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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

14/02/15

Uccise carabiniere, torna libero ed è arrestato per rapina. La vedova: “La legge sta con Caino”

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Giovanni Misso, pluripregiudicato genovese, era a capo di una banda che rapinava portavalori: condannato all’ergastolo per la morte del brigadiere Volpi nel 1979, era uscito per buona condotta.
“Nessuno degli assassini di mio marito ha effettivamente scontato l’ergastolo. La legge sta dalla parte di Caino. Per le vittime nessun politico ha mai fatto scioperi della fame, per i criminali sì”. Amarezza, rassegnazione e sarcasmo: sono i sentimenti che agitano l’anima ferita di Bruna Scantamburlo, 64 anni, vedova del brigadiere dei carabinieri Ruggero Volpi, ucciso nel 1979 durante il trasferimento di un detenuto a Genova. All’epoca la figlia aveva solo tre anni. A freddare il militare fu un commando di quattro uomini, fra i quali il 61enne pluripregiudicato genovese Giovanni Misso. Nonostante l’ergastolo, Misso era tornato in libertà grazie alla buona condotta. Ed è stato di nuovo arrestato, dai carabinieri di Monza, in quanto a capo dell’organizzazione criminale che rapinava portavalori.
“Mi sarei stupita se fosse rimasto in galera, ci prendono in giro. Avevo 29 anni quando la mia vita si è fermata. Durante il processo per la morte di Ruggiero, mi sono avvicinata alla gabbia e ho chiesto: perché?. Hanno solo saputo insultarmi, guardandomi dritta negli occhi”. La voce stanca, la mano che ogni giorno tocca un cuscino freddo, il ricordo della radio accesa la mattina presto per ascoltare canzoni insieme al marito. Da oltre trent’anni, racconta Bruna Scantamburlo, quella radio è spenta.
“Mia figlia ha dovuto combattere per accettare l’assassinio di suo padre. Io sono rimasta in piedi per lei, ma non ho dimenticato questa gente con il crimine nel sangue”.
Una vita col dolore nel cuore e problemi di salute alla schiena, ma Bruna non è ha mai ottenuto un risarcimento. “Non ho mai chiesto nulla, mi aspettavo che lo Stato per cui mio marito è morto aiutasse almeno mia figlia. Ci uccidono anche moralmente, perché ai nostri politici non frega nulla delle vittime. Mio marito mi diceva sempre che era meglio un brutto processo di un bel funerale ed è finita al contrario. A quelli che fanno il suo mestiere suggerirei di pensare a portare a casa lo stipendio e girarsi dall’altra parte, ma tanto so che non lo farebbero mai”.
Nei pensieri della vedova il tricolore è sbiadito, perché lei non ci crede più. “La certezza della pena in questo paese è come un optional di lusso per le auto. Farebbero prima ad eliminare le carceri, tanto questa gente uscirà di nuovo”. Bruna è rimasta delusa anche dalla Chiesa. “Una volta è venuto a trovarmi un sacerdote, che però prima era stato in carcere dai killer di mio marito. Mi ha chiesto di pregare per loro. Gli ho risposto di farlo lui, che aveva scelto distintamente da chi andare per primo”.

Fonte Repubblica

Roma, 12 febbraio 2015

tramite: http://www.sostenitori.info

CASO MARO' - La vergogna dei marò traditi e abbandonati


RIPORTIAMOLI A CASA

Domani sono 36 mesi di calvario Errori a ripetizione e scelte sballate Così il nostro Paese si copre di ridicolo

 

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Domani, 15 febbraio 2015, scocca il terzo rintocco della vergogna italiana per i due marò Latorre e Girone, accusati in India di aver fatto il loro dovere di militari e di italiani.
Tre anni fa, il 15 febbraio 2012, il mai chiarito incidente in acque internazionali e, poco dopo, il loro arresto. In qualunque parte del mondo una condanna a tre anni è dura per gli imputati e per le loro famiglie. Tanto più in Italia, dove i colpevoli di gravi crimini vengono denunciati a piede libero. Loro: Massimiliano Latorre, attualmente in convalescenza nella sua Taranto, e Salvatore Girone, agli arresti domiciliari nell’Ambasciata italiana di Nuova Delhi, tre anni di detenzione li hanno già scontati, con le loro famiglie. Ma non sono colpevoli. Colpevole è invece una politica ondivaga e incerta, portata avanti da tre presidenti del Consiglio, un commissario straordinario, tre ministri della Difesa più cinque degli Esteri, uno dei quali (Emma Bonino) arrivò perfino ad affermare che noi italiani non sapevamo se i marò sono colpevoli o innocenti. E a ben poco è servita la determinazione dell’attuale esecutivo unita a quella del Capo dello Stato che, appena eletto, ha messo i nostri marinai del San Marco in cima alle priorità del Paese. Perché le cose cambiano anche in India e il «nuovo interlocutore», il premier Narendra Modi, che ha stravinto le elezioni la scorsa estate, ha ora preso una sonora bastonata nelle locali, ma importanti, consultazioni a Nuova Delhi.
Così oggi il ministro Gentiloni, che confidava nella «trattativa riservata», ha di fronte un uomo sconfitto. Tanto che Narendra Modi ha gelato i suoi sostenitori, a pochi giorni dall’inaugurazione di un tempio e di una statua consacrate in suo onore, che lo levavano a rango di semidio, a Rajkot, nel Gujarat, stato nel quale il premier è stato per anni primo ministro. Ora si è detto «costernato» e ha pregato i suoi sostenitori di dedicare quel tempio a qualche altra divinità. Cose che accadono in India.
E in Italia, nonostante lo sdegno di big della politica come Elio Vito (FI), Ignazio La Russa (FdI) e l’ex ministro e ambasciatore Giulio Terzi, la vita prosegue come sempre, tanto che giusto ieri l’Ice, l’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione delle imprese italiane all’estero, ha siglato un accordo di rappresentanza in Italia della manifestazione fieristica indiana «Everything About Water», l’esposizione specializzata dedicata al settore del trattamento delle acque, un «big business» del futuro.
«Sono passati tre anni - commenta il Cocer, il sindacato delle stellette - da quando i nostri connazionali, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono stati trattenuti in India. Oggi, a tre anni di distanza, la situazione è ancora incredibilmente indefinita».
E mentre l’Italia continua, in qualche modo, a partecipare alle missioni internazionali, la compagna di Latorre dà voce alla speranza di tutti gli italiani: «L’unica cosa che mi sento di dire, l’unica parola che vorrei dire, è la parola fine». Grazie a Paola Moschetti: l’unica parola che vorremmo sentire su questa vicenda è: «Fine».

Antonio Angeli- 14 febbraio 2015
fonte: http://www.iltempo.it







12/02/15

Le riserve di gas e petrolio prima o poi finiranno e se vogliamo un futuro dobbiamo investire in un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile. Non c’è altra soluzione




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Nel suo ultimo libro «Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile», Naomi Klein sostiene che la risposta politica al problema dei cambiamenti climatici debba essere radicale: occorre uscire celermente dalla lunga stagione dell’estrattivismo.
Se si assume come punto di partenza la questione dei cambiamenti climatici, non può che essere così. E non ci si dovrebbe sorprendere se si affermasse che né in Italia né altrove, né a destra né a sinistra, vi sia piena consapevolezza del problema.
Scrive la Klein: «In Grecia nel maggio 2013 mi stupii scoprendo che il partito di sinistra Syriza […] non si opponeva al fatto che la coalizione di governo accettasse nuove esplorazioni in cerca di petrolio e gas. Sosteneva invece che qualunque fondo ricavato dovesse essere speso per le pensioni, e non usato per ripagare i creditori. In altre parole, il partito Syriza non forniva un’alternativa all’estrattivismo, ma semplicemente aveva piani migliori per distribuirne i ricavi. Lungi dal vedere il cambiamento climatico come un’opportunità per sostenere la propria utopia socialista, come temono i negazionisti del cambiamento climatico, Syriza aveva semplicemente lasciato cadere l’argomento. Si tratta di qualcosa che il leader del partito, Alexis Tsipras, mi confessò piuttosto apertamente in un’intervista: «Eravamo un partito che aveva l’ambiente e il cambiamento climatico al centro del proprio interesse» disse. «Ma dopo questi anni di depressione in Grecia, abbiamo dimenticato il cambiamento climatico». Almeno è stato onesto».
Non so se Syriza e Alexis Tsipras abbiano nel frattempo maturato un’idea politica diversa in fatto di estrazioni, ma non sfugge che quanto la Klein scrive nel suo libro resti confermato da quanto si legge nella lettera che Syriza inviò al Coordinamento Nazionale No Triv la scorsa estate, in occasione del Convegno su «Difesa dei Beni Comuni e revisione della Costituzione», tenutosi a Crotone nei giorni 12 e 13 luglio: «Non abbiamo pregiudizi contro lo sfruttamento delle risorse energetiche e specialmente quelle sotterranee, ma deve essere chiaro che non si possono sacrificare le persone e l’ambiente per alimentare l’avidità delle multinazionali. La Grecia e il Sud Europa non devono diventare l’Eldorado delle multinazionali degli idrocarburi. Le risorse energetiche appartengono ai nostri popoli e devono essere gestite da loro, per loro e per il loro benessere. Non si tratta solo dei costi e benefici economici, ma di un’idea per la nostra vita e di un nuovo tipo di sviluppo



