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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

25/12/15

L’Italia e quel business miliardario sulla pelle dei Marò


marò 
Roma, 24 dic – Nelle ultime settimane era circolata la voce che la nostra diplomazia era al lavoro per tentare di far rientrare il Marò Salvatore Girone in Italia per le feste natalizie. Se è vero è stato l’ennesimo nulla di fatto e il ministro degli Esteri Gentiloni ha dichiarato che i rapporti politici con l’India sono “pessimi”.
Il Presidente Mattarella ha telefonato a Girone rinnovandogli vicinanza e appoggio ma di fatto certificando l’impotenza. Effettivamente chi segue la vicenda si trova in uno stato di scoramento. L’apertura della cassaforte indiana dei documenti giudiziari, che ha mostrato un impianto accusatorio a dir poco stravagante, non si è tradotto in una più incisiva azione italiana a far valere le “Ragioni dell’Innocenza”. Al contrario il rappresentante della Republic of India al Tribunale di Amburgo, Neerhu Chadha, ha potuto impunemente proclamare in un consesso internazionale che “l’Italia cerca compassione” senza che si sia levata una voce di indignazione se non quella dei privati cittadini impegnati sui social media a seguire la vicenda.
Invece dobbiamo registrare un nuovo business Italia-India come se non ci fosse nessun contezioso aperto. Stavolta si tratta di un contratto fra Fincantieri (controllata dallo Stato italiano) e i cantieri navali Mazagon (controllati dallo Stato indiano) per la consulenza alla progettazione di sette fregate addirittura “stealth” (a bassa visibilità radar). Parliamo quindi navi militari e di cessione di tecnologia militare all’avanguardia, una collaborazione che si presume durerà una decina di anni. Segue la commessa della marina indiana alla società Wass di Livorno per 100 siluri da sommergibile Black Shark a 300 milioni di €, poi 8 cannoni navali OTO Melara da 127/64 per 250 milioni, tutto dei primi mesi del 2015.
Poi ci sono da parte indiana i “finti dispetti”: la non ammissione della OTO Melara a una gara di 400 milioni di € per la fornitura di 110 cannoni navali da 30mm. In realtà nessuna delle aziende internazionali invitate si è presentata per una clausola-capestro che prevedeva il trasferimento di tecnologia.
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E il punto è proprio questo: la disponibilità delle aziende italiane facenti capo a Finmeccanica di trasferire tecnologia avanzata alle aziende indiane nelle more di contratti di fornitura. I cannoni navali OTO Melara da 76mm sono già costruiti su licenza in India dalla BHEL, i siluri Black Shark saranno prodotti in minima parte in Italia e il resto in India, stessa cosa per i cannoni navali da 127/64 e idem per i 110 cannoni da 30 mm per i quali la tecnologia di produzione dovrebbe essere trasferita alla Bharat Heavy Electronics Ltd. Si può capire che l’India (il maggior acquirente di armamenti del pianeta) faccia i suoi interessi chiedendo il trasferimento delle tecnologie per ogni materiale che compra, ma chi vende avrà pure un potere contrattuale in queste vicende. E occorre ricordare che nella vicenda Marò gli aspetti commerciali (militari e civili) sono stati il convitato di pietra fin dall’inizio, con la presenza di fabbriche in India di imprenditori italiani fra cui possiamo citare la componentistica auto (De Benedetti), impianti frenanti per autoveicoli (Brembo, Bombassei) o la produzione delle Vespa a Pune, (Colaninno) a cui dobbiamo aggiungere alcune centinaia di aziende italiane che sono andate a produrre in India per via della vantaggiosa situazione economica e legislativa.
E sappiamo ormai per certo che nella decisione di far rientrare in India i due Marò ha pesato in modo determinate una lettera firmata dal presidente di Confindustria Squinzi, che paventava danni economici nel caso che l’Italia non avesse rispettato la “parola data”. Come se fosse possibile dare la parola contro le sentenze della Corte Costituzionale. Ora, pur riconoscendo a Renzi il merito di aver ricorso al Tribunale Internazionale sollevandoci dall’umiliazione della “diplomazia dei tramezzini” seguita dal governo Monti, è necessario ribadire che senza un molto più incisivo contegno sia a livello di Tribunale Internazionale dell’Aia sia a livello della gestione dei rapporti commerciali con l’India, non si va da nessuna parte. L’India ha infatti ampiamente dimostrato, sia con l’intervento scritto del 6 Agosto al Tribunale di Amburgo (la “compassione”) sia con l’inconsistente e strumentale impianto accusatorio, non di cercare “giustizia” quanto di voler “vincere” ad ogni costo una contesa internazionale con l’Italia e recederà solo se il prezzo da pagare a livello diplomatico, economico e di rapporti internazionali sarà considerato superiore ai benefici in termini di immagine da “pre-potenza regionale”.
E’ illusorio continuare a imbastire commesse e rapporti commerciali con l’india in una situazione irrisolta per Girone e Latorre, è bene chiarire che la vicenda può assumere tinte fosche e in tal caso noi non potremo più cedere nessuna tecnologia, il paperone siderurgico indiano non si potrà comprare l’Ilva di Taranto e così via. Spiegarsi prima è saggio, lasciarsi travolgere dagli eventi è stolto.

Luigi Di Stefano - 24 dicembre 2015

fonte: http://www.ilprimatonazionale.it

23/12/15

Il degrado del monumento al marinaio di Taranto


L’opera, donata alla Città dei due mari dall’ammiraglio Iachino prima della sua dipartita, versa in pessime condizioni.
La cancellatura della dedica, operata da ignoti con picconate o altro arnese (a prima vista sembrerebbe pittura, ma non lo è), richiede un intervento di livellamento della superficie per riportare la scritta alle sue origini.
Già nel 2011 ci furono segnalazioni al Comune, al Comando Marina Sud (ex Maridipart Taranto che tra l’altro dista a circa 50 metri) che documentavano lo sfregio e lo stato in cui versava e versa questo monumento tanto caro a generazioni di Marinai ma anche ai rassegnati cittadini tarantini.


Il monumento del Marinaio a Taranto - www.lavocedelmarinaio.com


Non si cercano colpevoli a cui additare questo e altri scempi (si legga anche il monumento di Luigi Rizzo a Milazzo oppure la cancellazione e re-intitolazione della ex via Nazario Sauro a Corato (Bari), il monumento Nazionale ai Marinai di Brindisi, la fontana del Bernini o la Navicella di Roma, ecc. ecc.), come i cittadini di buona volontà soffriamo per la “dignità persa” di una nazione e siamo stufi di sentirci ripetere sempre la stessa tiritera “non ci sono soldi…”
Il menefreghismo è legittimare colui o coloro che hanno voluto questi sfregi, il menefreghismo nostro è legittimare l’ipocrisia delle autorità (civili, militari e religiose) che nelle ricorrenze solenni portano una corona ai monumenti o, ancor peggio, benedicono in nome di Dio facendo finta di nulla.
La dignità di una nazione non è manna piovuta dal deserto e neanche una astratta emozione. La dignità di una nazione è quella che il popolo, sovrano per sancita Costituzione, deve avere in una conclamata democrazia, e non vi è scusa, no, non vi è ragione per affidarla a dei puttanieri, ladri e peccatori.

