza il timone senza genuflettersi, che non curano le proprie tasche, ed investire sugli ‘’yes man’’ di mezza tacca che però sanno muoversi nelle pieghe burocratiche della nostra società, e se incapaci, inetti ma fedeli, meglio ancora! L’arena su cui si è cimentato l’Ammiraglio De Giorgi non è certo limitata alla Legge Navale; citando ‘’facts and figures’’ si va lontano : ad iniziare dalle sue imprese ‘’storiche’’ dalla prima Guerra in Golfo Persico, all’ eccezionale esito dell’operazione Leonte in Libano , al salvataggio in concorso con la Protezione Civile del Ponte Sant’Angelo travolto dall’alluvione del Tevere, agli esiti di Mare Nostrum con il soccorso ad oltre 150000 migranti, al salvataggio in extremis di oltre 470 marinai in occasione del naufragio della Norman Atlantic, fino alla ristrutturazione dell’Aviazione di Marina e, più recente, di tutti i settori della Marina dal settore operativo a quello formativo, e via dicendo con riconoscimenti oggettivi di ogni genere e provenienti da ambienti anche assai diversi dalle stesse FF.AA. Per non far scomparire i fatti, che hanno consentito di costruire il profilo di una persona di assoluto valore, col rischio di annichilirli e lasciarli in balia di veleni e di illazioni vigliacche contenute nelle proditorie, false e famigerate anonime che, con un voluminoso tomo di 35 pagine, risalgono addirittura al Comando dell’allora Capitano di Vascello De Giorgi in Comando sul Vittorio Veneto, e terminano, sembra, con il caso dei ‘’ 2 fucilieri del San Marco’’, è necessario esaminarle e commentarle con puntualità, conoscenza e coscienza, in un articolo che dovrà seguire..(continua a breve).

Giovanni Giacomini - 13 aprile 2016
fonte: http://www.liberoreporter.it

ENRICA LEXIE-INDIA ___ "I corvi volano sulle teste dei marò"


 

Con l’onda di piena dello scandalo che ha coperto di fango l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di Stato maggiore della Marina, sono tornate a galla le sedicenti “verità nascoste” dell’“affaire Marò”. Secondo il “papello” anonimo, De Giorgi avrebbe beneficiato della gratitudine delle alte sfere militari per aver cancellato le prove del coinvolgimento dell’Ammiraglio di Squadra Luigi Binelli Mantelli, ex capo di Stato maggiore della Difesa, nella disastrosa gestione della crisi della petroliera “Enrica Lexie” in quel drammatico 14 febbraio 2012, a largo delle coste indiane del Kerala.
La denuncia punta il dito contro la superficialità con la quale Binelli Mantelli avrebbe affrontato la situazione determinando, con una catena di sorprendenti errori, il destino dei fucilieri di marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. L’accusa è grave. Tuttavia alcune considerazioni s’impongono per evitare di cadere nella trappola del giustizialismo a buon mercato. Pe quanto ci riguarda riteniamo che non basti far volare uno straccio intinto nel liquame per distruggere l’onorabilità di una persona. Denunciare si deve, ma scegliere di farlo nascondendosi dietro l’anonimato non è il modo giusto per servire la verità. Una lettera anonima è un atto vile e non potrà mai esservi nobiltà di causa che possa giustificarlo. L’accusato, fosse pure la peggiore canaglia, ha il diritto di guardare in faccia il suo accusatore: è questione di civiltà giuridica.
Sorge il sospetto che nell’intruglio variopinto fatto di festini e garçonierre, donnine allegre e cavalli rampanti sulla tolda di Nave “Vittorio Veneto”, tangenti e nonnismo, si nasconda l’ennesimo scaricabarile delle colpe del Governo del “commissario” Mario Monti per l’ingiustificato sacrificio dei nostri marò, abbandonati nelle mani della “giustizia” indiana. La “Enrica Lexie” è stata una pagina nera della recente storia d’Italia e nessuno pensi di cavarsela buttandola in caciara. A suo tempo raccontammo da queste pagine i fatti di cui eravamo stati messi a conoscenza da fonti attendibili. E quei fatti non lasciano dubbi su chi avesse avuto la responsabilità delle scelte disastrose compiute.
Solo per rinfrescare la memoria è bene ribadire un punto centrale della vicenda. Quando il comandante della petroliera, Umberto Vitelli, ricevette l’ordine dalle autorità indiane di far rientro nelle acque territoriali del Kerala e accostare nel porto di Kouchi, non obbedì immediatamente ma prese tempo per consultare la società armatrice. Vitelli ebbe la lucidità di chiedere che l’ordine di rientro gli venisse trasmesso per iscritto a mezzo del fax di bordo, nonostante la sua nave fosse già stata affiancata da unità navali e aeree della Guardia costiera indiana. La richiesta, inizialmente, disorientò gli indiani al punto che trascorsero almeno due ore prima che giungesse la notifica formale dell’ordine d’inversione di rotta. Nel periodo intercorso tra la prima comunicazione e l’arrivo del fax, il comandante Vitelli non rimase inoperoso ma intrecciò febbrili consultazioni con la società armatrice e con le unità di crisi immediatamente allertate a Roma. D’altro canto, la presenza di militari a bordo in missione di protezione, richiedeva il coinvolgimento di un livello decisionale che esuberava dall’ordinaria interlocuzione tra comando della nave e società armatrice. Alla fine, la scelta di obbedire agli indiani giunse dai più alti livelli del governo italiano.
Ora, dopo quattro anni di umiliazioni subìte a causa della tracotanza delle autorità di New Delhi, salta fuori l’anonimo di turno che racconta di un De Giorgi intento, tra un’orgia e una cavalcata, a sbianchettare le carte compromettenti per un singolo personaggio che sarebbe responsabile di tutto quanto accaduto. E noi dovremmo berci ‘sta scemenza?