Si tratta, come si vede, di un’idea politica ancora nebulosa: quello che non è chiaro è se per Syriza il problema riguardi la perdita di “sovranità” in ordine alla gestione delle risorse energetiche (dalla mano privata alla mano pubblica), l’entità delle royalties (che presuppone che la gestione diretta delle risorse da parte delle multinazionali sia accettabile nella misura in cui a ciò corrisponda un significativo innalzamento dell’entità delle royalties) o l’abbandono del modello “estrattivista”, in luogo di un modello realmente ecosostenibile, che, come la Klein sostiene in relazione ai cambiamenti climatici, non può più alimentarsi di illusori compromessi.
Il problema sarebbe dato dalla crisi economica contingente, che impedisce qualsiasi prospettiva politica di lungo termine: essa costringe lo Stato ad intervenire alla bisogna, impedendogli di abbandonare il modello estrattivista e di aprire, almeno per il momento, alla transizione energetica.
Una diversa prospettiva sarebbe seguita dai movimenti, che agiscono in modo del tutto spontaneo e senza reali strutture di supporto. Essi sono popolari, nel senso più genuino del termine; muovono dal basso e trasversalmente rispetto ad un dato obiettivo; maturano presto la convinzione che l’azione spiegata si inserisca in un contesto latamente politico. E così è anche per il movimento che nel nostro Paese si oppone alla ricerca e alle estrazioni petrolifere: chi crede che si tratti di un movimento ambientalista non ha chiaramente compreso la reale portata di un fenomeno che è essenzialmente politica. In fondo, i contadini che in Basilicata, come altrove, manifestano in strada e si portano con i loro trattori fin sulla soglia dei palazzi istituzionali non trascorrono il proprio tempo a discutere di tesi ambientaliste o a valutare l’opportunità che ad un albero sia accordata speciale protezione o che una riserva naturale sia dichiarata patrimonio dell’umanità. Questa evenienza è, semmai, considerata solo in funzione dell’integrità territoriale, che sola consentirebbe, a sua volta, di preservare il contesto socio-economico necessario per l’esercizio delle attività agricole, turistiche e culturali. Per questo il movimento è radicale: perché, rispetto alla sinistra più tradizionale, che valuta la bontà di una certa azione alla luce del conflitto di classe, il rifiuto del modello estrattivista è dal movimento disancorato da tale presupposto di partenza, nella convinzione che solo se si avrà il coraggio di dire «no» potrà esservi spazio per un modello sociale eco-sostenibile. Da qui arriverà anche la risposta al problema


dei cambiamenti climatici. Ma occorre far presto.
La radicalità dell’azione del movimento si scontra con un’ideaaltrettanto radicale incarnata nell’ora attuale dallo “sblocca Italia”. La filosofia di fondo che ispira le previsioni contenute nel decreto sulle grandi opere, sull’edilizia, sugli inceneritori, sulle attività petrolifere è che la crisi economica possa essere sconfitta solo facendo cassa nel modo più semplice che si conosce: privatizzando ciò che è pubblico, i beni comuni, le risorse. La straordinarietà e l’urgenza delle misure adottate tradisce l’assenza di una strategia economica a lungo termine, priva di ogni riferimento ai due «pilastri» evocati da Papa Francesco nel suo discorso all’Expo 2015, e cioè «la dignità della persona umana e il bene comune». Nel caso italiano, lo Sblocca Italia è prova dell’incapacità – l’ennesima – di trovare una soluzione non occasionalista al problema indotto dalle politiche neoliberiste dell’Unione, che, in ragione degli obblighi contratti dallo Stato sul piano europeo, impongono di ridurre il deficit pubblico e il debito pubblico, secondo quanto prescritto dalla c.d. “governance economica europea”. Riduzione che passa non solo attraverso massicci investimenti nei settori sopra citati, ma – tra le altre cose – anche attraverso il taglio della spesa pubblica: il che vuol dire mettere a rischio lo Stato sociale.
La ciclica riduzione del Fondo di Funzionamento Ordinario (FFO) delle Università si traduce nel problema della sopravvivenza degli Atenei e del diritto allo studio. In questa prospettiva, appare chiaro che, come accade in Basilicata, l’esercizio delle attività petrolifere risulti vitale per la sopravvivenza dell’Ateneo della Regione se si continua a far dipendere il suo funzionamento dalle royalties corrisposte dalle società petrolifere. Ciò comporta che la politica lucana non sappia esprimere un «no» deciso agli idrocarburi e contrastare, per conseguenza, i provvedimenti adottati dal Governo. Ci troviamo dinanzi ad un autentico circolo vizioso: in quasi quindici anni, i progetti petroliferi in Basilicata hanno inferto un grave colpo all’agricoltura, all’ambiente, al turismo. In breve: hanno messo in ginocchio l’economia locale e non risolto il problema dell’occupazione, visto che, dopo tutto, la Basilicata resta una delle Regioni più povere d’Italia. La ricetta offerta è quella del potenziamento delle attività estrattive e del parziale reinvestimento nella ricerca petrolifera di quanto versato dalle multinazionali nelle casse dello Stato.
Dal punto di vista economico, le attività petrolifere non sono compatibili con quelle agricole.
Il clamore suscitato dall’annullamento del permesso di ricerca “Colle dei Nidi” in Abruzzo ne è la prova lampante: la ricerca degli idrocarburi avrebbe interessato un’area di 83 kmq, coincidente in gran parte con le c.d. “Colline Teramane”, dove si produce olio d’oliva e si coltiva il Montepulciano DOCG, che vengono esportati in tutto il Mondo. Queste attività mai potrebbero essere delocalizzate altrove, posto che in Cina o in Romania l’uva del Montepulciano non potrebbe essere coltivata e se lo fosse non avrebbe certo quelle caratteristiche organolettiche. Per l’Italia, ma anche per altri Paesi dell’area mediterranea, investire massicciamente nell’agricoltura di pregio, nel turismo, nei beni culturali e ambientali potrebbe costituire una risposta credibile al problema della globalizzazione.
Quello che, invece, viene ripetuto come un mantra è che il progetto petrolifero lucano “Tempa Rossa” creerà nuovi posti di lavoro: grazie a Tempa Rossa verrà potenziata anche la raffineria di Taranto e alle centinaia di unità lavorative che al momento risultano impiegate nella città pugliese altre se ne aggiungeranno.
Il petrolio che verrà estratto in Basilicata e stoccato nella raffineria di Taranto durerà, però, venti o al massimo trent’anni. E questo potrebbe voler dire che chi entra in raffineria a vent’anni, ne uscirà disoccupato a quaranta o a cinquanta. Poco si dice, invece, delle centinaia di aziende agricole lucane che nel frattempo hanno dovuto chiudere i battenti.

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La cosa che più sconcerta è che questa “inconsapevolezza” agisce comunque ad ogni livello. Nel novembre dello scorso anno, il segretario della FIOM Landini si è dichiarato favorevole alle attività petrolifere (raffinazione inclusa) e ha manifestato soddisfazione per il «Protocollo d’intesa per l’area di Gela», siglato a Roma tra l’ENI, il Ministero dello sviluppo economico, la Regione Siciliana, il Comune di Gela, Confindustria Sicilia e alcuni sindacati. In base al Protocollo, l’ENI si è impegnato a realizzare una parziale riconversione dell’area industriale della città, al fine di consolidare (anche) la vocazione manifatturiera della stessa. La riconversione e il risanamento ambientale sono stati tuttavia subordinati ad un preciso impegno: a che la Regione Siciliana consenta l’avvio di nuove attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi su tutto il territorio regionale e persino “nell’offshore adiacente”.
Insomma, la prospettiva accolta non è lungimirante: le riserve di gas e petrolio prima o poi finiranno e – anche a voler prescindere (si fa per dire) dal problema dei cambiamenti climatici – se vogliamo dare un futuro a chi verrà dopo di noi dobbiamo investire urgentemente nelle energie alternative e nella costruzione di un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile e concretamente sostenibile.Non c’è altra soluzione.
L’azione che i movimenti stanno portando avanti contro lo Sblocca Italia passa anche attraverso il piano giuridico. Per chi è parte di un movimento, tale azione assume comunque un significato politico. Per questa ragione i Comuni lucani hanno fatto tuonare la propria voce contro le Istituzioni e chiesto alla Regione Basilicata di impugnare il decreto. Per questo stesso motivo manifestano il proprio dissenso alla revisione costituzionale in corso e lo faranno ancora attraverso l’arma del referendum quando il procedimento di revisione sarà concluso.
Le ragioni del dissenso le hanno esplicitate nel “documento di Crotone” del luglio dello scorso anno: essi ritengono che il riordino delle competenze legislative previsto dalla riforma vada a vantaggio dello Stato e a detrimento del ruolo delle Regioni. Se la riforma vedrà la luce, lo Stato potrà ergersi a decisore unico delle sorti dell’ordinamento locale, dei beni culturali e paesaggistici, del turismo, dell’energia, del governo del territorio, delle infrastrutture strategiche e di altre materie ancora. Per le associazioni e i comitati che hanno sottoscritto il documento, la ratio sottesa alla proposta sarebbe quella di impedire che le Regioni possano legiferare in futuro su tali materie, partecipare ai procedimenti amministrativi, sostenere proposte alternative eco-compatibili, opporsi alla realizzazione di numerosi progetti (come le grandi opere inutili e le infrastrutture strategiche), che le collettività locali e regionali contestano da tempo, per le evidenti implicazioni che hanno sui beni comuni e, in primo luogo, sulle risorse naturali.
Insomma, la filosofia che sorregge la revisione parrebbe essere quella di sempre: eliminare tutti quei lacci e lacciuoli che impediscono al Governo di assumere rapidamente una decisione e di riuscire a far fronte alla crisi nel modo che più gli è congeniale. Costi quel che costi. Anche se questo dovesse voler dire – come effettivamente vuole dire – privare tutti noi della possibilità di decidere del nostro destino.

di Enzo Di Salvatore - 11 febbraio 2015
fonte: http://popoffquotidiano.it 

La delusione di agenti e carabinieri



 «Cambiare le norme, ma in senso restrittivo: altrimenti il segnale è negativo»



