L'ex ministro “è l'istigatore del contatto Ros-Cosa Nostra”
Palermo.
 “Chiediamo una condanna per Mannino a nove anni di reclusione più le 
pene accessorie previste dalla legge”. E' questa la richiesta di pena 
formulata dall'accusa (rappresentata dal procuratore aggiunto Vittorio 
Teresi e dai sostituti Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del
 Bene) per Calogero Mannino al processo contro l’ex ministro 
democristiano Calogero Mannino, imputato con il rito 
abbreviato per la Trattativa Stato mafia. Mannino è imputato del reato 
disciplinato dagli articoli 338 e 339 del codice penale, ovvero violenza
 o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Teresi, che oggi ha 
concluso la propria requisitoria davanti al gup Marina Petruzzella, ha 
indicato nel politico democristiano come “l'istigatore principale di 
quel contatto tra Mori e De Donno e Cosa Nostra affinché non lo si 
ammazzi. E non voglio dire che questo è l'unico fine della trattativa ma
 sicuramente è l'unico fine di Mannino che si adopera anche con altri 
esponenti istituzionali per scegliere la via del dialogo”. “Quando 
Mannino disse a Gargani 'la Procura di Palermo ha capito tutto' diceva 
il vero - ha aggiunto Teresi - Si è riusciti a trasformare quel che si 
era capito in prove giudiziarie. Le sue parole, 'ora ci fottono', 
'Ciancimino ha detto la verità su di noi' vanno direttamente collegate 
al ruolo avuto dal Mannino dopo la morte di Lima, dopo le stragi, il suo
 rapporto con Mori, il suo sollecitare la non applicazione del 41 bis.
E' lui l'istigatore principale di quel contatto tra Mori e De Donno e
 Cosa Nostra affinché non lo si ammazzi”. Il pm ha chiarito che evitare 
l'omicidio di Mannino, che temeva di essere ammazzato come Salvo Lima 
per non aver tenuto fede all'impegno con i boss per un buon esito del 
maxiprocesso, “non è l'unico fine della trattativa, il che sarebbe 
riduttivo, ma è certamente l'unico fine di Mannino”. Con il suo agire 
l'ex ministro "rafforza con questo la determinazione di Mori, De Donno e
 Subranni a parlare con Riina. Mannino vuole che Cosa Nostra pensi ad 
altro, cinicamente pensi ad altri. Altre vittime, altre stragi, non 
Mannino”. Secondo l'accusa l'imputato ha quindi sollecitato 
“l'interlocuzione con Cosa Nostra, ma anche con altri esponenti 
istituzionali, perché bisogna scegliere la via dell'accordo mentre gli 
uomini dello Stato avrebbero dovuto cercare la strada per distruggere 
Cosa Nostra, non quella di conviverci e coesisterci". 
Con il 
processo a Mannino, che è stato rinviato al 3 marzo per proseguire con 
gli interventi delle parti civili, per la prima volta un giudice si 
esprimerà sulla trattativa. Una vicenda che secondo l'accusa, così come 
spiegato nella requisitoria, vede il coinvolgimento di Mannino in più 
fasi. Prima di tutto il suo è uno dei nomi che viene inserito nella 
lista di politici da eliminare, stilata da Cosa Nostra. E' da quel 
momento che su richiesta dell'ex ministro prenderebbe il via il dialogo.
 “Quando Mannino disse a Gargani 'la Procura di Palermo ha capito tutto'
 diceva il vero - ha detto stamattina Teresi - Si è riusciti a 
trasformare quel che si era capito in prove giudiziarie. Le sue parole, 
'ora ci fottono', 'Ciancimino ha detto la verità su di noi' vanno 
direttamente collegate al ruolo avuto dal Mannino dopo la morte di Lima,
 dopo le stragi, il suo rapporto con Mori, il suo sollecitare la non 
applicazione del 41 bis allo stesso Di Maggio”.
L'interlocuzione a colpi di bombe
Durante la 
requisitoria Teresi si è concentrato in particolare sull'analizzare 
quanto avvenuto nel corso del 1993 non solo all'esterno, con le bombe di
 via Fauro, via dei Georgofili, via Palestro, San Giorgio al Velabro e 
San Giovanni in Laterano, ma anche all'interno delle istituzioni. E' 
quello infatti l'anno degli scossoni sia all'interno dell'universo 
politico (come la sostituzione del ministro della Giustizia Martelli con
 Conso), che in quello carcerario (la sostituzione di Amato con 
Capriotti alla direzione del Dap e la nomina di Di Maggio come vice). 