La base vilipesa del monumento al Marinaio di Taranto - www.lavocedelmarinaio.com
A Taranto e nell’Italia, soffia il vento inquinato e tempestoso della bugia.
La dignità di una nazione non può essere affidata a questi “pirati”, la dignità non può e deve essere vilipesa dalla decadenza di una casta ormai agonizzante che trova interesse solo per le grandi opere pubbliche e non vede, nella quotidiana ordinarietà, la sofferenza della gente di buona volontà e l’insofferenza di altri soggetti…
Spero che i germogli di queste mie esternazioni giungano a chi ha ancora “dignità” e che rendano innocui i mentitori di professione.
Un popolo che non ha “dignità”, che non riconosce la sua storia e che non arrossisce alla vergogna è un popolo destinato a soccombere.

 di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra - 23 dicembre 2015

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Vicenda-odissea Marò: letterina al Presidente Mattarella

mattarella
Illustre Presidente,
nell’approssimarsi del Santo Natale, nonostante siamo tutti coinvolti  – e Lei per primo – nel vortice dei problemi interni e dagli effetti di fenomeni assai complessi, dal terrorismo islamico, all’immigrazione, al cambiamento climatico, sento il dovere di sottoporLe la questione-odissea dei 2 Fucilieri di Marina che ormai langue da quasi 4 anni, dal 15 febraio 2012, sempre più avvolta da un inesplicabile silenzio. Nella nostra società e nei circuiti mediatici nostrani, il successo è perfino troppo fragoroso, mentre l’insuccesso è silenzioso, e lascia aperti troppi dubbi e  interrogativi.  Le chiedo scusa se mi prendo la licenza di indirizzarLe questa mia ma, essendo già in clima natalizio, La prego di considerare questa iniziativa alla stregua di ciò che da bambini si faceva tanti anni fa – secondo tradizione – di inviare una missiva ai propri genitori, con tutti i migliori propositi e qualche piccola richiesta, facendola trovare sotto il piatto del capofamiglia in occasione del pranzo di Natale. Gli autori di queste missive facevano una sorta d’innocente “mea culpa”, per le marachelle compiute nell’anno che, nel caso in specie sono inesistenti, e chiedevano al Bambino Gesù, per il tramite del loro papà – così come ora stiamo chiedendo a Lei – di poter esaudire qualche desiderio magari banale, ma per loro assai importante.  Scrivo perché lo sento, scrivo in loro vece, senza che i 2 FCM ne sappiano nulla, spinto soltanto dall’affetto e dalla stima che nutro per le Forze Armate, per la Marina e per il San Marco in particolare, ma anche per esternare l’ammirazione  e l’orgoglio che i due sottufficiali Latorre e Girone meritano per la professionalità, la dignità, lo stile, la tenuta morale, il senso dell’onore e l’abnegazione che hanno ampiamente mostrato in questa articolata e triste vicenda.
Già nel Natale del 2012, una missiva aperta, analoga, venne inviata da un bravo ex-Cappellano, al Capo dello Stato pro-tempore, lamentando l’assenza della politica e delle Istituzioni in genere, e per la situazione irrisolta dei 2 fucilieri di Marina  detenuti in India, dal fatidico 15 febbraio di quell’anno. Ha deciso, pertanto, di restituire tutte le onorificenze, le Commende ricevute per meriti sul campo, cui teneva sopra ogni cosa, le quali – ora – avevano perso ogni significato in termini di giusto vanto personale, nonché di credibilità e di fiducia in quelle Istituzioni che gliele avevano attribuite. Uno Stato che lo aveva deluso, che non riusciva più a garantire il diritto e dopo un anno non era riuscito a riportare a casa 2 fucilieri, suoi figli, comandati a difendere l’equipaggio di una nave battente la bandiera Nazionale, dagli attacchi dei pirati: lo Stato non appariva, pertanto, più credibile.  Difficile da accettare, per uno che aveva servito con amore e grandi  sacrifici  la “propria” famiglia, quella marinara, e riconoscersi ancora in quello Stato che a suo tempo lo aveva fatto oggetto di elogi e riconoscenze formali.
Sono passati altri tre Natali da quella lettera; i 2 sottufficiali del San Marco sono ancora soggetti all’autorità (meglio arroganza) indiana, e nessuno sa – nonostante le periodiche ammissioni dei politici che il processo sarà “equo e rapido!” e che “li riporteremo presto a casa, perché la giurisdizione compete all’Italia” –  quando e se saranno liberati da questo incubo. Perfino qualche giorno fa, la Ministra della Difesa, a seguito di un’interpellanza,  ha dichiarato  in un “question-time” della Camera, che “le intenzioni? del governo per il loro rapido??( dopo 4 anni?) rientro in Patria si collocano nell’alveo della procedura giurisdizionale internazionale già avviata..”; desta meraviglia che, dopo quasi 4 anni siamo ancora alle intenzioni, e si parli ancora di un rapido rientro: quanto tempo dovrà ancora passare prima che possano essere liberati e tornare nei ranghi?  E, nonostante non ci siano ancora specifici capi d’accusa nei loro confronti, e non sia stato iniziato  alcun processo se non continui rimandi fra tribunali e Corti Supreme, di fatto permangono tuttora in uno stato di limbo, in attesa delle determinazioni del Tribunale del Mare di Amburgo – l’ITLOS , emanazione della Convenzione della Legge del Mare UNCLOS, sotto l’egida delle N.U. – cui l’Italia tardivamente si è rivolta, richiedendo il previsto Arbitrato internazionale.
La loro odissea Le è certamente ben nota; quindi è superfluo ripercorrerne le tappe, i momenti salienti, le cocenti delusioni che l’hanno caratterizzata e che toccano direttamente la sovranità e l’onore del nostro Stato: l’internazionalità della questione in termini di Diritto, la dinamica censurabile dell’arresto fraudolento, il sequestro di armi e personale di uno Stato sovrano, l’artefatta perizia balistica, fino al rientro “spintaneo”, del marzo 2013, con un’estradizione passiva  anticostituzionale, verso un paese in cui vigeva la pena di morte, per tacere delle vessazioni indiane attuate nell’intercalare dei vari eventi.
Chi scrive, sostituendo surrettiziamente loro, ha servito il nostro Stato per oltre 43 anni nei ranghi istituzionali, con le stellette; come tanti che hanno giurato fedeltà alla “Patria” e l’hanno servita con “onore”, con grandi sacrifici, come un sacro dovere verso gli altri: senza retorica, né protagonismi.