di Cristofaro Sola - 14 aprile 2016
fonte: http://www.opinione.it


13/04/16

CASO REGENI - Ma l'Italia si mobilita per Regeni o contro Al Sisi?



l'Occidentale - Dal primo giorno della scomparsa al rinvenimento del cadavere di Giulio Regeni, visiting student all’American University del Cairo, i giornali dell’establishment hanno subito puntato il dito contro Al Sisi. Mentre i due tecnici della Bonatti uccisi i primi di marzo in Libia sono stati immediatamente dimenticati, media, blog, social network si sono mobilitati contro l’Egitto.
L’ambasciatore Massari ha dichiarato al Corriere il 6 febbraio che Regeni era stato seviziato e torturato e di avere temuto una fine terribile fin dal giorno della scomparsa, quinto anniversario di piazza Tahrir. L’amico di Regeni Gennaro Gervasio – diceva l’ambasciatore – gli aveva telefonato preoccupato perché aveva atteso invano Regeni per quasi due ore e temeva fosse caduto vittima del regime.
Il generale Al Sisi, il salvatore dell’Egitto dalla dittatura dei Fratelli Musulmani, lo scudo contro il terrorismo islamista, il grande alleato dell’Italia, è diventato all’improvviso il nuovo Hitler. Mai i media si sono tanto impegnati per la morte di un cittadino italiano, tenendo sotto schiaffo governo e magistrati egiziani, e auspicando, come la blogger della Stampa, Francesca Paci, una rivoluzione contro Al Sisi.
Per Francesca Paci, autrice dell’Islam sotto casa, e per tanti blogger e giornalisti di sinistra Regeni è diventato il  martire da gettare in faccia ad Al Sisi e si sono moltiplicate le notizie di movimenti giovanili e sindacali in marcia contro il  dittatore. Poi, il richiamo dell’ambasciatore e l’irritazione egiziana per la politicizzazione dell’omicidio. Il contenzioso tra il governo Renzi e l’Egitto sta diventando complesso, a tratti fumoso, perché il governo Renzi accusa l’Egitto di non volere consegnare i tabulati telefonici, ma i magistrati italiani hanno il pc usato da Regeni per telefonare e quasi 600mila file che non hanno mai passato agli egiziani.
È  singolare che giornali “british” come il Corriere non abbiano mai rivelato in questi mesi l’esistenza di un vasto network italiano di riviste online, blog, osservatori, a cui partecipano anche docenti di università italiane, dal 2014 particolarmente attivo in Egitto per contattare e mobilitare dissidenti e sindacalisti, convinti di poter fare la rivoluzione. Uno degli attivisti più impegnati, il globetrotter del marxismo in Egitto,  è appunto Gennaro Gervasio, docente alla British University del Cairo, l’amico di Regeni che telefonò a Massari, anche autore di un libro sulle arab spring, intitolato Le rivoluzioni della dignità.
Se si legge l’enorme quantità di articoli e interviste di questo network, di cui “il manifesto” è il riferimento teorico principale, è chiaro che quest’armata Brancaleone  sperava di fare la rivoluzione d’Egitto. E un martire è sempre utile per lanciare una rivoluzione. Anche se per gli egiziani i marxisti italiani erano e sono probabilmente l’ultima preoccupazione. Turismo accademico chiacchierone e  squattrinato.
Poiché si sa che la rivoluzione di Gheddafi contro la monarchia filobritannica fu preparata dall’ambasciata di Libia a Roma il 12 dicembre 1969, lo stesso giorno della strage di piazza Fontana, e che il golpe contro Bourghiba per insediare Ben Ali fu opera di Craxi, Andreotti e il Sismi, non si capisce lo scandalo se l’intelligence egiziana avesse sorvegliato l’ambasciata italiana al Cairo, filmando chi entrava e usciva. È regolare routine sorvegliare e intercettare le ambasciate straniere in tutto il mondo, perché le ambasciate sono anche luoghi dove si ricevono dissidenti e oppositori.
Il governo Renzi minaccia ora di boicottare il turismo in Egitto, ma Al Sisi ha ricevuto in questi giorni il sovrano saudita che ha annunciato un ponte sul mar Rosso che collegherà Egitto e Arabia saudita e  i due Paesi hanno firmato accordi di investimenti per vari miliardi di euro. Dal  2013 l’Arabia Saudita e altri Stati del Golfo hanno finanziato generosamente l’Egitto. La Francia ha annunciato un contratto miliardario per forniture militari, la russa Lukoil comprerà da Eni il 20% di Zohr, la tedesca Siemens ha firmato ieri un contratto per modernizzare le ferrovie egiziane.
Gli egiziani non avranno certo problemi a sostituire le imprese italiane. Per il turismo, poi, l’Egitto può contare sui ricchi sudditi dell’Arabia saudita, alleato storico del Regno Unito, dal quale i sauditi sono aiutati nella guerra in Yemen insieme a truppe egiziane. La Russia di Putin e Lavrov, alleata di Iran e Siria, tiene al rapporto con l’Arabia saudita per stabilizzare la sua zona d’influenza e porsi come mediatore autorevole in Medio Oriente.
Fa tristezza l’ottuso cinismo con cui è stata sfruttata la morte del ragazzo di Fiumicello, poiché la politicizzazione della fine di Regeni ha avuto solo la funzione di tentare di azzoppare Al Sisi, perché alleato di Haftar di Tobruk in Libia. In questa ennesima  sceneggiata  del circo politico-mediatico, l’obiettivo è solo la Libia, la folle, assurda speranza che la Libia persa nel 1945, riagguantata nel 1969, tradita, bombardata e persa nel 2011 possa rientrare nell’area di influenza italiana. Solo un establishment alla deriva può coltivare simili illusioni.
Non è necessario essere Sherlock Holmes per sapere che di fronte a un omicidio s’indaga subito su amici, conoscenti e ambiente di lavoro. Poi, chiunque sia stato visiting scholar o visiting professor in una città straniera, anche in città difficili, sa che tutta la vita ruota intorno all’università, dalla pc, alla mensa, alle amicizie, ma anche per chiedere aiuto. Se è vero, è strano che dopo solo due ore che Regeni mancava, l’amico non si sia rivolto ai colleghi e amici della British University del Cairo o dell’American University in cerca di aiuto, ma abbia subito pensato fosse stato sequestrato dai servizi segreti di Al Sisi e  telefonato all’ambasciatore. Giulio Regeni era solo un dottorando, anche come attivista era l’ultima ruota del carro, “il manifesto” neppure voleva i suoi articoli e pubblicava con pseudonimo.
Quindi, se i servizi segreti di Al Sisi avessero voluto davvero accoppare qualcuno dell’armata Brancaleone del Cairo, avrebbe fatto fuori l’amico Gervasio, famoso globetrotter del marxismo in Egitto. Di fronte agli sciacalli dell’armata Brancaleone della rivoluzione e della ragion di stato si prova infinita pena per il ragazzo col gattino.

