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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.
Gli ultimi modelli di
smatphone includono nuove tecnologie che definire rischiose per gli utenti, è un
eufemismo. Oltre agli ormai noti chip GPS per la geo-localizzazione - cui gli
utenti sono indotti a concedere l'assenso per fruire di alcune funzioni - ed ai
chip NFC - per mezzo dei quali sarà possibile usare il telefono come carta di
credito, nuovo passo concreto verso l'abolizione del denaro contante (v.
correlati) - ora contengono un sensore per la scansione delle impronte digitali,
che secondo le case produttrici servirebbe a "fare acquisti in maniera più
veloce, e a sbloccare il dispositivo."
In altre parole, gli utilizzatori stanno rinunciando alla riservatezza delle
proprie impronte digitali per lo sfizio di sfruttare in maniera diversa con i
propri dispositivi due funzioni già espletate egregiamente da un decennio senza
l'ausilio delle impronte digitali.
Si tratta di un vero e
proprio Eldorado per il Grande Fratello, un tempo autorizzato alla raccolta
delle impronte digitali solo durante le visite per il servizio militare ed a
seguito dell'arresto dei cittadini. Dopo avere prestato il consenso a cuor
leggero al trattamento dei propri dati in materia di abitudini di consumo,
orientamento politico e religioso, interessi, navigazione web, spostamenti
geografici, contatti e amicizie, ora milioni di utenti stanno deliberatamente
auto-schedando i propri dati biometrici senza nemmeno l'ombra di una buona
ragione a titolo di contropartita.
Naturalmente i produttori
dei dispositivi assicurano che le scansioni delle impronte digitali saranno
archiviate localmente solo sui dispositivi in possesso degli utenti, tuttavia
alla luce delle rivelazioni di Edward Snowden sul famigerato programma Prism
della NSA, non si può che dubitare fortemente di tali affermazioni.
Di solito gli utenti giustificano la scelta di rinunciare alla propria privacy
con l'argomento del 'non avere nulla da nascondere'.
La prima obiezione a tale ingenuo modo di pensare - di ordine etico e politico -
è stata evidenziata in un articolo pubblicato tempo fa su questo blog:
"Se non ci da fastidio che
qualcuno da qualche parte ci osservi a piacimento, ascoltando le nostre
conversazioni e monitorando i nostri movimenti, stiamo ammettendo di essere
degli schiavi ubbidienti. La sorveglianza invisibile è una forma assai insidiosa
di controllo del pensiero, e quando utilizziamo la logica del 'non ho nulla da
nascondere quindi ben venga la sorveglianza' stiamo implicitamente ammettendo la
nostra sottomissione ad un padrone e la nostra rinuncia alla sovranità della
nostra mente e del nostro corpo." (v. correlati).
La seconda obiezione - di
ordine assai più concreto - scaturisce dai rischi oggettivi corsi da coloro che
decidano di auto-schedare le proprie impronte. Infatti le case produttrici
riconoscono che le impronte digitali potranno essere utilizzate per
identificarsi prima di acquistare le app presso gli store online, in remoto,
elemento che conferma che le impronte saranno catalogate al'interno di banche
dati remote; altrimenti non sarebbe possibile effettuare il raffronto all'atto
degli acquisti.
Il punto, da tenere in debita considerazione, è che tali banche dati potrebbero
essere violate tramite hackeraggio, elemento che rappresenta un rischio per gli
utilizzatori, dal momento che una volta in possesso delle impronte digitali di
un ignaro utente, grazie alle tecnologie di stampa 3D non sarebbe complicato
riprodurle in formato tridimensionale ed utilizzarle per disseminare falsi
indizi all'interno di una qualsiasi 'scena del crimine.'
Secondo uno specialista di
sicurezza di CNET:
"Sono sicuro che qualcuno
in possesso di una buona copia di un'impronta digitale e una decente capacità di
ingegneria dei materiali, o anche solo di una stampante di buon livello -
sarebbe in grado di farlo. (...) Se il sistema è centralizzato, ci sarà un ampio
database di informazioni biometriche che sarà vulnerabile alle violazioni da
parte degli hacker."