PADOVA.  Sbeffeggiati, derisi, umiliati da una criminalità sempre più beffarda e spavalda. Non solo il criminale professionista – «Quello ha in fondo un codice d’onore: rispetta la divisa, riconosce che davanti trova un avversario» raccontano gli inquirenti dai capelli grigi – ma soprattutto i giovani pusher, le bande di ragazzini, i predoni di pochi spiccioli. «Quelli proprio non ti badano: tanto fa loro spararti in pancia come sputarti addosso» dicono poliziotti e carabinieri. Lo sconforto, insomma, si unisce e mescola alla rabbia di un’impotenza profonda e senza risposta».
Mirco Pesavento è il segretario del Sindacato autonomo di Polizia di Padova: «C’è uno svilimento del ruolo delle forze dell’ordine molto profondo e pericoloso – spiega –: siamo delegittimati nel nostro lavoro di prevenzione e repressione dei reati, perché ci troviamo molto spesso con gli autori dei delitti rilasciati ancor prima di completare le procedure di fermo o di arresto. E questo è inaccettabile». Secondo Pesavento le ragioni risiedono soprattutto nell’atteggiamento permissivo dei magistrati che convalidano l’arresto ma nove volte su dieci ne dispongono la scarcerazione immediata: «Sanno che le nostre carceri, purtroppo, sono sovraffollate e probabilmente non vogliono peggiorare la situazione – aggiunge Pesavento – ma certamente questo provoca delle conseguenze negative sul nostro agire». Qualche mese fa, racconta il segretario del Sap, due colleghi delle Volanti sono stati picchiati da un tunisino andato in escandescenze: «Uno dei due colleghi, nella collutazione, ha subito la frattura del polso: il tunisino è stato processato per direttissima, condannato, e rilasciato. Il collega ha avuto venti giorni di prognosi. Ma si può?»
Non meno sconfortato è Gianni Pitzianti, padovano e segretario nazionale del Cocer, il sindacato militare dei carabinieri: «Noi ce la mettiamo tutta a fermare gli autori di reati ma è davvero difficile quando vediamo poi cosa succede davanti ai magistrati. Capisco anche loro, per carità: c’è un’evidente falla nel sistema normativo che, per una larga serie di reati cosiddetti minori, non dispone la carcerazione obbligatoria. Ma dobbiamo essere coscienti che questo provoca due effetti negativi: sull’opinione pubblica, che percepisce una diminuzione del senso di giustizia; e sulle forze dell’ordine, che rischiano di vedere vanificati il loro impegno nella repressione del crimine». Entrambi i rappresentanti delle forze dell’ordine auspicano una revisione del sistema normativo, ma in senso restrittivo. 

fonte: http://mattinopadova.gelocal.it - 11 febbraio 2015

11/02/15

Ignazio Marino: l’Attila de’ noantri


 


Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, si è sintonitizzato sugli stessi interessi dell’ex presidente della Regione Lazio, Piero Marazzo, che nel 2009 ha provato a svendere il patrimonio delle Ater. In questi giorni la giunta capitolina ha presentato la seguente delibera: n. 88 proposta (Dec. G.C. del 9 ottobre 2013 n. 59) dal titolo altisonante: “Alienazione del patrimonio immobiliare di proprietà di Roma Capitale. Indirizzi criteri e modalità. Revoca della deliberazione assembleare n. 432012”. Colpisce come gli interessi immobiliari che si vogliono tutelare siano gli stessi, “vendere” le case di pregio nel centro di Roma a due soldi e continuare a mantenere il patrimonio abitativo della periferia. Un Robin Hood all’incontrario regala ai ricchi e carica le perdite alla collettività. Bisogna riconoscere che questa volta il metodo non è così grezzo come quello di Marazzo, ma è estremamente raffinato per coprire la svendita.
La proposta prevede al di là degli sconti del 30 per cento ai residenti se regolari nei pagamenti, un prezzo medio del patrimonio abitativo messo in vendita sulle stime dell’Agenzia del Territorio. Detta così sembra una proposta seria, ma l’inganno avviene sul concetto di valore medio, avendo immesso nell’elenco di dismissioni una marea di negozi commerciali siti in periferia, i quali ovviamente fanno crollare il prezzo medio su cui si venderanno gli alloggi di pregio. Inoltre questa amministrazione strabica si dimentica della priorità di tanti cittadini che hanno già pagato a Risorse per Roma un anticipo per la compravendita del proprio alloggio e da anni non hanno avuto risposte dall’amministrazione comunale. Se le vera motivazione del primo cittadino fosse quella di fare cassa si sarebbe indicato questa prima strada già deliberata e stranamente ferma, il ché mi fa pensare che l’interesse vero è svendere il patrimonio di pregio agli amici degli amici.
Il sindaco di Roma se vuole fare gli interessi della città dovrebbe far valutare ogni singolo immobile di pregio dall’Agenzia del Territorio, per definire il prezzo sia di vendita che di affitto, e personalmente ritengo che gli appartamenti di pregio non si dovrebbero vendere, ma affittarli a prezzo di mercato, offrendo agli inquilini residenti altro alloggio; mentre sarebbe più conveniente mettere in vendita il patrimonio abitativo della periferia; favorirebbe i ceti deboli, i quali acquistando il loro immobile si farebbero carico della manutenzione, pagherebbero l’Imu e diminuirebbe la quantità di cittadini che nonostante il basso fitto non lo pagano. Le iniziative di questo sindaco sembrano quelle di Attila, il barbaro che ove passava lasciava solo distruzione.
Se gli si permette di alienare il patrimonio di pregio si impoverisce la ricchezza della nostra città, lasciando al Comune le proprietà delle periferie degradate, con una amministrazione che non ha le risorse economiche per riqualificarle. Speriamo che le forze di opposizione sappiano fare di questa battaglia la madre di tutte le battaglie. Certo, sperare nel compromesso ex Pdl o nella demagogia dei Cinque Stelle non è facile, ma la lista Marchini con i consiglieri di altre formazioni sia di maggioranza che di opposizione che hanno a cuore questa città potrebbero fare la differenza, ma solo se si riesce a non far rimanere questa battaglia dentro le aule del Campidoglio. Alla lista Marchini il compito come quello del Papa Leone I di fermare Attila e svegliare le coscienze dentro il Campidoglio e nella cittadinanza.

di Roberto Giuliano - 11 febbraio 2015
fonte: http://www.opinione.it

CASO MARO' - Cirio: India da sanzionare per il caso Marò



ALBA

«Apprendo, a seguito di una mia richiesta alla Commissione europea, che l’Italia non ha mai portato all’attenzione del Consiglio Ue Affari esteri la possibilità di sanzionare l’India per il comportamento verso i nostri Marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, detenuti ormai da quasi tre anni». A parlare è l’eurodeputato del PPE, Alberto Cirio, che nei mesi scorsi ha presentato una interrogazione a Bruxelles, chiedendo se la cattura e la detenzione di due uomini della Marina Militare Italiana nell’esercizio delle proprie funzioni in acque internazionali non fosse una violazione della sovranità nazionale da sanzionare tanto quanto il comportamento della Russia nei confronti dell’Ucraina.

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«Dal momento che in risposta a un comportamento considerato scorretto, le istituzioni europee impongono sanzioni, anche a costo di danneggiare la propria economia – continua Cirio – e superando le dovute considerazioni di merito per cui si dovrebbe penalizzare chi fa danni e non altri, mentre al momento chi sta pagando il conto delle sanzioni imposte alla Russia sono molte imprese europee che non hanno potuto recapitare merce pronta per essere venduta, mi domando perché l’attuale Alto rappresentante per gli Affari esteri, Federica Mogherini, nel suo precedente ruolo di ministro degli Esteri italiano non abbia mai portato all’attenzione dei colleghi degli altri Stati la possibilità di adottare nei confronti dell’India le stesse sanzioni decise per la Russia».
Citando letteralmente la risposta all’interrogazione ricevuta, nelle scorse ore, da parte dell’Alto rappresentante: «Nel discutere questo caso gli Stati membri dell’Ue riuniti in Consiglio non hanno mai evocato la possibilità di misure restrittive di tipo economico e commerciale». «Ma chi, – conclude Cirio – se non la Mogherini stessa, avrebbe dovuto evocare tale possibilità?».

Alba - 10 febbraio 2015

fonte: http://www.gazzettadalba.it

UNA PROPOSTA INDECENTE__UNA IPOCRITA OPERAZIONE: Un quartiere a luci rosse all'EUR -''intervista al sindaco Marino''




.. Per il sindaco occorrono parole di grande severità per chi criminosamente opera la tratta degli esseri umani e commercializza il corpo delle donne, soprattutto quando sono minorenni ...
Poi afferma che incontrerebbe, insieme a chi lo critica, quelle nonne, chissà poi perchè solo le nonne, che nei parchi con bambini di 7, 8 anni sono costrette a dover spiegare che cosa ci fa una persona alta un metro e ottanta, con delle mammelle improbabili e delle giarrettiere, nel parco.
Incredibile !!!! A parte il contenuto del'intervista, sembra di capire che attualmente nel comune di Roma non sia in vigore alcuna ordinanza volta a contrastare la prostituzione e soprattutto i suoi effetti.

Caro sindaco, cosa ci fa una persona alta un metro e ottanta con in vista improbabili mammelle, giarrettiere .... e con le chiappe in bella vista ce lo deve spiegare lei, caro sindaco, non le nonne !!!
A me è successo, con me c'era mio nipote, un bambino di 5 anni, ci siamo guardati, in silenzio, io aspettavo mi chiedesse qualcosa,  lui che dicessi qualcosa .... ma siamo andati avanti .... sempre in silenzio, ed ho subito dopo provato a giustificare in qualche modo quella presenza ... Beh! non so cosa sarebbe accaduto se l'avessi incontrata proprio in quella sgraditissima situazione.

Per chi è dedito alla tratta e alla commercializzazione del corpo delle donne non occorrono parole ..... ci vogliono  fatti !!