12/04/16

Caso Regeni, ma quali tabulati d’Egitto?!






Il rifiuto opposto per evidenti, e non limpide, ragioni di Stato dagli inquirenti del Cairo di consegnare sic et simpliciter ai loro omologhi italiani i tabulati e le eventuali registrazioni di telefonate intercettate nel quadro dell’inchiesta egiziana sull’omicidio del povero e compianto ricercatore universitario italiano Giulio Regeni rappresentano, a mo’ di eterogenesi dei fini, una sorta di lezione di civiltà giuridica alla magistratura italiana. Da parte di un Paese dittatoriale. E questo è il paradosso.
La magistratura italiota, abituata  come è a spadroneggiare ed a svillaneggiare su tutti gli esponenti della politica italiana a suon di conversazioni, anche private e irrilevanti dal punto di vista penale, spiattellate ai giornali amici, vedi “Il Fatto Quotidiano” e “la Repubblica”, al solo scopo di sputtanare questo o quel personaggio, politico e non solo, a patto che stia sui cosiddetti al pensiero unico del forcaiolismo made in Italy, è stata presa in contropiede dal “gran rifiuto”. Fatto non “per viltade”, ma per ovvi motivi di realpolitik, a maggior ragione in un regime che è nato da un colpo di Stato contro un precedente regime di tipo fondamentalista islamico, a sua volta nato dalle ceneri della nazione che fu governata (con il pugno di ferro per circa 40 anni) da Mubarak dopo le cosiddette rivolte arabe.
Per la serie “accà nisciuno è fesso”, i magistrati egiziani, che chiaramente dipendono mani e piedi dal potere esecutivo del Cairo impersonato pro tempore dal generale Abd al-Fattah al-Sisi, si sono guardati bene, dal loro comprensibile (ma non condivisibile) punto di vista, dal mettere nelle mani della Procura romana gli eventuali arcana imperi che potrebbero esserci dietro al caso dell’omicidio di Giulio Regeni. E ancora di più si sono guardati bene dal consegnare all’opinione pubblica italiana gli eventuali pettegolezzi che potrebbero risultare da intercettazioni fatte a strascico dalle autorità militari e giudiziarie egiziane. A quelle latitudini i segreti vengono custoditi mediante la fucilazione alla schiena e questo di certo non è un bene. Ma il disinvolto comportamento di gran parte dei Pm della penisola, coniugato con la geometrica potenza di giornali e giornalisti, non di certo con la “G” maiuscola, che vivono dell’effetto “merda nel ventilatore” ha dato il destro anche alle autorità giudiziarie di un Paese non democratico (che controlla tutto come in ogni stato di polizia che si rispetti) ad opporre un “no” diplomatico che eventualmente potrà essere facilmente giustificato anche nelle sedi internazionali che più o meno tutelano gli standard minimi di stato di diritto nei Paesi aderenti all’Onu.
Se è vero infatti che l’Egitto odierno è quello che è, cioè uno stato di polizia con decine se non centinaia o migliaia di desaparecidos e di morti ammazzati da polizia e servizi segreti, o “mukhabarat” che dir si voglia,  come erano il Cile o l’Argentina negli anni Settanta, è altrettanto certo che l’Italia che ha consegnato le chiavi di ogni palazzo del potere ai propri magistrati, che ormai sono diventati istituzionalmente “uber alles”, non può facilmente pretendere rispetto, “verità per Regeni” o per chicchessia mandando avanti questi Pm d’assalto che da soli officiano i riti giudiziari nostrani. La giustizia italiana è talmente un’anomalia mondiale che anche uno stato canaglia può farci le pernacchie quando chiediamo le estradizioni dei criminali, come è accaduto con Paesi del sud-est asiatico quando abbiamo reclamato trafficanti di eroina di grosso livello. Abbiamo, con buona pace del Guardasigilli Andrea Orlando, che fa quel che può, e quel che non può lo proclama, le carceri nel degrado più totale, appena un gradino sopra a standard come quelli dell’Egitto o di altri Paesi nordafricani; non abbiamo separate le funzioni né tantomeno le carriere dei pubblici ministeri da quelle di chi giudica; nessuno controlla che le intercettazioni siano filtrate prima di finire in pasto al pubblico secondo la scelta inappellabile di Pm protagonisti e cronisti d’assalto; non garantiamo neanche l’istituto del processo con la persona presente in aula, che ci aspettiamo?
Che gli egiziani si risveglino, il giorno dopo averci consegnato tabulati e intercettazioni, leggendo non solo con chi parlava questo o quel personaggio politico del Cairo, questo o quel poliziotto, ma anche se faceva o meno le corna alla moglie o se nel privato fosse stato un bisessuale, un ubriacone o un amante dell’hula hoop? Questo andazzo dell’”intercettateci tutti e poi sputtanateci democraticamente sui giornali” potrà valere forse in un Paese ormai abituato a vivere in maniera schizofrenica le istituzioni e la politica, come è diventato il nostro da “Mani pulite” in avanti. Ma al Cairo, al netto del loro stato di polizia, è chiaro che qualcuno può risponderci “ma quali tabulati d’Egitto!”. E il paradosso, lo ribadisco, è che ci tocca anche prendere lezione di stato di diritto da un Paese che uccide la gente nelle stazioni di polizia o negli scantinati dei servizi di sicurezza.

di Dimitri Buffa - 2 aprile 2016


Ammiraglio De Giorgi - Nota di precisazione da Stato Maggiore Marina

 


Riteniamo doveroso diffondere anche noi che non siamo entrati nel merito per ragioni ovvie e legate alla natura della nostra testata, il comunicato stampa appena arrivato in redazione e che riguarda alcune precisazioni dello Stato Maggiore Marina. Di seguito proponiamo integralmente quanto abbiamo appena ricevuto.

I fatti contenuti nel dossier anonimo comparso sugli organi di stampa, forse dettati dall’autore per tutelarsi dal reato di calunnia, sono totalmente inesistenti.

Non è mai stato noleggiato dall’ammiraglio alcun cavallo, che invece si limitò a partecipare (in quanto allora Comandante di Nave Vittorio Veneto) ad un evento organizzato dalla polizia a cavallo di New York in occasione del “Vittorio Veneto Week”.

La Marina Militare non dispone del velivolo Falcon 20. Si esclude inoltre alcuna irregolarità sull’impiego degli aeromobili militari come facilmente desumibile dalla documentazione relativa alle missioni.

