Intervista al presidente di Eni:
tagliare i sussidi alle rinnovabili e farla finita con il tabù del
fracking. Solo una rivoluzione energetica ci salverà da un’inesorabile
declino
United Rentals, la più grande compagnia al mondo per il noleggio di attrezzature edili e lavori cantieristici, ha deciso di comprare National Pump, la seconda azienda del Nord America specializzata nel noleggio di pompe idrauliche e leader indiscusso del mercato finale del settore Oil&Gas. Secondo l’agenzia Reuters il motivo è che a Stamford, in Connecticut, dove ha sede il quartier generale di United Rentals, i vertici del gruppo sarebbero intenzionati a non farsi scappare l’El Dorado delle nuove energie, ovvero lo shale gas e lo shale oil, il gas e il petrolio naturale intrappolati negli scisti argillosi a migliaia di metri sottoterra. Idrocarburi che fino a pochi anni fa erano totalmente inestraibili, ma che ora, grazie alle rivoluzionarie scoperte di George P. Mitchell, il pioniere del fracking, possono essere portati alla luce con procedimenti ingegneristici che prevedono il pompaggio di acqua ad alta pressione mista a reagenti chimici nei giacimenti del sottosuolo, la conseguente fratturazione delle rocce (fracking) e quindi l’emersione in superficie della preziosa fonte energetica.
Quella dello shale gas è una vera e propria rivoluzione, come sono soliti definirla in Eni, le cui conseguenze geostrategiche sono destinate a interessare molti paesi. Soprattutto in Asia e in Europa. L’agenzia internazionale per l’Energia dell’Ocse (Iea), infatti, calcola che i paesi del Medio Oriente saranno costretti a esportare in futuro il 90 per cento del proprio petrolio in Asia. Con la Cina e l’India a farla da padroni tra i compratori. E l’avvento del gas d’argilla potrebbe addirittura affrancare, almeno in parte, molti Stati del Vecchio continente dalla dipendenza dal gas russo. Gli Stati Uniti stanno già sperimentando i benefici dello shale e, secondo la Iea, a partire dal 2020 dovrebbero diventare autosufficienti per il gas naturale e ridurre ad appena il 30 per cento le importazioni di greggio.
E soprattutto, se gli Stati Uniti sono riusciti a superare la crisi del 2007, è anche merito del gas di scisto che nel 2000 rappresentava solo l’1 per cento del gas naturale consumato, mentre nel 2012 era circa il 25 per cento e si stima che possa superare il 50 per cento nel 2030. Intanto, in attesa che l’America conquisti la tanto agognata indipendenza energetica e possa diventare uno dei più solidi paesi esportatori di gas naturale, quello che è certo è che il notevole risparmio sul costo dell’energia generato grazie allo shale gas ha già permesso di risollevare le sorti dell’industria chimica a stelle e strisce, dell’acciaio, dell’alluminio, dell’automotive, delle costruzioni e delle infrastrutture.
E mentre anche la Cina ha cominciato a verificare la disponibilità di shale gas nel suo territorio, chi arranca è l’Europa, imprigionata tra i ritardi e i nazionalismi delle politiche energetiche dei singoli stati, l’assenza di una politica energetica comunitaria e gli oneri di una sconsiderata campagna a sostegno delle rinnovabili che finora è già costata 60 miliardi di euro in sussidi.
A raccontare a Tempi
le prospettive che lo shale gas ha già aperto agli americani e potrebbe
squadernare davanti agli occhi talvolta increduli di noi europei è
Giuseppe Recchi, presidente di Eni, la prima azienda italiana, nonché
uno dei global player in «quell’ingranaggio affascinante e complesso che
è il mercato dell’energia».
Presidente, nel suo libro, Nuove Energie. Le sfide per lo sviluppo dell’Occidente,
lei ha scritto che «non c’è crescita senza energia». Che ruolo possono
giocare le «nuove energie» nella sfida per la ripresa e la fuoriuscita
dalla crisi?
Un ruolo senza dubbio fondamentale, perché senza energia non solo non c’è crescita, ma si rischia persino il declino. Ed è questo un pericolo che tanto l’Europa quanto l’Italia devono a ogni costo scongiurare. Soltanto che, per allontanare questa indesiderata prospettiva dall’orizzonte, non c’è che una semplice soluzione da adottare: pianificare gli interventi. Proprio come stanno facendo da anni gli Stati Uniti e la Cina con lo shale gas e lo shale oil. Mentre l’Europa sul tema ha ancora molto da fare. E ciò, nonostante queste risorse siano presenti in larga parte anche nel sottosuolo del Vecchio continente, specie in Polonia, Francia e Regno Unito, oltre che in Russia ed Ucraina. Ma l’Europa, a differenza dell’America e di Pechino, non pare nemmeno essersi accorta che la domanda di energia nel resto del mondo sia in crescita continua, trainata proprio dal fabbisogno cinese. Se non vogliamo essere condannati all’inesorabile declino, sarebbe molto meglio non rinunciare a pianificare il futuro.
