Cercasi 
politica per
 uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla 
parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, 
quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la 
privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la 
ricostruzione dell’
economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’
Europa a
 guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle 
catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La 
risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente
politica:
 «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche 
centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare 
non solo la 
crisi della Ue ma una 
crisi geopolitica
 internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta 
internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche 
dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta 
unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un 
errore enorme e grossolano».
Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un 
escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di 
vincolare l’
economia 
italiana
 a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di 
domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’
economia precipita,
 la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia 
della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere 
moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, 
con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo
 l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, 
sull’euro che divide», scrive Grazzini su “
Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’
Europa –
 invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo 
Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo
 una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca
 sarebbero comunque un vero e proprio incubo».
Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi 
estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, 
costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». 
L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, 
una moneta straniera, una trappola che provoca 
crisi non
 solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è 
costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente 
deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così,
 la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’
Europa «è diventata lo strumento principe di una 
politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord 
Europa conducono per egemonizzare l’
Europa».
 Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la 
rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito
 solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti
 i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit 
commerciali 

dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.
 
I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal
 Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che 
governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno
 neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti 
dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi 
economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i 
diritti del lavoro, 
tagli al 
welfare, tassazione folle. E la 
democrazia è
 ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche 
recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono
 e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente
 illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e 
nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla 
crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda 
economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi 
crisi sociali fino a riportare l’
Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del 
welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa 
crisi finanziaria europea e globale».
Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la 
svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori 
potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà 
tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la 
Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene 
Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o 
anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee,
 come gli 
Usa,
 la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari 
come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le 
grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza 
industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più 
di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente 
svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe 
propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale
 è in sostanziale pareggio, quindi il nostro 

paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della
finanza internazionale.
 
A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di 
euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta 
sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o 
con i 
tagli di
 spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della 
depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della 
nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è 
stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere 
riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – 
non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di
 aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica 
nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la 
svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’
economia diventerebbe
 più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così
 come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero,
 dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire 
unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe
 un senso economico apparentemente positivo».
In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una 
disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra
 ci dicono: infatti tutti i paesi – 
Usa,
 Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare 
competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale».
 Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un
 riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è 
sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando 
quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e 
quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese
 come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, 
uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un 
quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a
 oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, 
mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un 
preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica 
svalutazione o

rottura
 comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve 
valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».
 
Inoltre, agli 
Usa converrebbe
 «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come 
improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati 
Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare
 ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, 
Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per 
esempio per punire la Germania e l’
Europa se
 si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è 
che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza 
dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno 
prima di completare la distruzione definitiva dell’
economia europea.
 Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né 
alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto 
medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo 
alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di 
cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché 
impedisce la crescita».
In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne 
senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di 
riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, 
una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro 
tutti gli Stati e tutta la 
finanza europea
 e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una 
svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente 
valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non 
sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono 
comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale 
appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione 
dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa 
del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo 
profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno 
dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della 
consegna del 

paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.
 
Se la 
politica tace,
 per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema 
dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a 
causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi
 sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che 
l’euro «sopravviva con il sostegno della 
finanzainternazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e 
politica imposte
 dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo
 questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François
 Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente 
non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al 
suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo 
travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze 
extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla 
malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la 
finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».
E’ certo che la 
crisi si
 prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione 
aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del 
sud 
Europa –
 Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle 
regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e 
ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo 
Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora 
per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e 
permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire 
una via di uscita dalla 
crisi».
 Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana
 ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato 
al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania 
la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di 
Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai 
laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima 
Repubblica, le principali riforme 

strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.
 
Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella 
crisi.
 E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è 
necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il 
governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una 
politica espansiva,
 ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va 
ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima 
istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso 
in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro 
del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che 
mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a 
Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei 
Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto”
 del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di 
emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli 
investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, 
controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale 
verso lo sviluppo del paese.
Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla 
finanza e
 la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E 
attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di
 prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia 
indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha 
il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il
 problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato 
pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi 
banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche 
per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari 
passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda 
interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e
 agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita 
della produttività».
 
Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: 
partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale 
finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere.
 La parola chiave, dunque, è 
democrazia:
 solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena 
odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto 
innanzitutto una 
politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud 
Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più 

unica,
 come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor
 proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il 
dollaro e le altre valute internazionali».
Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi 
difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – 
ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di 
salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la 
capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto 
vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle 
élite dei potenti e dall’alta 
finanza e
 avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». 
Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è 
possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, 
Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di
 Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».
fonte http://www.libreidee.org/