Non sarà forse il momento
di fermarsi a riflettere su quanto potrebbero costarci i nostri nuovi,
apparentemente innocui giocattoloni digitali?
24 ottobre 2014
tratto da www.anticorpi.info/2014/10/nuovi-smartphone-eldorado-per-il.html
Il primo a rilevare pubblicamente che
la promessa “manovra espansiva” è una bufala derivante da un trucco
contabile – dialettico, mi sembra sia stato il prof. Gustavo Piga in un
articolo apparso sul suo sito. Ma è data la possibilità a tutti di
verificarlo andando a consultare la “Nota di Aggiornamento del Documento
di Economia e Finanza” redatta dal Ministro dell’Economia.
Perché una manovra possa essere chiamata espansiva
deve prevedere un ampliamento del deficit, e infatti così è stata
pubblicizzata precisando che l’aumento del deficit per il 2015
ammonterebbe a 11 miliardi, pari allo 0,7% del Pil. Ebbene non è vero niente, o meglio quell’aumento del
deficit dichiarato per il 2015 non è rispetto a quello del 2014, e
allora sì che sarebbe stata una manovra espansiva, ma rispetto alle
precedenti previsioni per il 2015. Quindi la manovra è “espansiva” (si
fa per dire) rispetto a quello che avrebbe potuto essere, ma non
rispetto a quello che è stato. La nota di aggiornamento di cui sopra ci dice che il
deficit del 2014 sarà del 3% mentre quello del 2015 avrebbe dovuto
essere del 2,2%, come concordato con l'Ue e ora richiamato dalla stessa.
Ebbene oggi il governo ci dice che il deficit “espansivo” del 2015 sarà
del 2,9%, cioè uno 0,7% in più di quello che avrebbe dovuto essere, ma
uno 0,1% in meno del 2014. Stando così le cose, la
prevista riduzione delle tasse sarà finanziata totalmente con una
riduzione delle spese e non con un aumento del deficit come va
strombazzando il governo.
Considerato che il deficit 2015 sarà inferiore
rispetto al 2014 si potrebbe addirittura pensare che la manovra sia
deflattiva, cioè il contrario di quello che dice il governo, se non
fosse che in compenso la componente “saldo primario” passa da un + 1,7% a
un + 1,6 e la componente “spesa per interessi” passa da - 4,7% a -
4,5%, per via della riduzione dei tassi (pertanto: deficit 2014 +1,7 –
4,7 = - 3; deficit 2015 + 1,6 – 4,5 = - 2,9) e la riduzione degli
interessi non comporta deflazione mentre la diminuzione dello 0,1% del
saldo primario (che è positivo) potrebbe dare una piccola,
infinitesimale, spinta. Ma anche quest’ultima piccolissima consolazione di
fatto viene smontata se si pensa che la propulsione fatta attraverso la
riduzione delle tasse, checché ne dicano i neoliberisti, di solito è
meno espansiva di quella fatta attraverso la spesa (per esempio cosa ne
faranno le imprese della riduzione dell’Irap? Siamo sicuri che la
rimetteranno in circolo con gli investimenti e le assunzioni?), pertanto
la riduzione delle tasse fatta attraverso la riduzione della spesa,
come pensa di fare il governo, rischia di essere recessiva. Comincio a pensare che negli incontri del Nazareno
Berlusconi abbia fatto anche un corso accelerato a Renzi su come
turlupinare la popolazione. Spiace constatare che a sua volta Renzi
abbia ripetuto queste lezioni a Padoan.
ROMA - Uccisa Reyhaneh Jabbari per impiccagione a 26 anni per aver ucciso l'uomo che l'ha violentata. L'Iran ha giustiziato Reyhaneh Jabbari, la ragazza condannata a morte per aver ucciso il suo stupratore.