E, fra gli incarichi professionali e operativi, ha avuto la fortuna e il privilegio  di avere alle dipendenze il glorioso Reggimento San Marco, e quindi di conoscere bene i  valori dei Fucilieri, la loro solidità professionale, il loro coraggio e i risultati conseguiti in teatri assai difficili: dal Libano, fino a quelli più recenti in Iraq  e Afghanistan. Non si tratta di  fare impropria apologia, ma di riconoscere i meriti  autentici di quegli uomini, di far capire  che sono “forze speciali”, e quindi, come capitava nelle letterine  di Natale, accennare anche ai fatti positivi compiuti.  Con una professionalità che non ha pari, perché non ha  pari il loro addestramento continuo, il loro condizionamento fisico quotidiano, e la capacità di affrontare situazioni impreviste con coraggio, sangue freddo e grande umanità. I 2 FCM sono “innocenti fino a prova contraria”, secondo la presunzione d’innocenza tipica di uno Stato di Diritto, liberale e garantista, ma anche dall’analisi sostanziale dei fatti; lo sono tanto più in quanto non esiste neppure uno specifico capo d’accusa nei loro confronti. Personalmente sono convinto che i due sottufficiali del San Marco siano addirittura  estranei a quel sinistro, ma ingannati dagli indiani che, ora, pur di non perdere la faccia, continuano a perseguirli come fossero terroristi: illuminante, a tal proposito, risulta la puntuale  ed approfondita analisi dei fatti contenuta nel recente libro  “Il segreto dei Marò”, scritto da Toni Capuozzo. Sembra di assistere, invece, ad una farsa, a una tragicommedia degli equivoci e degli inganni, secondo un copione dettato dal “rovescio più che dal Diritto”, in un teatro dell’assurdo con comparse nostrane inconsistenti, in un panorama indiano che si picca di essere una “grande democrazia”  ma che, in realtà, fa della illegittimità e dell’arroganza il  reale motivo conduttore, in ogni circostanza.
Questa lettera è stata indirizzata a Lei, signor Presidente, quale supplica ideale per un certo numero di motivi; prima di tutto perché ci si aspettano quelle risposte, finora mai date, che appaiono doverose: in primis in quanto garante dei diritti , delle Istituzioni e della nostra Costituzione, nei riguardi di tutti i cittadini; in seconda istanza, atteso il Suo ruolo di Capo Supremo delle FFAA, per la tutela nei confronti del personale con le stellette che serve con disciplina e spirito di servizio, la Patria; il terzo aspetto attiene al rispetto della nostra sovranità, ed alla reputazione internazionale che il nostro Paese deve gelosamente conservare senza mai venir meno alla sua onorabilità. Sotto il profilo dello Stato di Diritto la situazione dei 2 Fucilieri è quanto mai problematica ed emblematica; le angherie e le ingiustizie discendono essenzialmente dal non riconoscimento indiano delle norme che regolano il Diritto internazionale, e anche dei più elementari diritti umani, calpestati  a livello individuale, e per le correlate, indebite, sofferenze delle loro famiglie.
Il disagio che ne consegue incide direttamente sulla sovranità del nostro Stato che, pare, abbia alzato bandiera bianca nella tutela di questi due suoi militari, nonostante fossero “coperti” sia dal Diritto internazionale che dalle previsioni della immunità funzionale, valida per tutti i militari che operano in missioni statuali, all’estero: certamente l’Italia non ci ha guadagnato né in reputazione internazionale, né in credibilità di Stato sovrano. Non si entra, infine, nel merito delle valutazioni e delle decisioni del Consiglio Supremo di Difesa, da Lei presieduto, ma onestamente ci si attenderebbe che, di là di qualche dichiarazione di rito, siano prese delle opportune determinazioni e degli indirizzi che riportino in equilibrio, con equità e fermezza, la situazione nei confronti dell’India.  Gli spazi sembrano esserci; ma solo un autorevole intervento verso il Tribunale arbitrale, potrebbe risolvere le problematiche latenti: il primo punto, essenziale, riguarda la competenza giurisdizionale che in termini di Diritto Internazionale compete all’Italia, avvalorata ancor più dai farseschi teoremi e falsi contenuti negli specifici Allegati presentati dalla delegazione indiana al Tribunale di Amburgo che hanno suscitato notevoli perplessità e meraviglia da parte dello stesso Tribunale; il secondo, intimamente correlato, riguarda  la richiesta  avanzata direttamente al Tribunale Arbitrale dell’Aja per far rientrare in Patria, Girone.
Restano altresì valide ed attuabili quelle azioni a suo tempo proposte che, ricercando un forte appoggio  dell’ONU e dell’UE  sotto la cui egida si contrasta la pirateria, prefigurano la rivisitazione riduttiva del nostro impegno nei teatri, almeno  finché non si otterrà un concreto supporto per risolvere la inqualificabile causa dei 2 FCM.  Ciò, di per sé, costituirebbe un segnale di enorme portata nei confronti del mondo militare, e anche dei galantuomini civili, sostanziando così quel supporto morale ed il ristoro di quelle tutele  indispensabili per tutti i cittadini, e specialmente  per le motivazioni e la stessa efficacia dei militari, nelle delicate missioni loro affidate. E, per ultimo, non si può sottacere che da tanta parte dell’opinione pubblica è sentita e invocata la necessità di nominare una Commissione di Inchiesta per chiarire  i vari aspetti dell’odissea dei 2FCM, dal loro sequestro, alla loro detenzione illegale, fino al rientro a Delhi, ma soprattutto per fare chiarezza sulla ambigua documentazione depositata dagli indiani presso il Tribunale di Amburgo: un’esigenza ineludibile in termini di etica della responsabilità, e propria di uno Stato di diritto, democratico.
Preme chiarire, inoltre, che tali considerazioni non sono frutto di sfogo o di disagio personale, ma – senza retorica – sono particolarmente avvertite e sentite anche da chi non veste più la divisa, ma col cuore si sente ancora al  servizio delle Istituzioni, e soprattutto – sono convinto – da coloro ancora in servizio che svolgono in silenzio le missioni per la nostra Sicurezza e la Difesa della nostra Patria.
Egregio Presidente, mi sono deciso a scriverLe perché ho avuto la fortuna di conoscerLa personalmente quando – come Ministro della Difesa – ci fece l’onore di partecipare – nel 2000 – al Giuramento solenne degli Allievi  (quell’anno fu un evento storico per la presenza, per la prima volta, delle donne…) all’Accademia Navale di Livorno che, in quel momento, comandavo. Un momento straordinario in cui Lei, come persona e come Capo famiglia delle Forze Armate, dimostrò di avere a cuore – più di tutti – noi militari; di questo serbo un ricordo gradevole, riconoscente ed emozionante  e… forse è per questo che Le ho scritto questa letterina di Natale, con profonda stima e immutata considerazione.
Non mi aspetto che, realisticamente,  questa letterina finisca sotto il suo piatto a Natale, ma voglio illudermi che, senza “rompere” l’austero Cerimoniale del Quirinale, gliela facciano pervenire, comunque.