Nella sua requisitoria Teresi ha ricordato quindi che all’indomani della
 strage di via dei Georgofili Mannino rilasciò un'intervista in cui, 
contrariamente a quanto detto dai principali investigatori dell'epoca, 
Mannino diceva che a compiere la strage non erano i boss. Per il 
procuratore aggiunto l’ex ministro democristiano è “perfettamente 
consapevole che, dopo la strage di Capaci, ha bisogno 
dell'interlocuzione con la mafia perché sa che è nel mirino della mafia.
 In questo momento iniziano i suoi incontri con Mori e Contrada come 
testimoniano le agende dell’uno e dell’altro. Lui (Mannino, ndr)
 conosce ed interferisce con il Dap per realizzare cosa è possibile dare
 ai mafiosi, per convincere alcuni settori istituzionali, per 
acconsentire alle richieste, le uniche che gli possono oggettivamente 
salvare la vita”. Ecco quindi che si arriva alle mancate proroghe di 
centinaia di 41bis così da dare “un segnale di distensione”.
Interferenze con il Dap
Nella documentazione 
citata dal pm si fa riferimento ad una prima riduzione del 10% dei 
decreti firmati da Martelli. Il tutto avviene meno di un mese dopo la 
strage di Firenze. Per Teresi si tratta di “un segnale di distensione 
immotivato, ma fortemente voluto dal Dap e da chi, fuori dal Dap, aveva 
assoluta necessità di far vedere a Cosa Nostra che stava adempiendo alle
 obbligazioni assunte”. Ma chi c’era fuori? “Mannino che telefona a Di 
Maggio” per chiedere di “non far applicare” e di “ritardare” alcuni 41 
bis. Il pm ha ricordato che in quel momento ai vertici del Dap si 
parlava anche, in maniera riservata, di creare all’interno delle carceri
 delle “aree omogenee” da “destinare ai dissociati di mafia”. Secondo la
 ricostruzione del pm il 41 bis “potrebbe rappresentare il primo 
concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. 
“Per capire cosa accade nel 1993 - ha spiegato Teresi - bisogna capire 
la rivoluzione copernicana al ministero della giustizia accompagnata 
dalla sostituzione al Dap dove il problema carcerario era una risposta”.
 Il Dap “doveva essere controllato da personaggi che fossero disposti a 
consentire la realizzazione di talune richieste di Cosa Nostra”, 
soprattutto in merito all’“attenuazione del 41 bis”. Torna quindi sotto i
 riflettori la questione dei messaggi della “falange armata” contro il 
41bis. Teresi ricorda che l’allora capo del Dap Nicolò Amato è “meno in 
sintonia” con il neo Guardasigilli Conso precisamente in tema di carcere
 duro. “Conso non tiene in nessun conto” le indicazioni di Amato 
sull’effettivo potenziamento del regime del 41bis. Non solo. Tra i primi
 atti compiuti vi è un annullamento di un decreto firmato da Martelli 
con cui venivano potenziati i regimi carcerari a Secondigliano e a 
Poggio Reale dopo gli omicidi “simbolici” del sovraintendente Pasquale 
Campanello e dell’agente penitenziario Michele Gaglione. Nel 
ripercorrere le varie fasi degli avvicendamenti ai vertici del Dap 
Teresi ha evidenziato le “anomalie” di certe procedure come 
“l'intervento di figure ecclesiastiche come l’ex ispettore generale dei 
cappellani delle carceri, Cesare Curioni, e del suo fedele vice, Fabio 
Fabbri, chiamati appositamente da Scalfaro per farsi consigliare sul 
sostituto di Amato al Dap. Oppure come l'azione mirata a conferire 
l'incarico di vice direttore al Dap a Francesco Di Maggio, semplice 
magistrato di tribunale, privo di quel livello di professionalità per 
potersi occupare delle carceri.
Il parere di D'Ambrosio
Per unire i vari tasselli
 che ruotano attorno alla nomina di Di Maggio al Dap Teresi ha ripreso 
la conversazione telefonica tra Nicola Mancino e l’ex consulente 
giuridico del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Loris 
D'Ambrosio. L’intercettazione è quella del 25 novembre 2011 quando a 
Mancino il dott. D’Ambrosio dichiara: “Uno dei punti centrali di questa 
vicenda comincia a diventare la nomina di Di Maggio”, per sentirsi 
rispondere: “E certo, non aveva i titoli”, prima di replicare: “Ecco, e 
diventa dirigente generale attraverso un decreto del presidente della 
Repubblica no? Ora io ho assistito personalmente a questa vicenda (…) Io
 ricordo chiaramente il decreto scritto, il Dpr scritto nella stanza 
della Ferraro (Liliana Ferraro, all’epoca direttore degli affari penali 
del Ministero, ndr.), il Dpr che lo faceva vice capo del Dap”. 