Nonostante gli appelli internazionali rivolti alle autorità, Jabbari,
che ha 26 anni, è stata impiccata in una prigione di Teheran dove era
rinchiusa. Lo ha reso noto la madre della donna, secondo quanto scrive la BBC online.LA MADRE: HA BALLATO SULLA FORCA «Mia figlia con la
febbre ha ballato sulla forca»: sono queste, dopo l'impiccagione di
Reyhaneh Jabbari stamane all'alba, le parole della madre della ragazza
26enne, Shole Pakravan, riportate sul suo profilo Facebook. Secondo
quanto scrive l'International Business Times, la madre di Jabbari - una
nota attrice di teatro iraniana - era stata informata che la figlia
sarebbe stata giustiziata all'alba di oggi.
Secondo informazioni riportate dai media locali, fuori dalla prigione di
Gohardasht di Karaj - dove Jabbari era detenuta - la madre della
ragazza piangeva, si disperava e chiedeva aiuto a Dio. Con lei c'erano
oltre 100 persone inclusi membri della sua famiglia e amici.
Prima dell'esecuzione, il vice direttore di Amnesty International per il
Medio Oriente e l'Africa, Hassiba Hadj Sahraoui, aveva sottolineato in
un comunicato che «il tempo sta per scadere per Reyhaneh Jabbari. Le
autorità devono agire adesso per fermare l'esecuzione. Una simile
punizione in qualsiasi circostanza rappresenta un affronto alla
giustizia, ma eseguirla dopo un processo imperfetto che lascia grandi
punti interrogativi sul caso rende la cosa più tragica».
Un sondaggio Swg commissionato dal Pd Roma e pubblicato in esclusiva
sul giornale "amico" la Repubblica boccia senza appello il sindaco di
Roma Capitale, Ignazio Marino: l’80% dei romani lo vorrebbe a casa.
Guarda caso, nello stesso sondaggio il Pd cresce di otto punti.
L’equazione è presto fatta: il partito va bene, il "tonfo" è tutto del
primo cittadino e della sua giunta, che va addirittura peggio di lui.
Tutto questo avviene il giorno dopo un vertice di maggioranza in cui gli
esponenti del partito e gli eletti in Aula Giulio Cesare erano tornati a
fare pressing su quel rimpasto di giunta richiesto invano da mesi. E
Marino, come da mesi accade, era tornato a rispondere "picche". Sullo
sfondo, sottile certo ma non secondario, la nomina che il sindaco tarda a
fare del suo vice nel nuovo ente della Città metropolitana.
Gli ingredienti per un "biscotto" confezionato dal sondaggio insomma ci
sono tutti. Non che le cose a Roma vadano a gonfie vele. Traffico,
aumento delle tasse, pedonalizzazioni, rifiuti, abusivismo, immigrati e,
in ultimo, la spinta in avanti sulle nozze gay. Di materiale insomma ce
n’è in abbondanza. Per chi fa l’opposizione però che infatti ieri è
letteralmente "esplosa" di gioia. Ma il partito, che non solo è
maggioranza a Roma ma è il partito del sindaco, che interesse ha a
rendere pubblico un sondaggio che di fatto lo massacra? Il silenzio di
"scuderia" evidentemente ordinato ieri - abbiamo chiesto, invano, a
diversi esponenti capitolini di scrivere un’intervento, persino a favore
di Marino - è un’agghiacciante conferma di una strategia politica ad
alto rischio. Il duello tra partito e sindaco si risolverà a questo
punto con la "non sopravvivenza" di uno dei due.
L’unico a parlare, cercando timidamente di gettare un’ancora a Marino è
stato il presidente della Regione, Nicola Zingaretti: «Dal sondaggio
sul sindaco di Roma Ignazio Marino, che sarebbe gradito solo da 2 romani
su 10, emerge un giudizio, non so se vero, ma comunque non generoso
perché Ignazio è il sindaco che più di tutti si sta facendo carico di
governare una situazione drammatica che ha ereditato, anche con scelte
molto coraggiose che pochi altri avrebbero avuto il coraggio di
assumersi».