Per le promozioni, effettuate da apposite commissioni di avanzamento, sono stabilite precise procedure che garantiscono al personale la valutazione più equa possibile. È stato sempre applicato il criterio della meritocrazia. Peraltro ogni valutato ha piena facoltà di ricorso in caso di insoddisfazione.

Per quanto riguarda le modifiche alle unità navali FREMM, non hanno richiesto fondi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal programma. Le modifiche erano necessarie per migliorare la polivalenza dei locali bordo, al fine del loro utilizzo quali infermerie, aule briefing e aggiuntivi spazi di comando e controllo

Nello stesso tempo le migliorie apportate miravano a tenere conto delle esigenze di abitabilità e di socialità dell’equipaggio.

Tali modifiche, applicate a tutte le unità della classe FREMM, si sono dimostrate alla prova dei fatti estremamente efficaci nelle più importanti operazioni in cui sono state impiegate come MARE NOSTRUM, MARE SICURO e ATALANTA.

Per quanto riguarda la lettera relativa ai battelli sottili, si trattava di avviare un processo di studio/sperimentazione sull’applicazione delle nanotecnologie per le Unità Navali. A seguito della immaturità della tecnologia, rilevata dai laboratori della Marina Militare, nessuna convenzione né appalto è stato sottoscritto con la Società AS AERONAUTICAL.


Del tutto infondate e non meritevoli di commento anche le altre fantasiose illazioni.

Questo dossier anonimo, che riferisce fatti in maniera strumentale, dimostra una volontà di screditare l’immagine della persona del Capo di Stato Maggiore della Marina. Al riguardo il Professor Nocita, legale dell’Ammiraglio, presenterà un esposto con l’auspicio che venga individuato dall’autorità giudiziaria il propalatore delle notizie.

