Giulio Regeni, cittadino italiano e dottorando dell’Università di Cambridge, scomparso al Cairo dieci giorni fa, è stato massacrato. A chi giova questo brutale omicidio? Non alla credibilità del presidente egiziano al-Sisi, già sospettato dall’opinione pubblica occidentale di essere un sanguinario dittatore. Non favorisce lo sviluppo dei rapporti commerciali tra l’Egitto e l’Italia, messi prontamente in stand-by dopo la scoperta del fatto di sangue. Regeni era al Cairo per motivi di studio: stava completando una tesi in politica economica. Il suo interesse scientifico era focalizzato sull’esperienza di lotta dei movimenti sindacali indipendenti e sull’azione repressiva del regime di al-Sisi contro le libertà e i diritti dei lavoratori. Questo potrebbe essere stato un buon movente per le forze di sicurezza egiziane che avrebbero sequestrato e poi torturato il giovane italiano, fino a provocarne la morte.
Che la sua sparizione sia avvenuta nel giorno dell’anniversario della rivolta di piazza Tahrir, che portò nel 2011 alla caduta di Hosni Mubarak e alla salita al potere dei Fratelli Musulmani, è più di una coincidenza. Ma i militari egiziani sarebbero stati tanto stupidi da non valutare a dovere le negative ricadute geopolitiche ed economiche conseguenti al sequestro e all’uccisione di un giovane cittadino di uno Stato amico? Ci sarebbe poi la pista dell’integralismo islamico. Le menti fini dello Jihadismo hanno dimostrato di non farsi scrupoli a usare anche le vite di quegli occidentali che non nutrono pregiudizi nei confronti della loro causa. È capitato in Siria con le “allegre cooperanti” Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, il cui riscatto è servito a finanziare la “buona causa” dei terroristi.
E se la vita di Giulio fosse servita per far saltare il banco delle relazioni tra l’Italia e l’Egitto? Anche questa è un’ipotesi. Altrimenti, chi lo voleva morto? C’è dell’altro. Giulio Regeni è giunto nel suo amato Egitto da studioso, ma si è lasciato rapire dal demone del giornalismo. Non gli bastava più osservare: voleva testimoniare la realtà. Così ha iniziato a scrivere per il quotidiano “Il Manifesto”. Con un’avvertenza: i suoi pezzi dovevano essere pubblicati con uno pseudonimo. Regeni, per quanto alle prime armi, era consapevole del pericolo che correva in una terra che ha scarsa dimestichezza con le regole dello Stato di diritto. Quindi, nessuno avrebbe potuto collegare il suo nome agli articoli che criticavano fortemente la condizione dei lavoratori egiziani. Con tutto il rispetto per i colleghi de “Il Manifesto” non è che si stia parlando del New York Times: il giornale della ultrasinistra italiana, sebbene dignitosissimo, ha una platea di lettori molto contenuta. È pensabile che al-Sisi e compagni siano stati talmente spaventati dalle inchieste del giornale italiano da ordinare alla propria intelligence di scoprire l’identità del testimone sul campo per neutralizzarlo con inaudita ferocia? Anche qui: possibile, ma poco realistico.
Chi, oggi, lega la morte del giovane alla sua attività di giornalista di denuncia, dovrebbe porsi un ben più inquietante interrogativo: chi ha tradito Giulio, svelandone l’identità? Toccherà alla squadra degli inquirenti italiani, che affiancheranno i colleghi egiziani nell’indagine, passare al setaccio la vita del dottorando per scoprire chi l’abbia potuto “vendere” e perché. Regeni potrebbe aver confidato la sua attività segreta alla persona sbagliata. La sua breve storia si è svolta in giro per il mondo, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna: Paesi nei quali prosperano aziende e gruppi di potere che non fanno certo i salti di gioia per il successo degli interessi economici italiani in Nord-Africa. Giulio Regeni potrebbe essere stato vittima di un gioco molto più grande di lui. Comunque sia, le ipotesi restano ipotesi: ciò che serve è che la verità salti fuori. Al più presto.
di Cristofaro Sola - 06 febbraio 2016
fonte: http://www.opinione.it