Di altro avviso la deputata e la presidente del Pd Lazio, Lorenza
Bonaccorsi che "scopre" forse qualche carta di troppo: «Credo sia
innegabile che la Giunta Marino abbia delle difficoltà. Proprio per
questo, in questi mesi, abbiamo esortato il sindaco a correre di più, a
cambiare passo. Arrivati a questo punto, questa è un'indicazione non più
rinviabile. Viene bocciato un atteggiamento di Marino che non ci è mai
piaciuto, ovvero quello di aver tenuto lontano il Partito democratico.
Il sindaco deve essere preoccupato per questi dati, ora deve cercare un
dialogo, sinergia e comunanza d’intenti con il Pd romano e laziale».
Rincara la dose l’opposizione: «Faccio appello al Pd e a tutte le forze
del centrosinistra affinché con senso di responsabilità e amore per la
città di Roma, si convincano dell'urgenza di sfiduciare e mandare a casa
Marino», dice il capogruppo Fi, Quarzo; ironica la Belviso (Ad): «Otto
romani su dieci bocciano Marino. Gli altri due sono parenti», mentre per
l’ex sindaco Alemanno si tratta di un sondaggio «pesante e
impressionante. Mi ha colpito - aggiunge - che il 40% mi consideri un
miglior sindaco rispetto Marino». Per Ciocchetti e Cozzoli (Fi) il
sondaggio conferma «tanto Marino per nulla», di «staccare al spina»
parla invece il coordinatore romano Ncd, Gianni Sammarco, mentre Onorato
(Lista Marchini) suggerisce al Pd di mandare a casa Marino o di
smetterla di litigare.
Un gran rumore insomma. E il diretto interessato? Lapidario, come
sempre. Il sondaggio? «Un ottimo documento che aiuta molto a capire
alcuni dati - ha risposto spiazzando tutti - è evidente che non ci sia
bisogno di un sondaggio per capire che ci sono difficoltà ad esempio sui
trasporti. Questo tema continua a rimanere irrisolto, non penso possa
essere risolto dalla Regione che ha un deficit finanziario di dimensioni
spaventose ma deve essere affrontato e risolto. Stiamo facendo in 18
mesi lo stesso percorso che città come San Francisco hanno fatto in 18
anni. C’è da chiedersi perché non sia stato fatto nel 1968 o nel 1978».
Il sindaco va avanti per la sua strada. Al Pd la scelta se cambiarla o meno.
Nota di Rischio Calcolato: Questa volta non sono
d’accordo con il direttore. Nel senso che io penso che la Germania se
“grazierà” la Francia lo farà per un calcolo di lungo periodo, ovvero
lasciare che i vicini si indebitino e comprino manufatti tedeschi
aumentando il peso da sostenere per i giovani Francesi (e Italiani). E
penso che alla fine anche l’Italia potrà sforare. Comincio a pensare che
la Germania insieme con i paesi del nord porteranno avanti un loro
piano autonomo di exit strategy, e non mi stupirei se nei prossimi
mesi le banche tedesche si siano liberate di un bel pochino di debito
del Sud, compreso quello francese. Chiedetevi: in prospettiva e in
termini di dominio europeo, avere vicini sempre più indebitati è un bene
o un male?
Questo post è tratto dalla rivista on-line EffediEffe sito di informazione a cui consigliamo caldamente un abbonamento (50€ spesi benissimo)
Che scena umiliante per la storia di Francia. Hollande «La Pera»
ha mandato a Berlino i suoi suoi Ministri Michel Sapin (Finanze) ed
Emmanuel Macron (Economia) ad elemosinare che la Cancelleria chiuda un
occhio: pietà, anche per il 2015 avremo un deficit del 4,3% sul Pil
(invece che il cretinissimo 3); la Commissione ci punirà , ci darà le
sue multe spaventose… interceda per noi, Cancelliera eminentissima, ci
risparmi per quest’anno la punizione; «la Francia non ce la fa proprio a
ridurre il deficit e nello stesso tempo riguadagnare la famosa
competitività» (Sapin). Sia clemente ancora una volta, imploriamo
umilmente.