Di fatto si tratta della dimostrazione plastica della piena conoscenza 
di D’Ambrosio dell’irritualità della nomina di Di Maggio al Dap, una 
notizia inizialmente taciuta ai magistrati che lo avevano interrogato.
Mori e la sua immorale definizione di “baratto”
“L'altro
 giorno, Mori - ha sottolineato Teresi - intervistato ad una nota 
trasmissione tv, dopo essere stato convocato al Copasir, anziché andare 
in quella sede, ed evocando i fatti per la prima volta, usa una parola 
che è a dir poco scandalosa nella sua immoralità. Dice (Mori, ndr)
 che è stato sostanzialmente un ‘baratto’ (uno scambio di cose) ‘abbiamo
 dato un regime carcerario meno pesante’… si, e loro hanno dato i morti…
 Questo è un cinismo che fa paura. E’ questa la logica di quei 
commentatori che parlano di una trattativa ‘per evitare le stragi’. No! 
Tutto questo ha indotto le stragi. Da quel ‘baratto’ abbiamo avuto i 
morti!”.
Quelle carte che profetizzavano la trattativa
Nella
 sua lunga requisitoria il pm ha ripreso inoltre due documenti 
fondamentali per contestualizzare il grado di consapevolezza 
istituzionale del patto che si stava consumando tra Cosa Nostra e pezzi 
dello Stato: la nota della Dia del 10 agosto ’93 e il rapporto dello Sco
 dell’11 settembre di quello stesso anno. In quelle carte, inviate ai 
gangli vitali degli apparati statali, per la prima volta compariva il 
termine “trattativa”. “La perdurante volontà del Governo di mantenere 
per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla 
ripresa della stagione degli attentati - avevano scritto gli analisti 
della Dia -. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il 
proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la 
progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le 
Istituzioni a una tacita trattativa”. “Verosimilmente la situazione di 
sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una 
sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con 
interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da 
parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris 
attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e 
distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità 
ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale 
in atto nel nostro paese per condizionarlo”. Nel documento veniva 
specificato che “l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che 
dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il 
primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle 
bombe”. Per gli uomini dello Sco Cosa Nostra stava seminando il terrore 
in tutta Italia per “cercare una sorta di trattativa con lo Stato sulle 
questioni che più affliggono Cosa Nostra: il carcerario e il 
pentitismo”. Le bombe di Firenze, Milano e Roma “non avrebbero dovuto 
realizzare stragi, ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a 
creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per 
creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione 
potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”.
 Parole pesantissime, e soprattutto profetiche. Per Teresi le revoche di
 quei 41bis “sono inevitabilmente una deviazione del comportamento 
istituzionale da parte degli organi dello Stato”.
Dalle revoche del 41bis alle “preoccupazioni” di Mannino per De Mita
Teresi
 ha ricordato quindi il fax mandato il 29 ottobre del ’93 dalla Procura 
di Palermo per sancire il parere contrario alla possibile revoca del 
41bis per 474 detenuti di prima grandezza (esponenti di Cosa Nostra, 
‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita) proposta dal Dap. Di fatto il
 parere della Procura palermitana era stato totalmente disatteso. Il pm 
ha sottolineato che a godere di quelle mancate proroghe erano stati 
“uomini d'onore, ma anche di capi mandamento che nella loro storia hanno
 abbracciato la causa corleonese stragista: Francesco Spadaro, Diego Di 
Trapani, Giuseppe Giuliano, Vito Vitale, Giuseppe Farinella, Antonio 
Geraci, Raffaele Spina, Giacomo Giuseppe Gambino, Giuseppe Fidanzati, 
Andrea Di Carlo, Giovanni Prestifilippo, Giuseppe Gaeta, Giovanni 
Adelfio ed altri”. “Il motivo di dare questo segnale di distensione ai 
mafiosi poi condannati per le stragi non si capisce”, ha ribadito 
laconicamente Teresi. Che, infine, ha ripreso quel noto dialogo tra l’ex
 esponente democristiano, Giuseppe Gargani, e Calogero Mannino 
“intercettato” casualmente dalla giornalista del Fatto Quotidiano, 
Sandra Amurri, il 21 dicembre del 2011. “Hai capito, questa volta ci 
fottono - aveva detto Mannino a Gargani nella ricostruzione della Amurri
 -, dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo 
sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche 
lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di 
Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la 
verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? 
Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. 
Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 11 dicembre 2014
fonte: http://www.antimafiaduemila.com