Se chi percorre quelle vie è costretto ad ''ammirare'' tette e culi, giarrettiere, ed altro dove stazionano i viados, vuol dire che sono inadeguati i controlli. Atti osceni in luogo pubblico così come la turbativa dell'ordine pubblico, l'intralcio o turbativa della circolazione causato da frenate ed arresti repentini dei veicoli, che generano code, che oltre a poter essere causa di incidenti impediscono anche la normale fruizione di un bene demaniale ..... sono reati !!
Sarà anche vero che non lo é  vendere il proprio corpo, ma tutti gli altri lo sono e vanno contrastati e perseguiti soprattutto quando emerge l'esigenza di tutelare il decoro urbano, l'ordine pubblico, la sicurezza dei cittadini, ed evitare che chi esercita l'attività di meritricio lo faccia  ''indossando'' un abbigliamento indecoroso e indecente,  ovvero mostrando nudità....Cosa è stato fatto !?!?
L'ordinanza in vigore contro la prostituzione emanata dal precedente Sindaco non fu  confermata, si dice nemmeno tutte le altre, compresa quella contro i bivacchi e i lavavetri. Se c'era il bisogno di rivederla è stata corretta e rinnovata ? ne è stata emanata un'altra ?
Sembrerebbe di no visto che devono essere le nonne a spiegare. Quindi nessuna azione, nessun impegno per il degrado urbano, meglio lavarsi la coscienza con una ipocrita operazione per il ''decoro'' urbano, 
spostare le prostitute da un marciapiede all'altro e creare un quartiere a luci rosse, in questo caso in un'area prestigiosa come l'EUR, dove i clienti non saranno multati né disturbati e dove i veri responsabili di questa emergenza saranno immuni e di fatto protetti dal comune. E' questa la risposta ? 

E tutto questo commettendo un reato .... si, perché ''Chiunque organizza il meretricio altrui commette un crimine.''  Il Comune di Roma lo sa ?

e.emme

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Battaglia a Roma sul quartiere a luci rosse. Marino "bisogna dare risposte"


VEDI VIDEO: https://www.agi.it/video-agi/video/battaglia-a-roma-sul-quartiere-a-luci-rosse.-marino-bisogna-dare-rispostebr-

fonte: https://www.agi.it 



10/02/15

Il caso dei marò trattenuti in India






I due Marò : un’Odissea che dura da tre anni 


Gli eventi che coinvolgono da tre anni i Sottufficiali della Marina Militare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, hanno inzio il 15 febbraio 2012 quando Il 15 febbraio 2012 la Marina Militare emana un comunicato ufficiale, il numero 04, con il quale annuncia :
“I Fucilieri del Battaglione S. Marco, imbarcati come nucleo di protezione militare (NPM) su mercantili italiani sono intervenuti oggi alle 12,30 indiane, sventando un ennesimo tentativo di abbordaggio. La presenza dei militari della Marina Militare ha dissuaso cinque predoni del mare che a bordo di un peschereccio hanno tentato l’arrembaggio della Enrica Lexie a circa 30 miglia ad Ovest della costa meridionale indiana …..”.
Da quel giorno i nostri due militari sono in ostaggio dell’India ed in regime di libertà provvisoria,  senza che Delhi abbia mai formalizzato nei loro confronti un atto di accusa suffragato da prove certe ed inconfutabili. L’unica cosa certa è che in un tratto dell’Oceano indiano sono morti due pescatori indiani uccisi da colpi d’arma da fuoco di calibro diverso di quelli in dotazione alle Forze Armate italiane.
Ciò premesso, si cercherà di connotare la vicenda sulla base di riscontri certi e documentali, senza pronunciamenti di colpevolezza od innocenza, peraltro allo stato delle cose irrilevanti in quanto atti di competenza di un Tribunale a seguito di atti processuali, anche se un’analisi tecnica approfondita e suffraga da riscontri ufficiali porterebbe ad affermare l‘innocenza dei due militari  italiani,  come meglio specificato nella completa analisi tecnica dell’ing. Luigi Di Stefano consultabile al link http://www.seeninside.net/piracy/ peraltro depositata presso la Procura Ordinaria di Roma.
Non intendo, quindi, commentare fatti peraltro già noti, ma tenterò solo di raccontare in maniera semplice momenti questi tre anni che hanno segnato punti fermi, “paletti” significativi e determinanti per l’evoluzione della vicenda. Proporrò il tutto in forma assolutamente narrativa per offrire ai possibili lettori spunti di conoscenza per comprendere come l’Italia stia gestendo la sorte di due propri concittadini in difficoltà pere aver rispettato un mandato loro dato dal Parlamento italiano : assicurare sicurezza al naviglio commerciale nazionale minacciato da possibili azioni di pirateria marittima.
Tratterò, quindi, “i punti cardine” dell’intera vicenda che si trascina ormai da 36 lunghi mesi (il 19 febbraio prossimo scadrà il terzo anno).
Il comunicato della Marina Militare del 15 febbraio ha dato inizio ad una delle più complesse controversie internazionali ed ha segnato il principio di un calvario per due nostri militari coinvolti in eventi tutti da dimostrare e comunque avvenuti mentre esercitavano le loro funzioni istituzionali nel rispetto di un compito ricevuto dallo Stato con una legge,  la 130 dell’agosto 2011.  Una Legge che prevede la presenza di Nuclei di Protezione Militare (NPM) con funzioni antipirateria marittima a bordo delle Navi commerciali italiane, articolata su 5 articoli ma poco chiara almeno per quanto attiene all’unicità di Comando in caso di attacco di pirati, fissando all’articolo 1 che il militare più alto   in grado,  all’emergenza,  assuma il comando del NPM (Nucleo Militare di Protezione) sovrapponendolo al Comandante. Forse unico esempio di atti legislativi che prevede una duplicazione di Comando nella gestione di eventi gravi.
Quel giorno, inoltre, qualcuno commise un grave errore, quello di autorizzare la Erica Lexie a fare rientro nelle acque territoriali indiane ed attraccare nel porto di Koci. Una decisione che di fatto ha dato inizio al susseguirsi di fatti che si trascinano da tre anni.