Teniamo presente: i due membri del Governo francese sono andati a fare la loro supplica a Berlino, come provinciali alla capitale. «Non si poteva, almeno, trovare un terreno più neutro per l’incontro?», guaisce il sito Gaulliste Libre, lamentando una Francia «sans grandeur, et meme sans honneur».
Disonorata dal fatto che già da due anni Parigi è sotto la minaccia di
«procedura per deficit eccessivo», fulminabile da Bruxelles in quanto
incapace, ripetutamente incapace, di contenere il suo deficit
al 3%; un limite che era stata la stessa Parigi a fissare e a volere,
con il suo Ministro di prima, Pierre Moscovici: grande «europeista» alla
Mario Monti , aveva addirittura promesso che la Francia avrebbe ridotto
al 3% di defict sul Pil già nel 2013. Adesso i suoi successori, col
cappello in mano, chiedono una proroga per il 2016, se non al 2017.
Pierre Moscovici
Moscovici s’era applicato, con l’ottusità tecnocratica alla Monti,
con politiche d’austerità che – come dovunque in Europa sono state
applicate – hanno stroncato la crescita, aumentato i disoccupati e
accresciuto il rapporto del debito pubblico sul Pil, per il semplice
fatto che il Pil è rallentato: insomma le cure suicide che ben
conosciamo.
E adesso – come in una sinistra commedia – se Parigi verrà punita per
deficit eccessivo, a comminare la bastonatura sarà lo stesso Moscovici,
divenuto nel frattempo commissario all’economia a Bruxelles. Sarà lui,
cittadino francese, a infliggere la multa, se verrà, prevista per le
violazioni: una cifra pari allo 0,2% del Pil, quasi un colpo di grazia
quando il Pil francese si aspetta che aumenti dell’1%, e già questa
speranza è ritenuta «ottimista» dall’Alto Consiglio delle Finanze, la
corte dei conti parigina.
Non è che hanno potuto parlare con la Merkel, i due Bibi e Bibò. Sono
stati ricevuti ai loro pari-grado, Wolfgang Schäuble e Sigmar Gabriel,
che sono stati duri e altezzosi. Sembra tuttavia che alla fin fine la
Germania voterà contro le sanzioni che l’eurocrazia sta per fulminare
contro Parigi, trattenendo le mani degli altri partner della UE che sono
già pronti a scagliare le pietre sull’adultera. C’è stato un qualche
accordo «en loucedé», ossia sottobanco, tra il lusco e il brusco, commentano i media. Quale?
Non si sa. Si sa che i due francesi hanno promesso un piano di
riduzione del deficit e «riforme strutturali» titaniche: loro tagliano
il bilanio francese per per 50 miliardi di euro. In cambio, hanno
implorato la Germania di fare investimenti per altrettanti 50 miliardi:
più precisamente, hanno pregato Berlino di spendere al proprio interno tutti quei miliardi per rammodernare le proprie
infrastrutture, insomma perché diventi più competitiva ancora. Schauble
s’è degnato non di accettare, ma di pensarci, «a patto di non fare
nuovo debito», ha sottolineato burbero. E poi, visto che i questuanti
erano lì col cappello in mano, hanno capito che non era il caso di fare
concessioni: nemmeno accettare di fare propri investimenti nel proprio
Paese. Ciò perché, come hanno fatto sapere anonimi funzionari germanici
ai loro giornali, «il Governo francese è talmente indebolito che quasi
nessuno crede più alle sue promesse. Ci si può domandare se Francois
Hollande è l’uomo che può raddrizzare il timone». Umiliazione
nell’umiliazione: Berlino mostra a Hollande la porta di uscita
dell’Eliseo. Non fa concessioni a nessun Governo debole, il che
significa: nessuna «solidarietà europea», nemmeno un vago ricordo che la
Unione era fra Paesi liberi e uguali. Ma quale uguaglianza, solo «la
legge del più forte». Uno comanda e gli altri obbediscono. Questa è
l’Europa, ormai.