11/04/16

Tempa Rossa, la guerra tra bande prima delle prove vere


tempa rossa 
















 La vicenda delle indagini su Tempa rossa, che ha portato all’arresto del compagno della ormai ex ministro Federica Guidi, va ben contestualizzata. Sia per capire l’inchiesta che per comprendere cosa è questo governo e quali sono le sue prospettive.
Il primo filone di indagine riguarda l'impianto Eni di Viggiano (Potenza). Questa parte dell'indagine riguarda la gestione dei rifiuti. Ed è qui che l’ipotesi di reato è quella di disastro ambientale. Quella che Renzi ha liquidato in tv con la battuta “ma quale disastro ambientale qui non è mai stata estratta una goccia di petrolio”. Il problema è che non siamo al Bagaglino: l’accusa al centro oli dell’Eni di Viggiano non è roba da bar è cosa piuttosto precisa. E’ quella di aver smaltito rifiuti speciali pericolosi come se fossero non pericolosi. Per questo sono state sequestrate, dal Noe, migliaia di cartelle cliniche della Basilicata per studiare l’incidenza della mortalità per tumore in quella complessiva del territorio. Nell’ipotesi di disastro ambientale ci sta anche quella di ampio sforamento dei limiti di inquinamento dell’aria e, siamo citando Avvenire, all’accusa di nascondere “la causa dei malori [dei lavoratori] evitando addirittura d’aprire la procedura d’infortunio sul lavoro”. Tutto questo è stato nascosto, per quanto possibile, dall’ombrello mediatico renziano (che ha inondato lo schermo delle battute del premier) e minimizzato dai media amici. Tra l’altro in Italia ci sarebbe anche un ministro dell’ambiente, quello che aspettava la pioggia quando le metropoli soffocavano o l’autodenuncia della Volkswagen i giorni dello scandalo della casa tedesca, che stavolta ha preferito il silenzio.
Il secondo filone di indagine, ha al centro l'iter che ha portato all'autorizzazione del giacimento Tempa Rossa della Total. Gli indagati sono 23, l’ex compagno della Guidi, mentre sono scattate le manette nei confronti dell'ex sindaco di Corleto, Rosaria Vicino, esponente del Pd lucano. Secondo l'accusa, l’ex compagno della Guidi "sfruttando la relazione di convivenza che aveva col ministro allo Sviluppo economico - si legge dalle carte dei magistrati messe a disposizione in rete - indebitamente si faceva promettere e otteneva da Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total" le qualifiche necessarie per entrare nella "bidder list delle società di ingegneria" della multinazionale francese, e "partecipare alle gare di progettazione ed esecuzione dei lavori per l'impianto estrattivo di Tempa Rossa". Inoltre amministratori locali chiedevano e ottenevano dalle società che stavano lavorando al progetto Tempa Rossa assunzioni e altri tipi di utilità. Questo è lo scandalo che è finito sui media, più di quello ambientale, e che ha fatto saltare la poltrona della ministro Guidi.
A questi primi due filoni si è poi aggiunto un terzo fronte, che per competenza potrebbe lasciare la procura di Potenza e approdare in Sicilia: si tratta dell'indagine sul porto di Augusta. Qui è indagato anche il capo di Stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi, e riguarda un sistema "do ut des", silenzio sulle modalità di trasporto di materiali in cambio di uno sblocco di 5,4 miliardi di fondi alla Marina, in grado oltretutto di assicurare, secondo gli inquirenti, "vantaggi convergenti" ai componenti della presunta associazione a delinquere: De Giorgi, il compagno dell'ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, il capo ufficio bilancio della Difesa e consulente del ministero per lo Sviluppo Economico, Valter Pastena, e il facilitatore Nicola Colicchi. E qui siamo ai clan che si incrociano con i clan, in una alleanza per la spoliazione delle risorse. Ad esempio la famiglia dell'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, esprime il figlio Gabriele collaboratore del sottosegretario dell'Interno Domenico Manzione e allo stesso tempo finanziatore della Fondazione Big Bang del segretario del Pd nel 2014: (1.050 euro registrati sul sito). E la famiglia de Giorgi si tocca con la famiglia Manzione, perché la sorella Antonella è a capo del dipartimento Affari giuridici e legislativi della presidenza del consiglio, portata da Firenze nel 2014 proprio da Renzi. Il potere renziano, mostra quindi una struttura clanica che non dovrebbe lasciare indifferente chi studia il potere politico o chi vuole contrastarlo. Ma la ricerca e il conflitto hanno spesso modelli di rappresentazione del potere o schematici o troppo romantici. Non è certo la prima volta che il potere politico è in mano a dei clan che si scontrano o si alleano.