Una decisione nella quale fu coinvolta anche la linea di Comando dei due militari, quando l'Armatore si confrontò con il Comando Navale  della Squadra Navale (CINCINAV) da cui dipendevano i due marò in missione operativa o con il Comando Operativo Interforze della Difesa (non è dato di saperlo con certezza). Un assenso probabilmente avallato dallo stesso Ministro della Difesa del momento, l'Ammiraglio Gianpaolo Di Paola e di cui il Parlamento fu informato solo dopo 8 mesi dai fatti, il 18 ottobre 2012, quando il Ministro rispose ad un’interrogazione scritta ammettendo che la Difesa era stata informata dall’Armatore sulle richieste indiane ed aveva dato il proprio consenso essendo l’India uno Stato amico.
Da quel momento, secondo un modello comportamentale usuale e consolidato a livello Istituzionale,  è iniziata la rincorsa per appropriarsi dell’onore di risolvere il caso, spesso senza coordinamento e soprattutto non lasciando la gestione degli eventi a chi ne era titolare per mandato istituzionale, il Ministero Affari Esteri, istituzionalmente deputato ad occuparsi degli italiani in difficoltà all'estero.
Molti gli esempi di questa rincorsa al successo che come era immaginabile invece di favorire una soluzione ha pregiudicato il  caso allontanando sempre di più una soluzione dignitosa per i nostri militari e per l’Italia. Le dichiarazioni personali dell'inviato Staffan De Mistura che ad una televisione indiana ammetteva la probabilità che i due marò fossero incappati  in un tragico incidente e quella inaspettata del Ministro della Difesa che con grande risalto mediatico saldava per conto dell'Italia un congruo compenso alle famiglie dei due poveri pescatori ed un risarcimento al proprietario del peschereccio,  altrettanto cospicuo. Un'iniziativa spacciata come un "atto umanitario" ma che di fatto agli occhi degli indiani e del mondo rappresentava un'ammissione di responsabilità proprio da parte di chi aveva la responsabilità dei due Fucilieri, il Ministro della Difesa. Una luce in fondo al tunnel, per usare un'espressione cara al Presidente del Consiglio del momento, si accese quando la diplomazia italiana riuscì ad ottenere che ai due militari fosse concesso di rientrare in Italia per due settimane in occasione del Natale del 2012.
Un successo che, però, non fu sfruttato a vittoria che, però, non destinata a durare poco perché l'esecutivo dopo quindici giorni restituì all’India gli ostaggi senza che la magistratura esercitasse nei loro confronti  almeno il divieto di espatrio essendo inscritti nel registro degli indagati per il reato di omicidio volontario.
Il 18 gennaio 2013 l’importante sentenza della Corte Suprema indiana che toglieva la giurisdizione del caso allo Stato del Kerala ed ammetteva che l’incidente fosse accaduto a 20,4 miglia marine dalla costa indiana, in acque internazionali, seppure definite contigue ai fini del diritto dello Stato costiero di esercitare controllo su contrabbando, immigrazione clandestina o altri eventi simili che potessero compromettere la sicurezza interna. La Corte decideva, però, che in ogni caso i due Fucilieri di Marina dovevano essere giudicati da un Tribunale Speciale indiano, disattendendo ogni contenuto del Diritto Internazionale e della Convenzione sul Mare (UNCLOS - Montego Bay).
Una sentenza assolutamente impropria,  che dava immediatamente all’Italia la possibilità di adire all’Arbitrato internazionale affinchè fosse impugnata di fronte ad una “Collegio giudicante terzo”, ma da parte italiana non fu presa nessuna decisione.
Di lì a tre mesi un'altra vittoria diplomatica riportava Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in Italia. In occasione delle elezioni politiche in Italia, infatti, il MAE riusciva ad ottenere dall’India che ai due militari fosse concesso di votare in Italia concedendo loro un permesso di quattro settimane.
Quattro settimane di permesso concesso dall'India e che poteva essere interpretato come un chiaro segnale per l'Italia : sappiamo che possono votare qui a Delhi, 4 settimane sono , comunque n tempo infinito per esercitare il diritto di voto ma ve li riconsegniamo pere darvi la possibilità di gestire la questione in maniera onorevole per Roma e Delhi.
L'allora Ministro Terzi tentò invano di soddisfare l'alleato indiano concordando con tutti i Ministri aventi causa e sotto l'avallo del Presidente Monti di non rimandarli in India che, peraltro, aveva disatteso una nota verbale italiana con la quale si invitava ad un tavolo di trattative bilaterale.
Infatti, L’11 marzo del 2013 alle ore 17,53 l’AGI pubblicava  una dichiarazione del Vice Ministro De Mistura che  dichiarava testualmente “La decisione di non far rientrare i maro’ in India “e’ stata presa in coordinamento stretto con il presidente del Consiglio Mario Monti e d’accordo tutti i ministri” coinvolti nella vicenda, “Esteri, Difesa e Giustizia”. Aggiunge che “siamo tutti nella stessa posizione, in maniera coesa e con il coordinamento di Monti”.
De Mistura chiariva anche, che  “a questo punto la divergenza di opinioni” tra l’Italia e l’India sulle questioni della giurisdizione e dell’immunità richiede un arbitrato internazionale: il ricorso al diritto internazionale o una sentenza di una corte internazionale” e che non c’e’ stata ancora una reazione indiana alla nota verbale consegnata dall’ambasciatore italiano a New Delhi Daniele Mancini.  “Le nostre priorità - ha spiegato il Sottosegretario - sono da un lato l’incolumità’ e il ritorno in patria dei nostri maro’ e dall’altro mantenere un ottimo rapporto di lavoro e di collaborazione con le autorità indiane. L’India - ha aggiunto - e’ un grande Paese con il quale abbiamo tutta intenzione di avere un ottimo rapporto. E questo - ha concluso - e’ un motivo in più per lasciare le divergenze nelle mani del diritto internazionale, magari con una sentenza di una corte internazionale”. Una dichiarazione che però dieci giorni dopo è stata sconfessata dai fatti i quanto i due Marò sono stati fatti rientrare invece improvvisamente in India. I motivi sono stati spiegati in Parlamento e non entro nel merito, esprimo solo tutto il mio sdegno per una vicenda iniziata male e finita ancora peggio e che coinvolge direttamente da quasi 15 mesi  due militari italiani e le loro famiglie.
Una dichiarazione a cui seguiva un’iniziativa giudiziaria di chi scrive che chiedeva formalmente alla Procura di Roma di applicare ai due militari, inscritti nel registro degli indagati per omicidio volontario, il divieto di espatrio e l’obbligo di firma in Italia.
Il 18 marzo 2013 il Ministero degli Affari Esteri con un comunicato ufficiale del Governo ribadiva l’intenzione di trattenere in Italia i due Fucilieri di Marina http://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/2013/03/20130318_maro_comunicato_governo.html, riportando testualmente “ in relazione agli sviluppi in India della vicenda Marò, il Ministero degli Affari Esteri, a nome del Governo, fa presente quanto segue:
  1. VIOLAZIONE IMMUNITA' DIPLOMATICHE: La decisione della Corte Suprema di precludere al nostro Ambasciatore di lasciare il Paese senza il permesso della stessa Corte costituisce una evidente violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche che codifica principi universalmente riconosciuti. Continuiamo a far valere anche formalmente questo principio, fondamentale per le relazioni tra gli Stati, e principio-cardine di diritto consuetudinario e pattizio costantemente ribadito dalla Corte Internazionale di Giustizia.
  2. PREVALENZA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE:  L'Italia continua a ritenere  che il caso dei suoi due Fucilieri di Marina debba essere risolto secondo il diritto internazionale. In questo senso abbiamo proposto di deferire all’arbitrato o altro meccanismo giurisdizionale la soluzione del caso.
  3. FONDAMENTO DELLA NOSTRA DECISIONE:  La nostra richiesta alle Autorità  indiane di avviare consultazioni ex art. 100 e art. 283 della Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS) non ha sinora ricevuto riscontro. Tale percorso era stato indicato dalla stessa sentenza della Corte Suprema indiana  del 18 gennaio e più volte in passato proposto dall'Italia.  Diniego indiano abbiamo altresì registrato, nella medesima occasione, all’ulteriore nostra proposta di consultazioni tra esperti giuridici.
Tale posizione da parte dell'India ha con nostra sorpresa e rammarico modificato lo scenario e i presupposti sulla base dei quali era stato rilasciato l'affidavit.  Nelle mutate condizioni il rientro in India dei Fucilieri sarebbe stato in contrasto con le nostre norme costituzionali (rispetto del giudice naturale precostituito per legge, divieto di estradizione dei propri cittadini, art. 25, 26 e 111 della Costituzione). Le nostre tempestive richieste di rogatoria per consentire i procedimenti penali aperti in Italia rimangono tuttora prive di riscontro.
Per questi motivi, il Governo italiano è giunto alla determinazione, dopo essersi a lungo impegnato per una soluzione amichevole della questione - nella quale tuttora crediamo convintamente - di formalizzare l'11 marzo l’apertura di una controversia internazionale.
  1. DIALOGO: L'Italia ribadisce la propria convinta volontà di pervenire a una soluzione della vicenda, avviando ogni utile consultazione. Ciò nello spirito delle amichevoli relazioni che desidera  mantenere con l'India, nella consapevolezza  della  importanza dell'India, sia sotto il profilo bilaterale sia sul piano delle sfide e delle responsabilità globali che ci accomunano”.
Un Comunicato inequivocabile nei contenuti e sicuramente secondo prassi consolidata vistato dal Premier in carica, in considerazione che la Farnesina titolava “Marò: Comunicato del Governo”.
Una decisione governativa, però, immediatamente sconfessata dallo stesso Premier che stabilì, invece,  di dare corso ad una vera e propria estradizione passiva, riconsegnando due militari a Delhi che per il reato loro attribuito prevedeva la pena di morte. Un atto che negava ai due militari anche il diritto dell'immunità funzionale prevista dal Diritto pattizio, dovuta al personale militare in missione operativa fuori dal territorio nazionale decisa dal Parlamento italiano nel rispetto di una risoluzione delle Nazioni Unite per il contrasto della pirateria marittima.
I due Fucilieri di Marina da ottimi militari quali sono pronunciarono in quel momento una parola che si sarebbe poi dimostrata fatale per loro : “obbedisco”,  anche perché fu data loro l’assicurazione che il tutto si sarebbe risolto nell’arco di qualche settimana. Un atto di subordinazione compiuto quella sera del 22 marzo 2013 che stanno pagando a caro prezzo, Latorre, anche con la compromissione della propria salute, Girone lontano dai suoi affetti famigliari.
Da quel momento un sipario impenetrabile cade sulla vicenda. Il Governo Monti termina il proprio mandato sostituito dal Governo Letta che fin da subito affronta con distacco la vicenda delegando in toto il proprio Ministro degli Esteri , la dottoressa Emma Bonino, che, però, non dava segnali incoraggianti con iniziative significative. Preferiva, invece, dichiarare in un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica nel settembre 2013 “Non è provata l‘innocenza dei due Marò”, dissacrando i principi fondamentali dello Stato di diritto.
La vicenda continua, dunque, a trascinarsi ed i mesi passano proteggendo "verità nascoste" che trovano origine dalle decisioni prese dal  Governo Monti quel vergognoso 22 marzo 2013, quando lo Stato - unico esempio nella storia del mondo - consegnò  due propri militari in mani “palesemente ostili”.
Una decisione in assoluto contrasto con la cultura giuridica ed etica italiana e presa senza rispettare la   Costituzione  e l’articolo 698 del Codice di Procedura Penale che vieta l’estradizione di chiunque, italiano o non, che rischi di essere oggetto di  un procedimento  penale senza la garanzia dei diritti fondamentali della difesa ed in assenza prove  certe.
Una  decisione  istituzionale  di dubbia congruità legale ed all’epoca  giustificata  dall’assicurazione  formale  dell’India sulla non applicazione della pena capitale. Documento, però, privo di consistenza  giuridica,  come espressamente sancito da una sentenza della Corte Costituzionale (n. 223 del 27 giugno 1996) con cui la Suprema Corte ha ritenuto la   semplice garanzia formale della non applicazione della pena  di  morte,  atto  insufficiente  alla concessione  di un’estradizione seppure “passiva” .
Una decisione abnorme per un Paese come il nostro,  tradizionalmente in prima linea nel combattere la pena di morte. In quel triste giorno, invece, l'Italia ha palesemente voluto tutelare  interessi di dubbia natura considerati prevalenti rispetto alla certezza della difesa del diritto alla vita, solennemente proclamato in tutti gli atti internazionali sui diritti della  persona, a cominciare dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1984.
Un’Italia che in quella occasione, a distanza di più di due secoli,  ha dimenticato che la “pena di morte non è un diritto, ma è guerra di una nazione contro un cittadino”, come scriveva Cesare Beccaria in “Dei delitti e delle pene”.
Un vero e proprio arbitro i cui motivi non sono chiari e per questo, chi scrive ed altri 380 cittadini,  il 20 giugno 2014 hanno depositato un esposto presso la Procura della Repubblica di Roma, perché fossero accertate eventuali responsabilità. La Procura nonostante chiesto formalmente non ha ancora notiziato sugli esiti.
L'eventualità che l'India potrebbe applicare la pena capitale nei confronti di Latorre e Girone, peraltro, non è ancora scongiurata se si analizzano recenti agenzie di stampa sulla vicenda. Un' AGI da New Delhi del 30 agosto riporta tra l’altro “… La polizia antiterrorismo Nia, che ha istruito il caso dei maro' accusati dell'uccisione di due pescatori indiani nel febbraio 2012, lo ha affidato al tribunale speciale , nonostante l'opposizione della difesa che sostiene che la Nia non avesse più  competenza….e  su cui si e' in attesa delle controdeduzioni del governo di New Delhi”.
Controdeduzioni che non risulta siano ancora arrivate per cui rimane “pending” la competenza della NIA e quindi l’applicazione della Sua Act (legge antiterrorismo) e, conseguentemente, il rischio della pena capitale non è ancora cancellato.
Tre anni, giorni rotti solo da dichiarazioni di intenti e da nessun risultato, che offendono l’Italia, le sue tradizioni e la sua cultura. Trentasei mesi durante i quali  la sovranità italiana è stata cancellata per proteggere interessi economici di lobby e personali non meglio connotabili.
Una storia senza fine, inaccettabile ed in cui le parole dominanti sono state sempre “riservatezza e profilo basso". Tre anni caratterizzati da un’indifferenza totale e quasi generalizzata a livello politico, incomprensibile da parte di chi invece avrebbe dovuto far sentire la propria voce in maniera incisiva. Primo fra tutti il Presidente della Repubblica Napolitano, custode della Costituzione ed al quale la Carta Costituzionale all’articolo 87 assegna l’alto Onore di Capo delle Forze Armate, il quale ha persino dimenticato di nominare i due Fucilieri di Marina nel suo discorso di commiato all’atto delle dimissioni.
Tre lunghi anni in cui si sono succeduti tre Governi che sembra si siano passati “il testimone” su come gestire il caso. Quello del Presidente Monti che  ha deciso di rispedire in India i due Fucilieri di Marina con un Ministro della Difesa attento a non abbandonare una nave ormai alla deriva e prossima all’approdo, pur di non rischiare posizioni di privilegio future.
Quello Letta, piuttosto disattento alla vicenda con un Vice Ministro degli Esteri Lapo Pistelli pronto a dichiarare di aver concordato con l’India “regole di ingaggio” avanzando anche l’ipotesi di una disponibilità italiana di accettare una mite condanna indiana a seguito della quale far rientrare i due militari in Italia nel quadro dello scambio di condannati, cos’ come  previsto da un accordo bilaterale sottoscritto nell’agosto 2012.
Un terzo Governo, l’attuale, con il Presidente del Consiglio pronto a dichiarare agli italiani la sua vicinanza ai due Marò con telefonate ed altre azioni di facciata, ma poco concreto nei risultati.
Un Primo Ministro che in base alle sue consolidate esperienze in tema di politica estera  preferisce ricorrere ad una "Diplomazia Tranquilla" , sinonimo in questo caso di "Diplomazia Dormiente", visti i risultati fino ad ora raggiunti. Un Premier pronto ad ostentare ottimismo dopo quattro parole scambiate con il Premier indiano Modi in occasione dell’ultimo G20, ma altrettanto “timido” nel portare avanti iniziative internazionali,  nonostante che lo stesso Premier indiano avesse qualche giorno prima del G20 che di fronte alla pirateria marittima doveva applicarsi il Diritto Internazionale.
Un Esecutivo caratterizzato forse più del precedente da sole dichiarazioni di intenti che a nulla hanno portato e che ha anche disatteso anche una proposta della Croce Rossa Internazionale di occuparsi della vicenda.
Le Onorevoli  Pinotti e Mogherini, rappresentanti della Difesa e degli Esteri, assolutamente in sintonia nel rivendicare a parole il diritto italiano a giudicare, incisive nel dichiarare di essere pronte ad internazionalizzare il caso, ma pronte il giorno dopo a dichiarare l’intenzione di portare avanti contatti bilaterali basati su approcci di  "secret diplomacy" ereditati forse dalla dottoressa Bonino.
Ora un nuovo Ministro degli Esteri italiano, l’Onorevole Paolo Gentiloni che si affaccia alla ribalta internazionale dichiarando,  anche lui appena nominato,  di aver telefonato a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, per poi tacere.
Gli italiani, invece, continuano ad attendere che due concittadini rientrino in Italia liberi ed a testa alta e le Forze Armate aspettano un segnale che garantisca loro la tutela dello Stato quando impiegate in operazioni fuori dal territorio nazionale.
Gli italiani che ancora credono nello Stato sono stanchi e non meritiamo ancora una volta le dichiarazioni di speranza come quelle del Presidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera dei Deputati, Onorevole Cicchitto che recentemente ha auspicato che:  "................. i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone possano contare anche sulla solidarietà europea e della comunità internazionale per una rapida e definitiva risoluzione della loro vicenda" (ANSA 6 nov).
Un’ulteriore dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che parte della politica piuttosto che agire concretamente preferisce affidare l’affidabilità dello Stato alla solidarietà degli altri.
Un'Italia, infine, stanca di essere irrisa all'estero quando il neo Ministro degli Esteri auspica , a quasi sei mesi dall’elezione del Presidente MODI, che il mutato quadro politico  in India "produca risultati" sul caso dei due marò e che ancora due giorni orsono intervistato dalla TV di Stato ha espresso ancora speranza ma non certezza.
Il Ministro Gentiloni invece di sperare dovrebbe far leva su quanto stabilito dal diritto internazionale e dalla Convenzione UNCLOS, avviando l'arbitrato tanto promesso dall'Onorevole Mogherini,  ma che forse dimenticato in qualche cassetto della Farnesina.
L'Italia, infatti,  ha tutte le carte in regola per avere  riconosciuti i propri diritti da “un arbitro internazionale” così come previsto dalla Convenzione del mare. Non esistono giustificazioni perché ancora non sia stata avviata questa procedura, soprattutto perchjè proprio lo stesso  Presidente Modi  abbia espresso la convinzione che l’India in tutte le controversie sul Diritto del Mare deve richiamarsi alla Convenzioni delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS).
L'Onorevole Gentiloni, quindi, se vuole confermarci la sua fiducia nella nuova politica di Modi, deve avviare immediatamente gli atti internazionali previsti ed in un certo senso indicati dal Presidente indiano come la strada da seguire.
Non procedere in questa direzione rappresenterebbe una specifica responsabilità della politica italiana di cui qualcuno dovrà renderne conto.
Il Premier Renzi ammonisce a  non alimentare polemica con l'India. Quale sia lo scopo del suo invito non è chiaro. Cosa intenda con le parole “alimentare polemica” non è semplice ad essere compreso. Se voglia dire essere prostrati all’arroganza dell’India non credo che sia un consiglio accettabile. Se, invece, intende che si debba tacere, con il massimo rispetto per la Sua persona, il Suo suggerimento non può essere accettato almeno fin quando l'Italia non abbia attuato le azioni internazionali previste dal Diritto e dalle Convenzioni ONU.
Peraltro tenere alta l'attenzione non significa a mio modesto avviso polemizzare con l'India, piuttosto dimostrare dissenso su come l'Italia garantisce ai propri cittadini tutela e protezione di fronte alla protervia di uno Stato Terzo.
Forse questo è il motivo che induce il Premier ad auspicare una moderazione dei toni, ma se così fosse - pur nel massimo rispetto delle Sue aspettative - è un invito che tutti coloro che amano il proprio Paese ed hanno alto il senso dello Stato non possono accogliere.
Un invito che non ha accolto nemmeno il neo eletto Presidente della Repubblica Mattarella che a differenza del Suo predecessore ha fatto Suo l’onore concessogli dalla Costituzione ed ha ricordato, durante il suo discorso di insediamento, il problema  di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.
Questa volta Signor Presidente non è il Ministro Gentiloni che spera in azioni costruttive da parte indiana, ma siamo noi italiani che auspichiamo fortemente che il loro Presidente della Repubblica si occupi immediatamente della sorte di tre militari italiani in ostaggio di uno Stato terzo da tre anni, rifiutando ogni compromesso politico,  ma pretendendo che sia l’Italia a giudicare i propri uomini come prevede il Diritto Internazionale.
Aspettiamo fiduciosi Presidente Mattarella. !!!

