 
In questi giorni stavo sfogliando i quotidiani degli anni Ottanta. È cambiato quasi tutto, tranne una cosa: la potenza della magistratura nel dettare l’agenda politica o agenda setting,
 come dicono gli «esperti». Certo, allora si trattava solo di qualche 
arresto di amministratori locali (ovviamente dei partiti di governo) il 
giorno prima delle elezioni o di scontri tra il presidente Cossiga e il 
Csm. Niente rispetto a quello che sarebbe accaduto dopo. Ma era già 
visibile il disegno e già percepibile la tentazione.
Sono passati più di trent’anni e siamo ancora qui, a confrontarci con quello che, parafrasando De Gasperi, potremmo chiamare il «quarto partito»,
 quello della magistratura che, ad ogni snodo, si esprime, sconvolge i 
piani degli uni e degli altri: in ogni caso plasma il corpo della 
Repubblica.
Simbolicamente la giornata del 18 febbraio è stata l’apoteosi del 
trionfo del «quarto partito»: la votazione nella piattaforma Rousseau 
sul caso Diciotti, che ha spaccato il principale attore
 della coalizione di governo (e ora vedremo nel voto reale, quello 
dell’aula). E, nel frattempo, l’arresto dei genitori di Renzi,
 cioè di colui che stava per rientrare in scena, ammesso ne fosse mai 
uscito, sia nelle primarie del Pd che nel quadro più generale.
Perché ci siamo ridotti così, ovvero come abbiamo lasciato che la 
magistratura dettasse l’agenda politica? Le cause sono molte ma il 
colpevole è soprattutto uno: la classe politica. La 
magistratura, infatti, è un potere che si è lasciato espandere e una 
legge della politica vuole che, una volta cresciuto, nessun potere tenda
 a tornare al suo posto, a meno che qualcuno non lo forzi.
Perché la classe politica non vi è riuscita?
Per almeno tre ragioni; una devianza culturale, un 
errore di lettura politica e una tendenza internazionale. Sulle prime 
due cause la politica avrebbe potuto intervenire, e forse, anche sulla 
terza. Vediamole.
1. Devianza culturale. Decenni se non secoli di 
divisione partigiana del paese hanno fatto in modo che sempre sia valsa 
la regola di Giovanni Giolitti: «la legge si interpreta per gli amici e 
si applica ai nemici». Vale a dire che, quando la magistratura mira ai 
tuoi avversari politici, si diventa giustizialisti, mentre ti trasformi 
in garantista e persino duro critico dei giudici, quando vengono colpiti
 i tuoi amici. Le dichiarazioni di Renzi e dei renziani di queste ore 
sono da manuale: gli stessi che nei giorni precedenti gridavano «onestà 
onestà» nelle piazze e chiedevano la gogna per Salvini.
2. Errore politico. Per ragioni storiche 
comprensibili (l’alleanza tra i comunisti e il partito dei giudici fin 
dagli anni ottanta) quello che più a fondo cercò di risolvere la 
questione magistratura, Silvio Berlusconi, commise un duplice errore: 
primo, ritenere che il tarlo della magistratura covasse nella sua 
popolosa componente «rossa». Mentre in realtà ciò che muove il quarto 
partito non è tanto o solo l’ideologia ma proprio la volontà di egemonia
 corporativa. Secondo errore: nel difendersi contro gli attacchi, il Cav
 elaborò una strategia di leggi ad personam che però finì per 
indebolire, se non delegittimare, la sua azione.
3. Tendenza internazionale. Il potere dei giudici e 
il loro obiettivo, di determinare ormai non più solo l’agenda politica 
ma anche quella di governo (il caso Diciotti è un salto di qualità in 
tal senso) fa parte di una tendenza internazionale, che vede ceti 
tecnocratici e le burocrazie, nazionali e internazionali, non solo farsi
 autonomi dal potere politico, ma anche finire per dominarlo. Ovunque in
 Europa ogni governo deve ormai passare sotto le forche caudine di 
poteri non elettivi, da quelli della Commissione Ue alla sentenza della 
Corte di giustizia europea a quelle delle singole procure nazionali. La 
Repubblica giudiziaria e quella dominata dalla tecno-burocrazie 
«europeistiche» sono più sorelle di quanto non sembri a prima vista.
Ma nessun paese come l’Italia è appesantito da un potere dei giudici
 così esteso, pervicace e determinante, e per così lungo tempo. Per 
salvarsi, tutta la classe politica, al di là delle divisioni tra 
maggioranza e opposizione, dovrebbe siglare un grande patto che riformi 
radicalmente la giustizia. Non è stato mai tentato, e oggi sembra 
davvero difficile: ma qualcuno dovrebbe provarci.
Marco Gervasoni, 19 febbraio 2019