Niente male per quello che viene definito il Texas italiano: ipotesi di disastro ambientale, pieno coinvolgimento del ministero dello sviluppo, e di quello dei rapporti col parlamento (già coinvolto nello scandalo Banca Etruria), del capo di stato maggiore della Marina. Abbastanza perchè il premier sia stato costretto a intervenire, assumendosi la responsabilità politica di quanto accaduto, occupando i media, e urlando ai quattro venti che le multinazionali del petrolio se investono “fanno bene all’Italia”. Certo, la retorica dell’energia verde, delle rinnovabili a Renzi piace. Ma la realtà è fatta di inchieste su tangenti, favori alle multinazionali e disastri ambientali. Tra l’altro non è mancata la polemica sulla magistratura. A differenza del periodo aureo berlusconiano, dove si accusavano i giudici “comunisti” (sic) di ogni cosa dall’esistenza dei buchi neri a quella della jella, Renzi è stato chiassoso nelle forme e sottile nei contenuti. Il punto è che il potere del petrolio, una commodity che ha perso 100 dollari di valore a barile in un anno e mezzo, è ancora in grado di condizionare vicende ed equilibri dei governi. Specie nelle strutture claniche di potere dove gli scandali servono per registrare i rapporti di potere favorendo vecchi o nuovi soggetti rispetto all’equilibrio politico in corso. E qui, con le rivelazioni fatte filtrare attraverso la Guidi, sul tipo di bande presenti nel governo e su come si fronteggiano, di materia per uno scontro tra clan ce n’è quanta se ne vuole.
Ma sarà la vicenda Tempa rossa a far cadere il governo? Certo, se per Renzi c’è il rischio che il quorum al referendum del 17 aprile (semplicemente mai apparso sui media, e qui si capisce come funziona la democrazia...) venga toccato non è forse quello, per il governo, il problema più grande. Perchè il referendum di ottobre, sulle riforme istituzionali, rischia di essere una Waterloo per Matteo Renzi. Ma il punto vero, quello su cui un governo indebolito dagli scandali rischia sul serio, è legato al tipo di potere che non si esprime tramite elezioni ma tramite moneta. Stiamo parlando delle banche, istituto che oltretutto sta ricevendo ristrutturazioni paragonabili solo a quelle che ha subito la grande fabbrica fordista. La borsa di Milano, per adesso, sta prezzando positivamente l’ipotesi di accordo tra governo e banche private sul futuro del sistema bancario stesso. Se il governo tiene su questo, e sugli sgravi al bilancio ottenuti da Bruxelles, allora per Renzi Tempa rossa e affini possono passare in secondo piano. Avrebbe ottenuto qualcosa di serio per una parte importante del capitalismo italiano, con la benedizione di Bruxelles e Francoforte. Altrimenti la guerra tra bande nel governo farà da preludio ad un meritato cupio dissolvi di un governo comico dagli effetti tragici. Certo, le parole di Draghi, sul rischio di nuovi choc finanziari, non incoraggiano. Ma in politica, come dire, un problema alla volta.

redazione, 9 aprile 2016

10/04/16

Non politicizzare l'assassinio di Giulio Regeni

 
Giulio Regeni
La ricerca dei responsabili dell’efferato assassinio al Cairo del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni merita senza alcun dubbio di venire condotta con il massimo impegno. E bene fa il nostro governo a sollecitare fermamente le autorità egiziane in tal senso. Tuttavia, più il tempo passa e più la vicenda appare caricata di uno spessore politico che ha ben poco a che vedere con quel  crimine, e anche con la spontanea oltre che doverosa partecipazione al dolore dei suoi genitori e dei suoi familiari. Sorprende inoltre il fatto che di recente un altro italiano sia stato non meno barbaramente assassinato a Caracas, in circostanze molto simili, senza che ciò abbia affatto trovato altrettanta eco sulla stampa del nostro Paese, né altrettanta mobilitazione da parte del nostro governo.