Fernando Termentini, 8 febbraio 2015
 fonte: http://www.stefanomontanari.net

Che fine ha fatto Federica Mogherini? L’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea sembra essere fuori da tutti i tavoli: da quello dell’Ucraina, dove si sono seduti la Merkel e Hollande a quello sul nucleare dove a preso posto Lady Ashton. E l’India la ignora perfino quando si parla dei marò


 
 
il Giornale, martedì 10 febbraio 2015
 
Povera lei. O poverini noi? Osservando i desolanti scenari della politica europea qualcuno potrebbe azzardare un «povera Mogherini». Più che l’«Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea» Federica Mogherini sembra infatti una piccola fiammiferaia eternamente acquattata dietro le vetrine dei grandi eventi internazionali. Ed eternamente ignorata. Se bisogna correre da Vladimir Putin e discutere un cessate il fuoco per la martoriata Ucraina, come è successo qualche giorno fa, quei cattivoni di Merkel e Hollande manco la interpellano. Quando si deve condurre il negoziato sul nucleare con l’Iran, ruolo riservato ufficialmente al capo della diplomazia europea, quei birboni di americani e iraniani – spalleggiati da Francia, Germania, Russia e Cina – le preferiscono Lady Ashton l’arcigna, ma probabilmente più affidabile, baronessa inglese transitata prima di lei sullo scranno di rappresentante europeo. Se invece si tratta di implorare un minimo di solidarietà per i due marò prigionieri in India la risposta è solo un muro di sconfinata indifferenza.
Attenzione però, stavolta a pensar male illudendoci che i cattivi siano gli altri si sbaglia. E di grosso. Il problema non sono i poco simpatici «amici» europei, ma la conclamata inconsistenza e dell’inesperto personaggio che Matteo Renzi ha prima nominato ministro degli esteri e poi immeritatamente promosso al ruolo di Lady Pesc. Per questo l’esclamazione corretta non è «povera lei», ma «poveri noi». Da quando questa dilettante allo sbaraglio allevata nelle batterie del Partito Democratico è scesa in campo la politica estera italiana è letteralmente scomparsa. E con essa si è dissolta anche qualsiasi parvenza di difesa degli interessi nazionali. In compenso ci siamo conquistati le banalità con cui Federica Mogherini tenta di sopperire alla propria cronica inadeguatezza. Da Monaco, dove vaga ignorata tra i corridoi della Conferenza sulla Sicurezza, la responsabile della Sicurezza Europea ci spiega che in Libia è arrivato l’Isis. La constatazione risente di un ritardo di almeno tre mesi, ma non è questo il problema. Il problema vero è che da una al suo posto non ci attendiamo solo notarili attestazioni di conclamati disastri, ma proposte politiche o militari. Ma per Federica Mogherini la Libia – distante 400 chilometri dalle nostre coste – è chiaramente un non problema. Da quando è approdata alla Farnesina fino a quando è volata Bruxelles – superando invisibile ed impercettibile il semestre italiano di presidenza europea – la Mogherini non si è fatta latrice di una singola iniziativa riguardante l’ex colonia da cui sarebbe auspicabile continuare ad importare anche petrolio e gas oltre ai 170mila clandestini dell’ultimo anno.
Sul fronte Ucraina, dove l’Italia avrebbe tutto l’interesse a difendere le importazioni di gas russo e le esportazioni verso Mosca, il suo operato è altrettanto inconsistente. Se non addirittura dannoso. In una recente intervista a Repubblica Federica si compiace infatti di annoverare tra i propri meriti l’estensione delle sanzioni alla Russia decisa dal Consiglio dei ministri degli Esteri europei. Come se non bastasse l’imposizione a Bruxelles di questa «piccola fiammiferaia», spesso inutile e talvolta dannosa, ci ha costretto a rinunciare alla nomina di commissari ben più essenziali per difendere gli interessi politico economici dell’Italia. Silvio Berlusconi a suo tempo aveva piazzato Antonio Tajani sulla poltrona dell’Industria. Per avvantaggiare la Mogherini Matteo Renzi ha invece preferito rinunciato ad un Commissario all’agricoltura fondamentale per difendere le specificità della nostra produzione alimentare. E cosi mentre l’Europa ci ignora e ci scavalca non possiamo neppure protestare. Perché, tapini noi, «chi è colpa del suo mal pianga se stesso». 
 