Resta il fatto che Sapin & Macron si sono impegnati per il
colossale taglio alle spese pubbliche di 50 miliardi. Tagli che, nella
recessione convergente di tutta Europa, farà male alla sua economia.
Secondo il Fondo Monetario, un simile taglio dovrebbe costare tra i 2,24
e i 4 punti di Pil nei prossimi tre anni. Ossia qualche centinaia di
migliaia di disoccupati in più (unica consolazione, il collasso francese
danneggerà anche la Germania). I tedeschi invece non si sono impegnati
ad investire nulla come Paese, anche se proprio loro possono indebitarsi
a tasso zero, dato che tutti i mercati speculativi, disperati, sono
avidi di Bund germanici. «Niente a debito», ha sancito
Schaeuble. Anche i tedeschi sanno che devono rammodernare le proprie
infrastrutture, ma i fondi verranno «per lo più dall’investimento
privato». Dottrinari fino all’ultimo.
Ma allora in che cosa consiste l’accordo che i due francesi avrebbero
fatto sottobanco coi due tedeschi? Beh, se si pensa che già otto Paesi
su 28 in Europa sono in recessione-deflazione (ossia in grave
depressione economica, irreversibile), – Italia, Bulgaria, Grecia,
Ungheria, Spagna, Polonia, Slovenia e Slovacchia – Parigi ha fatto a
Berlino il regalo di rompere il fronte, di indebolire tutti gli
altri nelle loro richieste; Hollande poteva mettere la potenza della
Francia a fianco dei più piccoli, diventare il capofila dell’alternativa
alla tirchieria senza prospettive: ha voluto trattare da solo,
abbbandonando gli altri, approfittando di quel che resta della relazione
speciale franco-tedesca.
Il colpo basso del La Pera è ovviamente a danno soprattutto
dell’Italia, il più grosso rimasto e il più screditabile, e anche il
concorrente potenziale che Berlino teme. Se Matteo Renzi ha sperato di
trovare una sponda nel viscido inquilino dell’Eliseo, è una illusione in
più a cui lui – questo facitore di illusioni – deve rinunciare.
La Cancelleria, mentre stende la sua mano possente a protezione
dell’inadempiente Parigi, sta abbandonando noi alle ruvide, arroganti,
idiote e padronali richieste di Barroso e di Katainen, il finlandese che
fa il tagliatore di teste per Angela. Il fatto che Barroso, a poche ore
dalla sua decadenza, ancora pretenda dall’Italia correzioni al
bilancio, nonostante il nostro deficit sia al 3% e non al 4,3 come i
francesi, (senza contare che siamo in avanzo primario) è un indizio
malaugurante.
Certamente succederà questo: grazieranno Hollande per punire Renzi, e
dunque tutti noi, pretendendo ulteriori tagli alle spese, dunque
aggravamento della recessione (1). E saranno i francesi e invocare
sanzioni contro l’Italia. Vedrete a dicembre.
1) A questo proposito, riporto le osservazioni del
professor Gustavo Piga sulle misure pretese antirecessive di Renzi:
«Renzi aveva due opzioni soltanto: o a primavera di quest’annofar
partire sul serio la spending, e con 15 miliardi di tagli di veri
sprechi (manovra non recessiva in questo caso) finanziare maggiori
investimenti pubblici – unica vera leva per far ripartire occupazione e
produzione – senza muoversi dal deficit del 3% di PIL ed abbattendo il
rapporto debito PIL; o, preso atto della sua incapacità di fare la
spending in tempo, come è stato, effettuare investimenti pubblici per 1%
di PIL, 16 miliardi, portando il deficit al 4% di PIL ma riuscendo
comunque ad abbattere il debito sul PIL grazie alla maggiore crescita di
quest’ultimo e senza preoccuparsi di multe che nessun leader politico
europeo avrebbe mai avuto il coraggio di comminare al fondatore Italia.