Alla notizia del ritrovamento del corpo di Giulio Regeni è immediatamente scattata in Italia una campagna di stampa contro il governo egiziano, subito indicato come responsabile più o meno indiretto dell’assassinio. Che un governo “forte” come quello del generale Adb al-Fattah al Sisi non abbia un curriculum impeccabile in fatto di diritti umani, e che disponga di un grande apparato di sicurezza nonché di servizi e polizie segrete, è semplicemente ovvio. Che  però per questo abbia il controllo assoluto di qualsiasi cosa accada in Egitto è un’assurda pretesa. A ragione non lo si pretende da alcuno Stato, nemmeno dalle più consolidate ed efficienti democrazie; né tanto meno lo si può pretendere da un Paese strutturalmente autoritario come l’Egitto.  

L’assassinio di Regeni è inoltre un crimine che indiscutibilmente gioca contro il governo di Al Sisi. Se dunque si dovesse appurare che il ricercatore italiano è stato sequestrato e ucciso da servizi o da polizie segrete, non si potrebbe se non concludere che si tratta di un crimine voluto da segmenti dell’apparato di polizia egiziano che sono schierati contro l’attuale governo. Se dunque l’obiettivo è soltanto quello di appurare le verità sull’omicidio di Regeni allora l’Italia dovrebbe assumere un atteggiamento di collaborazione con il governo del Cairo invece di presumere a priori che sia il mandante del delitto o in ogni caso il protettore degli assassini. E’ viceversa evidente che c’è chi punta non tanto a scoprire chi ha ucciso Regeni e per quali motivi, bensì a far leva sulla vicenda per mettere in crisi le relazioni fra l’Italia e l’Egitto.

Per meglio capire di quale entità sia la posta in gioco è utile ricordare che nello scorso agosto in un’area delle acque territoriali egiziane in concessione all’Eni è stato scoperto un gigantesco giacimento di gas, ora noto col nome di Zhor, che potrebbe entrare in produzione già nell’anno prossimo. Si parla di una riserva di 850 miliardi di metri cubi di gas metano, cui si aggiunge un altro giacimento sottostante che contiene probabilmente petrolio o condensati. Da Zhor si prevede di estrarre nella fase di massimo sfruttamento da 70 a 80 milioni di metri cubi al giorno, pari a 30/35 miliardi l’anno. Forte di questa nuova gigantesca risorsa l’Eni si è fatto promotore di un progetto strategico la cui attuazione muterebbe a vantaggio dell’Italia l’intero quadro del mercato energetico europeo. L’idea è quella di creare una rete di impianti grazie a cui avviare verso l’Europa in modo coordinato gas proveniente sia dai giacimenti egiziani che da quelli, pure molto importanti ma oggi sotto-utilizzati, rispettivamente di Cipro e di Israele. Cipro diventerebbe in tale prospettiva il crocevia di gasdotti e di rotte di navi petroliere, nonché la sede di impianti di liquefazione e rigassificazione a servizio di questi giganteschi flussi di gas e di petrolio. L’Italia diventerebbe perciò la principale porta d’ingresso del gas naturale in Europa, purché l’attuale rete dei gasdotti europei venga a tal fine adeguata.

In questo quadro Giulio Regeni viene rapito e ucciso, e il suo corpo viene abbandonato sul ciglio di una delle autostrade egiziane più frequentate proprio mentre l’allora ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, si trova al Cairo per definire nuovi accordi di collaborazione con l’Egitto alla luce delle prospettive aperte dalla scoperta del giacimento Zhor. Il ministro non può perciò fare altro che sospendere la visita e rientrare a Roma in segno di lutto. Inizia poi subito la campagna di stampa di cui si diceva, accompagnata da un crescente inasprimento dei rapporti italo-egiziani fino al richiamo ieri a Roma dell’ambasciatore d’Italia al Cairo “per consultazioni”.

