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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

19/02/19

I casi Diciotti e Renzi lo dimostrano: comanda la magistratura


In questi giorni stavo sfogliando i quotidiani degli anni Ottanta. È cambiato quasi tutto, tranne una cosa: la potenza della magistratura nel dettare l’agenda politica o agenda setting, come dicono gli «esperti». Certo, allora si trattava solo di qualche arresto di amministratori locali (ovviamente dei partiti di governo) il giorno prima delle elezioni o di scontri tra il presidente Cossiga e il Csm. Niente rispetto a quello che sarebbe accaduto dopo. Ma era già visibile il disegno e già percepibile la tentazione.
Sono passati più di trent’anni e siamo ancora qui, a confrontarci con quello che, parafrasando De Gasperi, potremmo chiamare il «quarto partito», quello della magistratura che, ad ogni snodo, si esprime, sconvolge i piani degli uni e degli altri: in ogni caso plasma il corpo della Repubblica.
Simbolicamente la giornata del 18 febbraio è stata l’apoteosi del trionfo del «quarto partito»: la votazione nella piattaforma Rousseau sul caso Diciotti, che ha spaccato il principale attore della coalizione di governo (e ora vedremo nel voto reale, quello dell’aula). E, nel frattempo, l’arresto dei genitori di Renzi, cioè di colui che stava per rientrare in scena, ammesso ne fosse mai uscito, sia nelle primarie del Pd che nel quadro più generale.
Perché ci siamo ridotti così, ovvero come abbiamo lasciato che la magistratura dettasse l’agenda politica? Le cause sono molte ma il colpevole è soprattutto uno: la classe politica. La magistratura, infatti, è un potere che si è lasciato espandere e una legge della politica vuole che, una volta cresciuto, nessun potere tenda a tornare al suo posto, a meno che qualcuno non lo forzi.
Perché la classe politica non vi è riuscita?
Per almeno tre ragioni; una devianza culturale, un errore di lettura politica e una tendenza internazionale. Sulle prime due cause la politica avrebbe potuto intervenire, e forse, anche sulla terza. Vediamole.

1. Devianza culturale. Decenni se non secoli di divisione partigiana del paese hanno fatto in modo che sempre sia valsa la regola di Giovanni Giolitti: «la legge si interpreta per gli amici e si applica ai nemici». Vale a dire che, quando la magistratura mira ai tuoi avversari politici, si diventa giustizialisti, mentre ti trasformi in garantista e persino duro critico dei giudici, quando vengono colpiti i tuoi amici. Le dichiarazioni di Renzi e dei renziani di queste ore sono da manuale: gli stessi che nei giorni precedenti gridavano «onestà onestà» nelle piazze e chiedevano la gogna per Salvini.

2. Errore politico. Per ragioni storiche comprensibili (l’alleanza tra i comunisti e il partito dei giudici fin dagli anni ottanta) quello che più a fondo cercò di risolvere la questione magistratura, Silvio Berlusconi, commise un duplice errore: primo, ritenere che il tarlo della magistratura covasse nella sua popolosa componente «rossa». Mentre in realtà ciò che muove il quarto partito non è tanto o solo l’ideologia ma proprio la volontà di egemonia corporativa. Secondo errore: nel difendersi contro gli attacchi, il Cav elaborò una strategia di leggi ad personam che però finì per indebolire, se non delegittimare, la sua azione.

3. Tendenza internazionale. Il potere dei giudici e il loro obiettivo, di determinare ormai non più solo l’agenda politica ma anche quella di governo (il caso Diciotti è un salto di qualità in tal senso) fa parte di una tendenza internazionale, che vede ceti tecnocratici e le burocrazie, nazionali e internazionali, non solo farsi autonomi dal potere politico, ma anche finire per dominarlo. Ovunque in Europa ogni governo deve ormai passare sotto le forche caudine di poteri non elettivi, da quelli della Commissione Ue alla sentenza della Corte di giustizia europea a quelle delle singole procure nazionali. La Repubblica giudiziaria e quella dominata dalla tecno-burocrazie «europeistiche» sono più sorelle di quanto non sembri a prima vista.

Ma nessun paese come l’Italia è appesantito da un potere dei giudici così esteso, pervicace e determinante, e per così lungo tempo. Per salvarsi, tutta la classe politica, al di là delle divisioni tra maggioranza e opposizione, dovrebbe siglare un grande patto che riformi radicalmente la giustizia. Non è stato mai tentato, e oggi sembra davvero difficile: ma qualcuno dovrebbe provarci.

Marco Gervasoni, 19 febbraio 2019