Con i migliori Auguri di un sereno Natale.
Giuseppe Lertora - 23 dicembre 2015

21/12/15

ISLAMISMO "Ci mancava anche questa i bulli islamici a scuola"


Hanno al massimo 14 anni, inneggiano alle stragi, devastano oratori, perseguitano le ragazzine "infedeli". E se vuoi punirli rischi grosso



«I terroristi di Parigi? Hanno fatto bene» è la frase shock pronunciata a scuola da un minorenne pachistano di 14 anni.




Le parole da bullo islamico sono saltate fuori discutendo con i compagni di classe e poi confermate davanti alla preside, che ha informato i carabinieri. Lo rivela il quotidiano locale «Prima Pagina Reggio», che aggiunge un dato allarmante. Dal 13 novembre, giorno della carneficina a Parigi, sono arrivate alle forze dell'ordine 15 segnalazioni del genere solo nella provincia di Reggio Emilia. Tutte coinvolgevano ragazzini che difendono o inneggiano alla bandiere nere. Non si tratta di un caso isolato, ma di un fenomeno, che sta prendendo piede, definito dagli investigatori «islamobullismo». A Milano, una fonte dell'antiterrorismo, spiega: «Le segnalazioni sono aumentate dopo Charlie Hebdò e l'ultima strage di Parigi. Gli insegnanti sono più attenti, ma poi scemano». Non a caso il Califfato ha pubblicato in rete un manuale, che si intitola «Gang islamiche» e spiega come «reclutare adolescenti e bambini» in Occidente.I «bulli islamici» non sempre vengono segnalati alle forze di polizia. Dopo lo scoop del quotidiano di Reggio una maestra della provincia, F.T., ha chiamato in redazione per raccontare che nella sua scuola un ragazzino musulmano aveva giustificato l'attacco a Charlie Hebdo di gennaio. Nell'edizione in edicola il giornale scrive che un bambino, sempre pachistano, in seconda media, sosteneva: «Hanno fatto bene perché è stato offeso il profeta» Maometto dalle vignette satiriche pubblicate dal settimanale francese finito sotto attacco. L'insegnante aveva affrontato l'argomento in classe e gli altri studenti islamici non si sono opposti al compagno estremista. Il responsabile dell'istituto ha evitato di informare le forze dell'ordine. Anzi, F.T:, denuncia: «Chiesi di intervenire e di convocare i genitori. Mi è stato risposto che se lo volevo fare era a mio rischio e pericolo».Il caso più recente relativo alla strage del 13 novembre ha coinvolto una scuola media di Correggio, piccolo centro reggiano assolutamente tranquillo dove vive una comunità di immigrati pachistani. I carabinieri hanno convocato i genitori, che si sono resi conto della gravità dell'affermazione del figlio.Fra i 15 casi segnalati nel Reggiano, dalla carneficina di Parigi, non mancano minori musulmani che hanno dissentito dal minuto di silenzio per le vittime del terrore. Il gruppetto voleva commemorare anche quelle siriane dei bombardamenti francesi in Siria.Il 19 novembre sei ragazze islamiche di un istituto tecnico di Varese, di soli 15 anni, sono uscite in maniera plateale dall'aula durante il minuto di silenzio. Lo scorso febbraio, in Brianza, una gang di bulli islamici ha devastato la sala dell'oratorio della parrocchia di San Giovanni Battista di Desio. La bravata con sputi, bestemmie, sedie lanciate in aria e musica a palla della banda di adolescenti magrebini è stata filmata con un telefonino finendo su You Tube.Lo scorso luglio gli arresti di un pachistano e di un tunisino che volevano compiere attentati nel bresciano e a Milano hanno portato la Digos del capoluogo lombardo a scoprire le loro letture in rete. Uno dei manuali, «Gang islamiche», fornisce dettagliate istruzioni su come abbindolare i ragazzini in Occidente per arruolarli in vere e proprie bande. «Molti adolescenti sono già frustrati nei confronti della polizia - recita il manuale - Se vedono una macchina delle forze dell'ordine parcheggiata chiedi loro di coprirsi il volto e di tagliarle le gomme».Nel resto d'Europa l'«islamobullismo» è un'emergenza. Adolescenti turchi a Berlino hanno dato la caccia ai compagni di scuola ebrei e ragazzine islamiche danesi si sono accanite sulle loro coetanee non musulmane bollandole come «puttane infedeli».

- Lun, 21/12/2015
fonte: http://www.ilgiornale.it 

Marò: perché l’Italia poteva fare di più!