La stampa più influente non cessa di invitare il governo Renzi ad assumere un atteggiamento sempre più duro contro il governo del Cairo. E “se questo scenario dovesse prodursi”, osservava ieri (compiaciuto) il Corriere della Sera, “è impensabile possa aver luogo il vertice inter-governativo tra Matteo Renzi e Al-Sisi, accompagnato dalle rispettive squadre di ministri, previsto per quest’anno in una data non ancora stabilita”, ovvero il vertice nel corso del quale si dovrebbero  concludere e siglare i nuovi accordi di cooperazione nel quadro delle prospettive apertesi con la scoperta del giacimento Zhor. Stando così le cose, la gamma dei possibili motivi che hanno armato la mano degli assassini di Giulio Regeni inevitabilmente si amplia. L’efferato assassinio del giovane studioso - che  qualcuno aveva mandato un po’ allo sbaraglio in uno Stato di polizia a fare ricerche pericolose per un ricercatore che operava da solo e senza adeguato accreditamento - potrebbe esser stato voluto da chi è pronto a tutto per fermare gli sviluppi del processo messo in moto dalla scoperta di Zhor. 
 
di Robi Ronza - 10-04-2016

VICENDA MARO' - «Giusta reazione col Cairo, umiliati da New Delhi»

 DUE PESI E DUE MISURE

Parla angela Del Vecchio, docente di diritto internazionale all'università Luiss di Roma

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Del caso marò «all’umiliazione subita dall’India quando limitò le immunità diplomatiche del nostro ambasciatore nel marzo 2013», fino all’atto compiuto dal governo italiano richiamando l’ambasciatore al Cairo per il caso di Giulio Regeni: relazioni diplomatiche e dignità nazionale sono al centro di una conversazione con la professoressa Angela Del Vecchio, docente di diritto internazionale all’università Luiss Guido Carli.

Professoressa, che rilevanza ha richiamare per consultazioni l’ambasciatore?
«Italia ed Egitto non hanno chiuso le relazioni. Il nostro governo ha richiamato a Roma l’ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari».

È una misura che segna l’incrinarsi dei rapporti?
«Il richiamo per consultazioni è una misura frequente. Significa che nei rapporti tra due stati ci sono delle difficoltà rilevanti. Nel caso dell’Egitto la una situazione è complessa».

Il rientro dell’ambasciatore Massari...
«Non è una misura particolarmente grave. L’ambasciatore viene richiamato e si consulta alla Farnesina con il ministro degli Esteri: riferirà a Paolo Gentiloni sulla situazione legata al caso Regeni».

Per lanciare un messaggio più forte che strumenti ci sono?
«La rottura delle relazioni diplomatiche. L’ultimo caso si è registrato dopo l’attacco degli islamisti al consolato americano a Bengasi, con la morte dell’ambasciatore Usa in Libia, Christopher Stevens. Come reazione Washington ha interrotto le relazioni con la Libia. Un messaggio politico».

Torniamo all’inchiesta Regeni.
«L’Italia è insoddisfatta dei rapporti con l’Egitto, le istanze del governo hanno difficoltà ad essere recepite dalla controparte, al punto che è stata avanzata un’altra rogatoria internazionale per accertamenti e prove. Mentre il governo egiziano non ha richiamato il proprio ambasciatore a Roma».

Nella contesa con l’India per i marò, l’Italia poteva essere più incisiva?
«Nel caso di Latorre e Girone bisognava fare ben altro. Nel marzo 2013 abbiamo subito una offesa gravissima con la limitazione delle immunità diplomatiche dell’ambasciatore Mancini, un provvedimento che non si applica nemmeno in tempo di guerra. Lì sarebbe stato significativo richiamare il nostro diplomatico».

Perché?
«Si tratta di un caso che si studia nelle università e rappresenta un’umiliazione unica per la dignità nazionale di un paese. La libertà di movimento di un diplomatico è una immunità riconosciuta che risale addirittura alla Repubblica Veneta».

Il governo di Mario Monti cosa avrebbe potuto fare?
«Doveva convocare a Roma l’ambasciatore. Se il rientro di Mancini in Italia fosse stato impedito dall’India, l’Italia doveva ricorrere alla Corte Internazionale di Giustizia, per una violazione delle norme sulle relazioni diplomatiche più antiche che ci sono».

L’immobilismo dell’esecutivo ha avuto conseguenze con l’India?
«Certo. La Corte suprema di Nuova Delhi e il ministero dell’Interno indiano hanno ritirato il provvedimento ma l’Italia è rimasta immobile, una posizione molto debole».

Il silenzio di Roma...
«Ha indebolito la posizione italiana. Siamo rimasti inermi di fronte a violazioni gravi del diritto diplomatico e consolare. L’India ha pensato di poter essere meno rispettosa nei nostri confronti. L’Italia non è apparsa né forte né dignitosa».

Il 13 aprile c’è una nuova udienza della Suprema corte indiana: si deciderà della proroga del permesso di Latorre.
«C’è da attendersi che si prosegua nel blocco di ogni procedura giudiziaria per i fucilieri di Marina, stante la procedura arbitrale».

Si attende anche il responso del Tribunale de l’Aja sulla richiesta italiana di rimpatrio di Girone.
«Difficile fare previsioni. In Olanda i magistrati decideranno secondo il diritto internazionale».

Michele De Feudis- 10 APRILE 2016
FONTE: http://www.iltempo.it