Gian Micalessin - 10 febbraio 2015
fonte: http://cinquantamila.corriere.it

Ucraina, una bomba a orologeria

 

Dottore in Economia, docente presso l’Università Pierre Mendes France di Grenoble, ricercatore indipendente specializzato in questioni economiche e geostrategiche russe, Jean Geronimo è l’autore de Il pensiero strategico russo, ed è in procinto di pubblicare un nuovo libro sull’Ucraina. Propone un’analisi strutturale della crisi in Ucraina… lungi dai discorsi dominanti.

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La battaglia per l’Ucraina è una questione geopolitica importante per le due superpotenze della Guerra Fredda, nell’ambito del gioco strategico giocato sulla scacchiera eurasiatica agendo sugli Stati-perno nella regione quali pedine della partita. Il controllo dell’Ucraina, vista da entrambi i lati come Stato chiave in questa scacchiera, rientra nel perseguimento di due obiettivi, estendere le zone d’influenza ideologica e conquistare la leadership politica nell’Eurasia post-comunista. Associata alla capacità d’influenzare i principali attori della regione, la natura strategica dell’Ucraina sul piano politico (al centro di grandi alleanze) ed energetico (al centro della rete dei gasdotti) ne spiega il ruolo fondamentale nella linea anti-russa di Z. Brzezinski scelta dall’amministrazione Obama. La cooptazione dell’Ucraina, definita da E. Todd “periferia russa”, dovrebbe infatti spezzare la strategia della ricostruzione del potere eurasiatico adottata da Mosca dalla fine degli anni ’90. Questa ricostruzione del potere russo avviene recuperando il dominio regionale e verrà realizzata nel 2015 con la nascita dell’Unione economica eurasiatica. Alla fine, questa configurazione giustifica la terminologia di Brzezinski di “perno geopolitico” dell’Ucraina, all’origine del conflitto avviato con un vero e proprio colpo di Stato, secondo J. Sapir.

Un golpe nazional-liberale manipolato
In questo contesto, il golpe propedeutico per controllare la grande regione dell’ex-Unione Sovietica ha giustificato una strategia manipolativa basata su una disinformazione continua per compattare l’opinione pubblica internazionale e, soprattutto, sostenere un processo “rivoluzionario” ispirato al modello siriano, nella sua fase iniziale. L’obiettivo era far precipitare la caduta del presidente in carica Viktor Janukovich, fornendone una legittimazione confermata dall’assegno in bianco occidentale. In ciò, il colpo di Stato nazional-liberale, ufficialmente avvenuto il 22 febbraio 2014, rientra nella logica degli scenari “colorati” degli anni 2000 costruiti dall’occidente nello spazio post-sovietico con le sue proiezioni locali ed ONG “democratiche” basate sulle potenti reti politiche delle élite oligarchiche e dei principali oppositori al potere filo-russo di turno. Al momento, tali “manifestazioni” furono interpretate dal Cremlino come segnali di un’offensiva globale volta, infine, contro la Russia e le cui premesse, via interferenza occidentale, furono osservate nelle ultime elezioni russe (presidenziali) nel marzo 2012. Secondo una certezza inquietante e nonostante l’assenza di prove reali, l’ONG Golos, finanziata dagli USA (!) accusò Putin di “massicci brogli elettorali”. L’obiettivo di Golos era fomentare il malcontento nelle piazze per creare, in ultima analisi e invano, un’effervescenza “rivoluzionaria” per destabilizzare il nuovo “zar rosso”. Con una ridondanza mediatica, continua e manipolatrice, osservata poi durante Majdan. La visione “complottista” russa è meglio riassunta da H. Carrère d’Encausse nel suo libro del 2011 “La Russia tra due mondi”. Ricorda che per Putin c’è una “vasta operazione di destabilizzazione della Russia emergente in cui Stati e organizzazioni di tutti i tipi, dall’OSCE alle varie ONG straniere, averebbero unito le forze per indebolirlo“. Derivanti dalle tecnologie politiche occidentali volte a erodere l’influenza dell’ex-superpotenza sulla periferia post-sovietica, tali “rivoluzioni colorate” hanno dimostrato una straordinaria efficienza con l’eliminazione dei leader filo-russi in Georgia, Ucraina e Kirghizistan. Così si assistette alla nascita di una nuova ideologia implicita nella democrazia liberale, usata quale leva legale per interferire nella politica interna degli Stati presi di mira. Tale leva è considerata da Putin elemento essenziale del nuovo soft power occidentale per destabilizzare i regimi ‘nemici’ e, attraverso esso, potenziale minaccia al suo potere. Stranamente, come ricorda J. M. Chauvier, quella stessa democrazia ha ignorato il ruolo critico delle correnti estremiste nazionaliste, vicine al neo-nazismo, nel successo finale del processo “rivoluzionario” di Euromaidan, precipitato dai misteriosi cecchini. Catalizzato dall’odio ideologico anti-russo e anticomunista, tale risveglio in Ucraina del pensiero ultranazionalista d’ispirazione neo-nazista è parte di una tendenza generale in Europa, giustamente osservata da A. Grachev, ultimo portavoce e consigliere del presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov. Nel suo libro del 2014 “La storia della Russia è imprevedibile”, Grachev dice “l’aumento della popolarità del nazionalismo di estrema destra e neo-fascista (…) dimostra i limiti e, in ultima analisi, il fallimento del nostro sistema democratico: E’ sempre più chiaro che il meccanismo ben oliato della democrazia (…) comincia a bloccarsi“. Una constatazione amara alla base, già, della Perestrojka di Gorbaciov, che mette in discussione la vera natura della “rivoluzione” di Kiev.

Le nuove minacce rivoluzionarie “colorate”
In questo contesto geopolitico sensibile, le “rivoluzioni colorate” sono considerate le principali minacce alla stabilità dei presunti Stati democratici dell’area post-sovietica, in particolare della Russia di Putin strutturalmente presa di mira e che teme una “sceneggiatura ucraina”. L’universalizzazione della democrazia nel mondo con il soft power, o la forza se necessario, sembra essere oggi un “interesse nazionale” degli Stati Uniti e della loro funzione di regolamentazione prioritaria da unica superpotenza legittimata dalla storia. Tale postulato scientificamente (molto) dubbio fu proclamato nel 2000, con euforia condiscendente, dall’ex-segretaria di Stato di George W. Bush Condoleezza Rice, convinta della funzione messianica del suo Paese: “è compito degli USA cambiare il mondo. La costruzione di Stati democratici è ormai componente importante dei nostri interessi nazionali”, una forma di autolegittimazione neo-imperiale in nome, ovviamente, degli ideali democratici, costituendo un’ideologia globalizzatrice espansionista. Preoccupante. Di fronte tali nuove minacce “colorate” gli Stati membri delle strutture politico-militari del Collective Security Treaty Organization (CSTO) e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) hanno deciso, su impulso della Russia, di coordinarsi per definire una comune strategia di prevenzione. L’obiettivo dichiarato è accomunare regionalmente i vari mezzi per neutralizzare tale nuova arma politica, ora privilegiata dall’occidente, e che si affida sempre più ai colpi di Stato astutamente costruiti. In altre parole, si tratta di aprire un fronte comune eurasiatico contro le future “rivoluzioni” nazional-liberali. Innegabilmente, l’imbroglio ucraino ha promosso tale consapevolezza politica e, quindi, giustifica la guida sicura della Russia nel suo campo prioritario, la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), accelerandone l’integrazione regionale. Per Washington è un effetto perverso non programmato, un errore strategico. Tuttavia, alcuni effetti post-rivoluzionari sono disastrosi per la Russia. Un primo effetto geopolitico della “rivoluzione” di Kiev è l’estensione della sfera euro-atlantica nell’ex-URSS, perpetuando di fatto il declino russo nel suo estero vicino, considerato dalla sua dottrina strategica quale minaccia agli interessi nazionali. Un secondo effetto, più psicologico, di tale curiosa “rivoluzione” è alimentare la paura russa della progressione irresponsabile delle infrastrutture di una NATO super-armata nei pressi dei suoi confini che, in ultima analisi, solleva la questione politicamente delicata dello scudo antimissile statunitense. A causa di tale rapido aumento delle minacce, si assiste in Russia al ritorno della “sindrome da fortezza assediata” resuscitata dall’abisso ideologico della guerra fredda. Per la Russia, costretta a rispondere, la crisi ucraina lascerà un segno indelebile nella memoria strategica. e non solo, e nella sua visione dell’occidente. Da questo punto di vista, Majdan segna una rottura geopolitica radicale.