Continua oggi la serie di post dedicati ai nostri Marò vittime di una profonda ingiustizia e la cui condizione sembra essere ormai divenuta un fatto “normale” per l’opinione pubblica nazionale. GeopoliticalCenter, grazie agli interventi di importanti firme, cercherà di riportare al centro dell’attenzione dei media la questione dei nostri due militari per i quali chiediamo giustizia, la giustizia del Diritto Internazionale che l’India e l’impotenza delle relazioni internazionali italiane gli negano. Oggi un articolo del Gen. Leonardo Tricarico
Nella vicenda dei marò vanno innanzitutto chiariti i fatti non solo per il puro desiderio di raccontare “le cose così come sono andate” caro agli storici ma soprattutto per trarne tutti i possibili insegnamenti  ed evitare così di ripetere gli errori. Da parte politica si è rivendicato ad ogni pie’ sospinto la collegialità delle decisioni adottate via via, citando vagamente i consessi e le forme della concertazione. Se qualcosa è davvero mancato, è stata però la collegialità delle decisioni. Nessuno ha mai pensato di utilizzare gli organismi interministeriali che esistono da tempo e sono oggi normati dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) 5 maggio 2010, “Organizzazione nazionale per la gestione di crisi” e che avrebbero dovuto costituire la via maestra. Questo “hardware” comprende due tavoli di concertazione, l’uno tecnico (conosciuto giornalisticamente come Unità di Crisi, ma più precisamente NISP, Nucleo Interministeriale Situazione e Pianificazione) e l’altro di livello prettamente politico (il CoPS, Comitato Politico Strategico). La norma prevede che il CoPS sia presieduto dal Presidente del Consiglio e che vi siedano ministri, sottosegretari, capi dipartimento ed alti funzionari titolati a gestire le situazioni emergenziali. In compenso il Presidente Monti ha affermato in un’intervista televisiva che la decisione del rientro fu presa, per motivi tutti da verificare,  nella riunione del Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica (CISR), organo più di “intelligence” che di gestione delle crisi.
Se qualcuno nutrisse dubbi – come può capitare in un Paese in cui la conoscenza e il rispetto delle leggi sembrano un optional – sulla prevalenza del DPCM 5 maggio 2010, il decreto stesso definisce all’art. 2 una fattispecie di “crisi internazionale” che calza alla perfezione il caso dei marò: “eventi che turbano le relazioni tra Stati o, comunque, suscettibili di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e che possono coinvolgere o mettere a rischio gli interessi nazionali”. Ebbene, risulta per certo che nella crisi dei Marò nessuno dei due tavoli, ne’ quello tecnico ne’ quello politico, sia mai stato attivato e questo nella grave ed incomprensibile inosservanza da parte della Presidenza di una norma emanata dalla stessa Presidenza. Non è superfluo ricordare che lo stesso tavolo di crisi gestì il Millennium Bug e il post 11 settembre, autoconvocandosi sempre ad horas. Di norma lo stesso tavolo effettua, simulando il Vertice di Governo, le periodiche esercitazioni Nato ed europee che non infrequentemente disegnano scenari simili a quello che hanno riguardato i marò. Ma forse anche questo non è noto ai protagonisti di vertice di questa vicenda.
È anche utile avanzare, più che un sospetto, la ragionevole convinzione che siano gli stessi Ministri (o, comunque, le strutture ministeriali centrali e periferiche) a non voler fare funzionare i tavoli di coordinamento interministeriale istituiti, nella perniciosa convinzione che coordinare sottrarrebbe loro autonomia o esporrebbe il loro operato a un vaglio sgradito. In passato più di un componente di quello che oggi si chiama  NISP ammise, a microfoni spenti,  di aver avuto dal proprio dicastero istruzioni a non essere troppo zelanti e collaborativi nelle iniziative collegiali di Palazzo Chigi. Nulla autorizza a credere che oggi le cose siano cambiate, anzi questa crisi conferma un peggioramento del quadro complessivo.
Il fatto che l’operatore dominante sia la Farnesina rafforza la convinzione dell’insofferenza verso il giogo interministeriale. Nessuno come i diplomatici è da sempre  recalcitrante a che  alcuno si intrometta in  questioni che occorrano fuori dei confini nazionali.
L’unico caso che si ricordi in questo secolo fu quando Guido Bertolaso, con il suo caratteraccio, riuscì a ottenere la titolarietà della gestione dei fondi nei paesi colpiti dallo Tsunami del 2004, dopo un lungo braccio di ferro con l’allora Ministro Fini, spalleggiato dalle feluche di turno. Nel caso marò anche il Presidente del Consiglio è parso un po’ distratto rispetto alla perentorietà del Decreto per la gestione delle crisi, forse perché non è riuscito a spogliarsi del personaggio di risanatore dell’economia per rivestire a pieno titolo quello di capo del governo. Il suo comportamento pare richiamare quello del tenace detentore della delega per la gestione dei Servizi; allora parve che fosse stata la tragica fine dell’ostaggio Lamolinara in Nigeria l’8 marzo 2012 durante un blitz unilaterale inglese a convincerlo a nominare finalmente un Sottosegretario con delega per gli organismi di Sicurezza. Oggi vi è da sperare che questa circostanza non colta da lui serva da monito per che gli è succeduto per dare finalmente concretezza alle attività di coordinamento interministeriale, che per queste materie non possono e non debbono avere l’unica sterile ed inadeguata espressione nel plenum del Consiglio dei Ministri. Prima riflessione parziale quindi: il Presidente del Consiglio di turno deve gestire gli eventi critici che comportano la competenza di più istituzioni in maniera coordinata, esercitando finalmente la potestà di coordinamento che la legge stessa assegna a lui (e solo a lui). Con più lungimiranza sarebbe auspicabile un coordinamento interministeriale permanente per la salvaguardia dell’interesse statuale permanente al centro dell’azione quotidiana, senza attendere la crisi. Negli USA, ad esempio, sin dal 1947  esiste il National Security Council.
Come si vede queste sono considerazioni tecniche, che prescindono dal colore del Governo di turno ma che dovrebbero far parte del bagaglio professionale delle strutture permanenti di gestione del Paese. Nel caso marò bisogna invece osservare come a mancare non sia stato il disegno politico di un Governo politico – titolato a fare scelte anche sbagliate, ma in qualche modo poggianti sul consenso popolare – quanto proprio la capacità tecnica di quelli che sulla carta erano ciò che di meglio le istituzioni potevano prestare alla politica.
In altre parole, nessuno meglio di un diplomatico all’apice di una brillante carriera avrebbe potuto e dovuto valutare le conseguenze di un aspro confronto  con un grande Paese come l’India, così come nessuno meglio dell’Ammiraglio Di Paola, unica persona nella storia delle Forze Armate italiane ad aver ricoperto tutti gli incarichi di vertice nazionali ed internazionali, avrebbe potuto e dovuto  cogliere il senso  delle vicende operando  le scelte meno dannose per l’interesse nazionale e nel contempo più efficaci per tutelare i diritti dei due militari con la sua stessa uniforme. Senza contare il Ministro della Giustizia, un comprimario non da poco il cui ruolo – dato il contesto ed i riferimenti giuridici  cui  ambedue le parti fanno appello – non può sfuggire.
Ma forse questa, paradossalmente, è la seconda riflessione parziale da trarre. I militari, i diplomatici, i magistrati, i professori, proprio perché padroni del sapere specifico consolidato in lunghi anni ne restano poi prigionieri nei momenti della decisioni importanti.