Un ruolo senza dubbio fondamentale, perché senza energia non solo non c’è crescita, ma si rischia persino il declino. Ed è questo un pericolo che tanto l’Europa quanto l’Italia devono a ogni costo scongiurare. Soltanto che, per allontanare questa indesiderata prospettiva dall’orizzonte, non c’è che una semplice soluzione da adottare: pianificare gli interventi. Proprio come stanno facendo da anni gli Stati Uniti e la Cina con lo shale gas e lo shale oil. Mentre l’Europa sul tema ha ancora molto da fare. E ciò, nonostante queste risorse siano presenti in larga parte anche nel sottosuolo del Vecchio continente, specie in Polonia, Francia e Regno Unito, oltre che in Russia ed Ucraina. Ma l’Europa, a differenza dell’America e di Pechino, non pare nemmeno essersi accorta che la domanda di energia nel resto del mondo sia in crescita continua, trainata proprio dal fabbisogno cinese. Se non vogliamo essere condannati all’inesorabile declino, sarebbe molto meglio non rinunciare a pianificare il futuro.
A quanto ammonta, se è possibile stimarlo, il gap tra America ed Europa sullo sfruttamento dei giacimenti di shale gas?
È un ritardo fortissimo. Perché da noi i giacimenti di shale gas non
mancano affatto, anche se, si stima, in misura inferiore: fatta 1 la
quantità di risorse disponibili in Europa, si può dire che negli Stati
Uniti è pari a 1,5 e in Cina a 2,5 volte quella del Vecchio continente.
Ma ciò che manca è il consenso politico per sfruttare quelle risorse.
Non è un caso, infatti, se gli Stati Uniti perforano ogni anno 20 mila
pozzi, mentre da noi in Europa si sono fatti una cinquantina di pozzi in
Polonia e i risultati dal punto di vista minerario sono stati
deludenti. Ed è un peccato, perché in America lo shale gas ha già
offerto una possibilità di impiego a 2 milioni di persone, compreso
l’indotto, e il valore aggiunto prodotto rappresenta ormai circa 2 punti
percentuali del Pil a stelle e strisce. Per fare un altro esempio, il
trasporto ferroviario utilizzato per trasportare il greggio è passato
nel 2008 da 10 mila vagoni cisterna che si sono moltiplicati fino a
raggiungere i 400 mila nel 2013. E anche la manifattura ne ha
beneficiato enormemente in termini di risparmio sui costi della bolletta
energetica, guadagnandone sia in termini di produttività sia, come
conseguenza, di competitività sul mercato globale. Tanto che le imprese
americane hanno cominciato a riportare in patria la produzione che in
precedenza avevano delocalizzato.
È un ritardo che l’Europa può ancora colmare?
È necessario che l’Unione Europea adotti una politica comunitaria in
materia capace di disciplinare con intelligenza lo sfruttamento dei
giacimenti esistenti o i cosiddetti non-convenzionali come lo shale gas.
Per esempio, non c’è ancora in Europa un ente rappresentante degli
interessi di tutti i paesi europei in materia energetica, ma le
decisioni sono ancora appannaggio dei singoli Stati. Forse, è ora di
cambiare passo. Bisognerebbe poi rivedere la formula dei sussidi
concessi alle energie rinnovabili, che, stanti le tecnologie attuali,
non sono ancora autosufficienti e i cui costi hanno avuto ripercussioni
sulle bollette dei cittadini e delle imprese. In Italia, per esempio, le
rinnovabili hanno ricevuto nel 2013 oltre 11 miliardi di euro che
rappresentano il 18 per cento del costo della bolletta. I benefici in
riduzione di anidride carbonica che derivano dall’uso di energie verdi
sono stati assorbiti dall’ampio uso di carbone, oggi molto economico.
Un’altra grave disparità che va superata è rappresentata dal fatto che,
mentre in America il proprietario di un terreno lo è anche del
sottosuolo, in Europa non è così e spesso l’unica soluzione per
raggiungere i giacimenti rimane l’esproprio da parte dello Stato.
La tecnica estrattiva dello shale gas, la fratturazione idraulica, desta ancora qualche preoccupazione oltreoceano e i gruppi anti-fracking sono presenti anche in Europa. Lei cosa ne pensa?
Quanto al rispetto dell’ambiente, gli Stati Uniti non sono secondi a
nessuno dei paesi dell’Unione Europea e hanno introdotto una normativa
severa per regolare le modalità di estrazione. Anzi, spesso sono ben più
attenti e premurosi di noi europei. Ad ogni modo la tecnologia è la
migliore risposta ai problemi dello sviluppo e le soluzioni individuate
consentono di limitare l’emissione di Co2 e di utilizzare l’acqua
impiegata per la fratturazione in piena sicurezza, senza inquinare
l’ambiente.
L’Italia, che è priva di giacimenti di shale gas, cosa può fare per superare la crisi?
L’Italia ha un costo dell’energia che non solo è superiore a quello
dell’America ma che è tra i più elevati in Europa. E non può più
permettersi di dipendere per l’85 per cento delle risorse energetiche
dall’estero. A maggior ragione quando detiene ampi giacimenti
petroliferi inutilizzati. Si calcola, infatti, che la mancata
concessione dei diritti di estrazione sia costata al paese 40 miliardi
di euro di mancati incassi in vent’anni per i diritti minerari e circa
100 miliardi di euro, nello stesso periodo, per acquisti fatti
all’estero che si sarebbero potuti risparmiare. Dobbiamo poi fare tutto
il possibile per incentivare il risparmio energetico sia in casa sia in
azienda, per esempio differenziando i prezzi in base agli orari oltre
che aumentare la diversificazione degli approvvigionamenti costruendo
nuovi rigassificatori.
Matteo Rigamonti - marzo 24, 2014
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