La reazione difensiva russa tramite l’asse eurasiatico
Diffusa dalla propaganda mediatica sulla “minaccia russa” e illustrata da crescenti sanzioni, la strategia anti-russa dell’asse euro-atlantico accelera il mutamento asiatico nella politica russa e favorisce l’ascesa dell’asse eurasiatico sotto la direzione sino-russa, a nuovo contrappeso geopolitico all’egemonia statunitense. Nel lungo termine, tale ostilità occidentale incoraggerà il governo russo a potenziare il proprio sviluppo, riflesso sovietico, riducendone la dipendenza estera. Nel prisma sovietico-russo, tale dipendenza è vista come debolezza politica, in quanto i potenziali avversari possono usarla come opportunità strategica: rafforzando la pressione su Mosca, isolandola sul piano commerciale attraverso un embargo selettivo su tecnologie sensibili. L’obiettivo finale dell’embargo è rallentare lo sviluppo della Russia e, attraverso ciò, il rafforzamento della potenza militare, come ai bei vecchi tempi della lotta anticomunista. Tale modello negativo è aggravato dalla caduta del rublo con consecutivo triplice impatto di sanzioni, fuga di capitali e crollo dei prezzi del petrolio manipolato da Washington, con l’obiettivo di destabilizzare Putin fomentando una recessione economica che alimenti la protesta popolare, potenzialmente “rivoluzionaria”. Tutti i colpi sono ammessi sulla Grande Scacchiera. Nella percezione strategica russa e, nella misura in cui Mosca viene stigmatizzata come “nemica dell’occidente” erede dell’asse del male, la crisi ucraina mostra ancora uno spirito da guerra fredda. In realtà, tale guerra latente continua, nonostante la breve luna di miele USA-Russia osservata dopo la tragedia dell’11 settembre 2001. Dopo la mano tesa di Putin a Bush e la disponibilità a collaborare nella lotta al terrorismo. L’atteggiamento minaccioso e provocatorio dell’occidente nella gestione di tale crisi, è divenuta rapidamente una diatriba anti-Putin, portando alla rinascita politica della NATO, legittimandone l’estensione e infine costringendo Mosca a cambiare linea strategica. Sottoprodotto geopolitico di Euromajdan.

Dopo la provocazione della NATO, il reindirizzo dottrinale russo
Con la voce del capo della diplomazia Sergej Lavrov, la Russia ha reagito con forza e condannato tale errore increscioso, il 27 settembre 2014: “Considero un errore l’allargamento dell’alleanza. Ed è anche una sfida (…)“. Pertanto, reagendo a tali “nuove minacce”, l’amministrazione russa ha programmato un radicale inasprimento della propria dottrina militare in senso più antioccidentale, in ciò che Mosca ha chiamato “risposta giusta”. Per attuare tale reindirizzo dottrinale, “(…) La Russia ha bisogno di potenti forze armate in grado di affrontare le sfide di oggi“, e un incremento assai significativo (un terzo) delle spese militari russe è in programma nel 2015, secondo la finanziaria. De facto, l’idea di un riequilibrio geo-strategico si gioca nel cuore del conflitto ucraino e, per estensione, nel cuore dell’Eurasia post-comunista. Con risultato finale, l’emergere di un conflitto congelato potenzialmente destabilizzante per la regione. Alla fine, nel quadro della crisi in Ucraina e nonostante gli accordi di Minsk del 5 settembre, l’esacerbazione della contrapposizione Stati Uniti e Russia alimenta una rinnovata forma di guerra fredda, la guerra tiepida incentrata sulla rinascita della polarizzazione ideologica. Oramai ciò nutre il contagio globale delle “rivoluzioni” nazional-liberali eterodirette dalla coscienza democratica indottrinata degli USA, per conto della loro legittimità storica radicata nella vittoria finale sul comunismo. Nel suo discorso annuale, molto aggressivo, del 4 dicembre 2014, al parlamento russo, Putin ha denunciato tale pericolosa deriva la cui conseguenza inquietante è l’accelerazione della nascita dell’ideologia neonazista nello spazio post-sovietico, anche in Ucraina. Il 29 gennaio 2015, Mikhail Gorbaciov ha riconosciuto che l’irresponsabilità della strategia degli Stati Uniti ha portato la Russia nella “nuova guerra fredda”. Confessione terribile. Le implicazioni strategiche della falsa rivoluzione di Majdan sono una vera bomba geopolitica a scoppio ritardato.


1782111Traduzione di Alessandro Lattanzio

Jean Geronimo - 8 febbraio 2015

fonte: https://aurorasito.wordpress.com

09/02/15

SE GLI STATI UNITI PERDONO IL CONTROLLO DELL’EUROPA



 
Com’era logico attendersi, i dissapori fra Atene e l’Unione Europea non hanno tardato ad esplodere, e ciò rientra all’interno di un ben prevedibile copione. Chiedere a Tsipras di rinunciare al proprio programma di governo e alle proprie promesse elettorali, infatti, equivale a chiedergli di suicirdarsi politicamente e di fallire, riconsegnando così la Grecia a quella precedente classe politica che è stata responsabile della sua devastazione. Non ci si può quindi meravigliare del fatto che Tsipras e Varoufakis rispondano picche a tali richieste, cercando i propri referenti altrove, come d’altronde già hanno fatto prima di loro i governi di Slovacchia, Ungheria e Cipro, andati a bussare alle porte del Cremlino. Si conferma, in questo modo, una tendenza inauguratasi ormai già da qualche anno e che pare rafforzarsi ormai sempre di più: indubbiamente il grande salto di qualità essa lo conoscerà con la più che probabile vittoria, alle prossime presidenziali, di Marine Le Pen. A quel punto un paese fondatore della Comunità Europea, come la Francia, s’avvicinerà marcatamente alla Russia, e ciò scompaginerà equilibri consolidati e finora ritenuti intoccabili non soltanto nell’Est dell’Unione, ma anche nell’Ovest.
Sarà interessante, allora, valutare quali saranno le conseguenze anche sugli altri Stati dell’Unione. Premesso che la vittoria della Le Pen non dev’essere considerata come matematicamente certa, dal momento che potrebbe anche non avvenire (ed in Francia, infatti, stanno lavorando in tutti i modi per scongiurarla), rimane comunque il fatto che gli equilibri e l’indirizzo “atlantista” della famiglia europea vengano ormai, di giorno in giorno, sempre più logorati e messi in discussione da nuove e da vecchie logiche geopolitiche. Ciò fa pensare che la strategia statunitense di separare l’Europa dalla Russia sia difficilmente destinata ad avere successo. Il Trattato di Libero Commercio fra le due sponde dell’Atlantico, per esempio, ha incontrato più di un imprevisto nella sua applicazione, con nuovi ed inattesi contrasti sorti in sede di trattativa, e qualora altri paesi europei dovessero prendere posizione a favore della Russia difficilmente esso potrebbe trionfare come previsto. La politica delle sanzioni contro Mosca, dopo un avvio in quarta, ha visto un affievolimento causato dal ripensamento di vari Stati europei, che sotto la pressione dei loro settori economici interni ora stanno premendo per un suo addolcimento se non addirittura per una sua revoca. Infine, l’idea di un indurimento del conflitto in Ucraina, con un maggior coinvolgimento della NATO e la fornitura di più armi all’esercito e alla Guardia Nazionale ucraina, pur trovando la calda adesione dei membri più recenti dell’Alleanza Atlantica, ovvero di quelli dell’area baltica e balcanica, suscita invece le perplessità per non dire i timori di quelli più storici, tra cui anche il nostro paese.
A Washington sono consapevoli che con un’Europa così divisa solo parte delle loro strategie potranno essere coronate dal successo. Beninteso, un’Europa divisa non è del tutto una iattura per gli Stati Uniti. Frenare il processo di consolidamento dell’Unione Europea è sempre stato uno dei compiti a cui la diplomazia statunitense ha dedicato una significativa parte dei propri sforzi, in base all’assunto del “divide et impera”. Ma rimane il fatto che, in questo momento, a Washington sarebbe servita un’Europa più coesa, anche perché le sue divisioni interne si ripercuotono pure sull’Alleanza Atlantica, intralciandone il funzionamento proprio nel momento in cui la crisi ucraina sta sfuggendo completamente di mano e all’orizzonte già s’intravede l’onta della sconfitta.
Se, come abbiamo già detto, in un simile contesto all’Eliseo dovesse insediarsi una Marine Le Pen, a quel punto il disastro sarebbe completo e l’Europa, per gli Stati Uniti, sarebbe ormai irrecuperabile. Dobbiamo considerare un semplice fatto: gli Stati Uniti hanno perso, negli anni, influenza su aree decisive del mondo. Hanno perso, per esempio, il “cortile di casa” latinoamericano, dove si sono affacciati governi socialisti che hanno energicamente rivendicato la propria sovranità, e sono stati brutalmente respinti da mezzo Medio Oriente dopo il fallimento delle “primavere arabe”, a partire dall’Egitto, anche quello ormai avvicinatosi alla Cina e alla Russia. Infine, i loro progetti di “pivot to Asia”, ovvero d’accerchiamento della Cina, e di Trattato di Libero Commercio con le nazioni asiatiche finalizzato ad escludere Pechino, si sono arenati mentre anche l’India ha rifiutato le profferte di Washington preferendo mantenere ed addirittura rafforzare un solido legame col resto dei BRICS. A questo punto, se gli Stati Uniti perdono anche l’Europa, non possono più considerarsi una superpotenza, perlomeno non in termini paragonabili al passato. Si segnerebbe il definitivo passaggio dal mondo unipolare a quello multipolare.
Una prospettiva alla quale né i leader di Washington né quelli della vecchia Europa sono preparati.
Filippo Bovo
Fonte:http://www.statopotenza.eu/18748/se-gli-stati-uniti-perdono-leuropa