L’etica dei loro comportamenti, divenuta negli anni pratica di vita, finisce per costituire ostacolo insormontabile per una politica più attenta a tutti gli interessi in campo. Infine, uno sguardo ad alcuni passaggi critici non sufficientemente chiari della vicenda. Dando per scontata l’indipendenza della magistratura indiana nell’effettuare le proprie indagini, non si capisce come mai l’Italia non sia stata ammessa a partecipare a una commissione di indagine governativa che potesse ricostruire meglio di chiunque altro l’accaduto. Giova ricordare, ed altrettanto andava fatto con le autorità indiane, che questa non sarebbe stata un’invenzione mirabolante ma solo l’applicazione di una consuetudine universalmente accettata da tutte le democrazie: quando occorre un incidente che veda coinvolti più Paesi, le indagini vanno condotte da una commissione mista. La Nato ha fatto di questo concetto una norma in un apposito accordo permanente (in gergo, Stanag).
Gli esempi sono tanti. A Ramstein, a seguito della tragedia causata dalle Frecce Tricolori nel 1998, indagò  una Commissione trinazionale  composta dalla Germania (ove era capitato l’evento), dagli USA (titolari della base) e dall’Italia (titolare della Pattuglia). Per la tragedia del Cermis furono create due commissioni governative distinte, che però poi operarono insieme, giungendo a conclusioni non del tutto condivise ma scaturite da un aperto e tenace confronto. Quando Nicola Calipari fu ucciso in Iraq a un posto di blocco statunitense, l’ambasciatore statunitense a Roma Mel  Sembler, in un incontro a Palazzo Chigi con Gianni Letta e Berlusconi, dovette cedere alle richieste manifestate dal nostro governo di inserire un membro italiano nella Commissione di inchiesta. Fu scelto l’ambasciatore Ragaglini, oggi capo missione a Mosca che andò a integrare la Commissione USA e consentì all’Italia una totale visibilità sulle indagini in corso.
La Torre e Girone non sono né eroi, né assassini. I due militari incorsi in un inconveniente connesso alla loro professione solo gli unici due protagonisti che in questa penosa vicenda hanno tenuto un atteggiamento di compostezza, dignità e lealtà che può essere ammirato in tutto il mondo e ci rende orgogliosi di essere italiani. Se il nostro Paese avesse più memoria e fosse più attento al mondo della Difesa, si accorgerebbe che quello che accade oggi ai due marò è un film già visto più volte, con diverse sceneggiature ma appartenente allo stesso genere. Alla fine del conflitto nei Balcani il Generale Arpino e l’Amm. Guarnieri, rispettivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa e della Marina, furono processati per la bombe sganciate in Adriatico dai velivoli Nato impegnati nelle operazioni belliche. I due furono trascinati in giudizio solo per aver compiuto il loro dovere; tra l’altro al gen. Arpino non fu neanche accordata l’assistenza dell’Avvocatura di Stato. La vicenda giudiziaria durò tre anni e si concluse con l’assoluzione dei due ufficiali imputati di “tentata strage colposa aggravata”. Arpino, in un colloquio telefonico con il suo amico Generale Wesley Clark, che quelle operazioni aveva diretto da Bruxelles, seppe riderci sopra: “Per lo stesso fatto, ossia il ruolo che tu ed io abbiamo ricoperto nelle operazioni per liberare i Balcani da Milosevic, tu sei candidato alla Presidenza degli Stati Uniti mentre io rischio di finire in prigione”. Ma la battuta non può risolvere un problema che continua a incombere sui servitori dello Stato come la proverbiale spada di Damocle.
Ed ancora, nel  marzo 2000, il Ten. Col. Maurizio De Rinaldis, allora comandante delle Frecce Tricolori, a seguito del sorvolo di Napoli per una cerimonia ufficiale, fu incriminato dal procuratore di turno per i reati di “inosservanza delle istruzioni ricevute” asserendo che il  sorvolo della pattuglia a bassa quota aveva creato “pubblico scandalo”. Anche De Rinaldis dovette difendersi solo per aver ottemperato a un ordine di volo; il proscioglimento giunse dopo circa un anno.
Certamente frugando nel vissuto di altri comparti dello Stato si può immaginare una casistica voluminosa di incidenti di percorso subiti da servitori dello Stato incolpevoli. È il prezzo da pagare ai nuovi scenari, alle situazioni inedite per un soldato, i cui comportamenti non sono sempre rubricabili a fronte di norme certe, di quadri giuridici consolidati o a prova di magistrati – e questo pare una esclusività italiana – non sempre sereni o equilibrati. Ma è altrettanto certo che molti problemi nascono da un’ambiguità tipicamente italiana, nella quale le leggi che sanciscono i princìpi sono raramente seguite dai regolamenti che ne fissano i meccanismi operativi. Nel caso marò, ad esempio, neppure l’arrivo di un militare alla guida della Difesa è bastato a trarre il regolamento sulla tutela delle navi mercantili dalle secche nelle quali si era incagliato sotto il precedente titolare politico del dicastero. Si tratta, come già detto, di un difetto di struttura che non si può sperare di risolvere solo attraverso la presenza di singole persone più o meno zelanti.
L’ultima considerazione da fare è prettamente politica. C’è chi ha strumentalizzato la vicenda Marò per chiedere il disimpegno italiano da tutte le missioni internazionali.
Nulla di sbagliato, a meno di voler vanificare gli sforzi fatti negli ultimi vent’anni, con risultati operativi che ci vengono universalmente riconosciuti. Né si può trascurare l’importanza del rinnovamento culturale all’interno delle stesse Forze Armate per il passaggio da una mentalità da “Fortezza Bastiani” a quella della continua verifica sul campo di capacità, equipaggiamenti, dottrina e così via. È tuttavia altrettanto che, a fronte della generosità con la quale i governi italiani rispondono sempre a ogni richiesta proveniente dalla comunità internazionale, non si è avuto sinora un adeguato riconoscimento politico nelle sedi internazionali.  L’insensibilità di singoli Paesi o di organizzazioni multinazionali nei nostri confronti continua immutata.  Basti qui ricordare come nel 2011, in occasione della campagna di Libia, resa possibile in larghissima misura dalla concessione delle basi italiane nonostante gli evidenti impatti interni, l’Unione Europea si disinteressò del problema dei profughi in fuga (o lanciati?) verso l’Europa, addossando all’Italia non solo l’onere umanitario ma anche il rischio che tra le decine di migliaia di poveracci si nascondesse qualche terrorista pronto a farci pagare il conto dell’ospitalità data ai nostri alleati.
Ricordare e far valere – senza ricatti, ma anche senza unilaterale generosità – il contributo che l’Italia ha sempre dato alla sicurezza collettiva, come previsto dall’art. 11 della Costituzione.
Bisogna saper distinguere tra la protezione di interessi diretti, come la protezioni dei nostri mercantili, dalla partecipazione a missioni multinazionali per la difesa o il ristabilimento della pace, con ricadute solo indirette sull’Italia. Il fatto che i nostri militari tengano alta la bandiera d’Italia come pochi altri in questo momento fanno non può nascondere il fatto che gli scarsi ritorni politici sinora ottenuti dalla partecipazione capillare a tutte le missioni devono essere oggetto di riflessione quando i buoi – per così dire – sono ancora nella stalla, senza alterazioni emotive o ideologiche nell’uno o nell’altro senso. Tutto questo ovviamente nulla toglie al dovere perentorio di non recedere di un solo millimetro dall’impegno di sostenere in ogni foro il buon diritto dei nostri soldati. 


fonte:http://www.geopoliticalcenter.com

MARO' IN INDIA - "L’assurda Odissea dei due nostri fanti di marina continua"



Inizia oggi la serie di post dedicati ai nostri Marò vittime di una profonda ingiustizia e la cui condizione sembra essere ormai divenuta un fatto “normale” per l’opinione pubblica nazionale. GeopoliticalCenter, grazie agli interventi di importanti firme, cercherà di riportare al centro dell’attenzione dei media la questione dei nostri due militari per i quali chiediamo giustizia, la giustizia del Diritto Internazionale che l’India e l’impotenza delle relazioni internazionali italiane gli negano. Oggi un articolo dell’Amm. Giuseppe Lertora.
Il silenzio mediatico avvolge, incomprensibilmente, la vicenda travagliata dei 2 Fucilieri di Marina le cui sorti sono state affidate alle decisioni del Tribunale del Mare di Amburgo, cui l’Italia si è finalmente rivolta invocando l’Arbitrato Internazionale: ad esso spetta l’onere di stabilire chi, fra Italia e India, ha la giurisdizione del caso e quindi il diritto a giudicarli. Dopo mesi che non se ne parla, e dopo quasi quattro anni da quel 15 febbraio del 2012, qualche giorno fa la Farnesina ha richiesto di far rientrare in Italia, Girone che, come noto, è ancora detenuto presso l’Ambasciata italiana di New Delhi. 
L’altro sottufficiale, Latorre, è ancora in Patria, autorizzato fino al 13 gennaio 2016, per benevola? concessione degli indiani, onde poter continuare le delicate cure, a seguito del grave ictus che l’aveva colpito, oltre un anno fa. Una densa nebbia sembra avvolgere la vicenda dei 2 FCM e nessuna notizia è trapelata dalle brume di Amburgo, anche se ci sarebbe più di un motivo per tener debitamente informata la pubblica opinione dei fatti e degli sviluppi inerenti questi due fedeli servitori del nostro Stato. Al massimo si assiste a qualche dichiarazione di facciata, a qualche saluto estemporaneo in occasione di festività, ma senza che le Istituzioni si sbilancino più di tanto; sembra quasi che si vogliano cancellare i fatti che li riguardano con un metodo opinabile: banalmente con la tecnica di non parlarne, ignorandoli e sostituendoli con notizie del tutto collaterali, spesso inconsistenti, ma volutamente coprenti e diversive. 
Stiamo da troppo tempo assistendo a inutili giri di valzer, a farse inaccettabili; siamo in presenza di una commedia degli equivoci e degli inganni, se non dei soprusi da parte indiana, che si tiene nel teatro dell’assurdo, in cui le vittime sono state elette a capri espiatori di una paradossale vicenda, e i nostri attori istituzionali si tengono dietro le quinte senza prendere posizione, recitando delle inutili e afone litanie. Nella nebulosa che avvolge la loro odissea personale e familiare, si sono alternati tre Presidenti del Consiglio, tre Ministri della Difesa, 4 Ministri degli Esteri, due Presidenti della Repubblica, che sono –questi ultimi- altresì i Comandanti Supremi delle Forze Armate, e sta per passare ‘’il quarto Natale’’ senza che siano state prese decisioni idonee a far rispettare i loro diritti, e la nostra sovranità statuale. 
Una Nazione dimentica dei propri figli, cui aveva ordinato di compiere una missione delicata contro il crimine della pirateria, per proteggere gli equipaggi della nostra marineria mercantile, nelle infestate acque dell’oceano Indiano. Non solo dimenticanze; nel tempo l’odissea ha assistito a un vero e proprio tradimento perpetrato dal governo Monti, quando i 2 FCM, dopo quel permesso pasquale, furono rimandati -il 22 marzo del 2013- in pasto agli indiani, a prescindere dal dettato della nostra Costituzione che espressamente vieta l’estradizione di nostri cittadini verso un paese in cui vige la pena di morte. 
E’ stata una nuova Caporetto, disonorevole, tanto più per i successivi dubbi emersi e l’ipotesi di aver scambiato i 2 FCM per business, per un pugno di lenticchie, per contratti ‘’in being’’ con l’India. Che, come accade oggi con la cessione della storica Pinin Farina agli indiani di Mahindra, rischiano di risolversi in un flop, simile a quello d’ allora per gli elicotteri EH-101 dell’Agusta, finiti in perdite enormi di soldi e, con essi, di reputazione nazionale. Altro che supportati e tutelati; li abbiamo abbandonati e gettati a mare ripetutamente; lasciati in balia di un’opinabile giustizia indiana che, nonostante siano trascorsi oltre tre anni e mezzo, non è riuscita a produrre prove della loro colpevolezza, né specifici capi di accusa: secondo le peggiori tradizioni giuridiche sono stati mantenuti in attesa di giudizio per quel tempo inaccettabile, tipico di uno Stato a-democratico e a-garantista, ma che dell’inganno, dell’arroganza e del giustizialismo ha fatto una propria, medievale e tetragona bandiera. 
All’atteggiamento indiano, l’Italia ha sempre risposto in modo ondivago e con sudditanza, nella speranza che, pagando inopinatamente a destra e a manca con centinaia di migliaia di dollari, nell’erroneo presupposto di risarcire i danni presunti, ci fossero perdonati i fatti a cui -molto probabilmente- i 2 FCM sono del tutto estranei: altro che beffa! Va anche doverosamente detto che circa due anni fa, e non con il senno di poi, si suggeriva di attivare l’Arbitrato senza successivi indugi, esortando le ministre della Difesa ed Esteri a procedere, anche per dar seguito alle roboanti dichiarazioni fatte all’atto del loro insediamento in merito alle vicende dei 2 FCM; si propugnava letteralmente di ‘’ attivare da subito l’Arbitrato obbligatorio, facendo sì che Latorre e Girone non siano sottoposti al processo illegittimo che gli indiani, con tutta calma, vorrebbero fare a casa loro’’. 
Purtroppo, fra giri di valzer inconcludenti abbiamo perso tanto tempo, troppo! E solo a fine giugno del 2015 l’Arbitrato veniva formalizzato. Possibile che, da allora, i nostri governanti e i nostri media non si chiedano cosa stia succedendo ad Amburgo, nonostante le discrasie emerse, già in prima battuta, riguardo i risibili documenti della perizia balistica, per tacere delle incongrue posizioni relative fra le imbarcazioni coinvolte, e delle differenze di orari dichiarate che si discostano di ben cinque ore! Ciò che desta più meraviglia è la stravagante competenza di alcuni giornali che, con argomentazioni approssimative e partigiane, antimilitari per definizione, sorvolano sull’incredibile e farlocca perizia balistica che cerca di quadrare un cerchio impossibile fra calibro e circonferenza dei proietti, facendoli rimpicciolire dal riscontro reale di colpi da 7, 62 mm ad un 5,56mm. 
Gli specifici Allegati presentati dalla delegazione indiana hanno suscitato notevoli perplessità e meraviglia da parte dello stesso Tribunale per i farseschi contenuti; uno di essi, l’Allegato 5, arriva perfino ad instillare il dubbio che a bordo della Lexie vi fosse un’altra arma nascosta, del calibro 7,62, per far tornare le loro farneticanti teorie balistiche! In buona sostanza, invece, i 2 FCM sono innocenti e non c’entrano nulla con quell’incidente; gli indiani hanno costruito ed alimentato strumentalmente la vicenda per motivi elettoralistici, politici e di lobby industriali, ma ora devono essere rintuzzati in tutti i modi e ‘’smondanati’’ anche dal Tribunale Arbitrale. 
Di recente l’Italia ha avanzato, come il solito, temporalmente ‘’in zona cesarini’’, la richiesta direttamente al Tribunale Arbitrale dell’Aja per far rientrare in Patria, Girone affinché possa attendere nel proprio Paese la decisione finale di tale Alto Consesso; tale richiesta era già stata avanzata senza esito al Tribunale di Amburgo che aveva motivato, correttamente, la sua decisione negativa in quanto si trattava di misura collaterale discendente da quella principale sulla giurisdizione. Inoltre, non sussistendo motivi di urgenza/ emergenza per decidere in tal senso, per far rientrare Girone in Patria, il comportamento è stato corretto, anche se umanamente e secondo alcuni iper-ottimisti, avrebbe potuto esaminare e comunque approvare tale richiesta impropria, anzitempo e debordando dai propri compiti istituzionali. ‘’Battere le ortiche con l’affare altrui, è sempre così semplice e scontato, per i ciarlatani..’’ dice un vecchio motto, ma non sempre funziona! 
Ora l’Italia ci riprova, anche se l’Aja non si è ancora espressa sulla giurisdizione che dovrebbe –lo si auspica davvero- essere riconosciuta come un diritto esclusivo italiano: speriamo che ci sia una decisione favorevole, ma realisticamente è assai probabile che tale Tribunale soprassederà ancora, nelle more di una decisione primaria sulla questione, e soltanto dopo, si pronuncerà sulle misure collaterali. L’odissea dei due poveri FCM, purtroppo, continua… e non si risolverà nell’arco di pochi mesi! Né si può sperare che l’attuale stampa ci informi debitamente sulle future vicende, non essendo più quel cane da guardia del potere sul quale fare affidamento; ma, almeno, desideriamo che i nostri governanti abbiano rispetto dell’opinione pubblica e ci risparmino quelle insulse dichiarazioni nel rispetto dell’intelligenza dei comuni cittadini: visto che sempre più i successi, si fa per dire, dell’annuncite sono fragorosi, ma gli insuccessi silenti, si spera in un dignitoso silenzio. 
D’altronde, dichiarazioni come quelle scandite nel tempo per cui ‘’ li rivogliamo a casa, e non li dimenticheremo’’, e che ‘’la giurisdizione è solo italiana e ci batteremo per questo..’’ nonchè al famoso ‘’bisogna pensarci molto, ma non parlarne..’’, fino a quelle rilasciate dalla Ministra della Difesa solo alcuni giorni fa in risposta ad una precisa interpellanza parlamentare, fanno parte di una filastrocca inutile, antipatica e piena d’ipocrisia. Quest’ultima recita,(è il caso di dirlo) bellamente che, ‘’le iniziative? che il governo intende intraprendere (siamo ancora alle intenzioni dopo 4 anni!!) per consentire il rapido e definitivo rientro in Patria dei 2 marò, si collocano nell’alveo della procedura giurisdizionale internazionale già avviata..’’ : lascia esterrefatti e sconcertati che siamo ancora alle intenzioni, dopo 4 anni e 4 Natali! 
Un governo dovrebbe fare delle azioni, governare le situazioni, gestirle e risolverle, non a parole; che operi alla luce del sole o sottobanco, poco importa; ma non si può limitare a raccontare ‘’le intenzioni’’ a mò di favolette ai bambini delle elementari; tutti si chiedono se anziché il tricolore su quella nave Lexie sventolava una bandiera inglese, americana o francese: i loro marines, illegalmente detenuti, sarebbero ancora sotto le grinfie indiane? Sicuramente no! Eppure, nonostante tali incresciosi eventi, per tacere del resto, i nostri del San Marco -con un portamento irreprensibile, con la loro fierezza e tenuta disciplinare- sono riusciti a risvegliare un sentimento di dignità e di Patria, ormai dimenticato: a loro va la nostra ammirazione ed alle loro famiglie, per le privazioni e le continue vessazioni sofferte. 
Non sono bastate, evidentemente, neppure le petizioni al Capo dello Stato, che è anche il loro Supremo Capo; non sono bastate le proposte inviate, una decina, fra cui, nel rispetto del Diritto Internazionale, si ricercasse un forte appoggio dell’UE, dell’ONU e degli stessi USA. Che, a ben vedere, sono ancora del tutto valide, attuali e attuabili; quelli stessi non possono essere sempre ‘’passivi’’ e stare alla finestra, nonostante la presenza massiccia dei nostri contingenti nei vari teatri di crisi. Forse, probabilmente, non sono state neppure vagliate quelle suppliche fatte con specifiche ‘’letterine di Natale’’ al Presidente della Repubblica pro-tempore, che erano improntate a garantire aspetti umanitari e i diritti basilari dei 2 FCM, ma anche a tutelare, con un minimo di azioni concrete, la credibilità, la sovranità e l’onore della nostra Nazione. 
Coloro che credono ancora in questa triade di valori non si rassegnano al nichilismo nostrano tipico dei miscredenti pseudo-identitari e a-morali di questa società, né ad assistere passivamente al procedere della incredibile odissea dei nostri Fucilieri di Marina: mai lasciare il posto alla rassegnazione, ma continuare nel rappresentare con forza i diritti a tutela di ogni cittadino, con o senza stellette, e mai abbandonare la speranza che il prossimo anno veda chiudersi, e bene, questa tremenda odissea: con i più cari Auguri ai nostri due del San Marco! 
Fonte: http://www.geopoliticalcenter.com/ 
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