No, Renzi non ha fatto nessuna delle due cose: ha scelto la via semplice
di lasciare il deficit al 3% senza fare né spending né investimenti
pubblici. Così che la disoccupazione possa crescere, il PIL crollare, il
debito continuare nella sua salita. Che l’abbia fatto perché glielo ha
chiesto l’Europa lo esonera solo in minima parte: l’Europa siamo noi,
specie in questo semestre di Presidenza europea, e sarebbe stato
opportuno ricordarlo a Schauble, collega tedesco di Padoan, che ha
recentemente parlato – in una importante intervista televisiva ai
margini della riunione annuale del Fondo Monetario Internazionale – ben
più a lungo del legale rappresentante dell’Unione, il nostro Padoan
appunto, a cui spettava la parola. Tra pochi mesi saremo qui a chiederci
come mai il PIL continua a crollare malgrado ci sia stato il più grande
taglio delle tasse della storia dell’uomo». Tra le promesse che non
verranno mantenute, vale la pena di scriversi quella del Ministro
Padoan: 800 mila nuovi posti di lavoro. Quando Gberlusconi promise un
milione di posti di lavoro, lo derisero tutti. Adesso sono tutti seri, e
fanno finta di crederci. Che cosa vuol dire appartenere alla Loggia
giusta…
ESCLUSIVO.
Un militare in congedo, in fin di vita per l'asbestosi, affida le sue
speranze ad un appello al comandante generale della Guardia di Finanza,
Saverio Capolupo: "Non fermate le bonifiche nelle caserme e vi prego,
pensate agli orfani". LA LETTERA
“Ho quarantacinque anni, tre figli di cui due in tenera età di sette
anni e diciassette mesi, e morirò tra poco. Sono malato di asbestosi,
avendo prestato servizio per lunghi anni in esposizione a polveri e
fibre di amianto, in assenza di strumenti di prevenzione tecnica e di
protezione individuale. Per quasi un quarto di secolo ho indossato la
divisa delle Fiamme Gialle e oggi La imploro affinché si prosegua
l'attività di bonifica delle caserme e non si lascino soli gli orfani”.
L'appello disperato arriva da Antonio Dal Cin, militare della Guardia di
Finanza in congedo, riformato in seguito all'insorgenza di una
patologia asbesto correlata, ossia dovuta all'esposizione all'amianto,
dopo aver prestato servizio prima in Veneto e in Friuli Venezia Giulia
poi a Sabaudia. Ed è indirizzata al Comandante Generale della Guardia di
Finanza, Saverio Capolupo, che ha recentemente ammesso la presenza di
amianto all'interno di numerose caserme, e di aver iniziato l'attività
di bonifica.
Lucido e pronto ad affrontare la morte, assistito dall'Osservatorio
Nazionale Amianto, chiede al Comando Generale di non fermare
l'operazione di decontaminazione indispensabile per salvare le vite dei
colleghi che ancora non si sono ammalati, e di avere cura degli orfani
dei molti militari che negli anno hanno contratto, come lui, malattie
professionali. Preg.mo Sig. Comandante Generale,
sono il Sig. Antonio Dal Cin, nato a Crema il 25.09.1969, e residente in
Via Zara n. 10, Sabaudia (LT), e sono un finanziere in congedo per
riforma in seguito ad insorgenza di patologia asbesto correlata di
origine professionale, avendo prestato servizio per lunghi anni in
esposizione a polveri e fibre di amianto, in assenza di strumenti di
prevenzione tecnica e di protezione individuale.
Ho appreso dagli atti parlamentari, e in modo particolare dalla replica
del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ma anche dalla mia
quotidiana frequentazione, se non altro per via telematica e telefonica
(le mie condizioni di salute non mi permettono altro perché avendo
l’asbestosi debbo rimanere quasi tutta la giornata disteso sul letto per
evitare tra l’altro che aumenti il ritmo del battito cardiaco, già
oltre la soglia, e perché avverto dispnea, e soffocamento), che
effettivamente anche grazie all’opera e all’impegno delle Superiori
Gerarchie è in atto la bonifica delle caserme dalla presenza di amianto.
Certo molte debbono essere ancora bonificate ma almeno si è iniziato
a farlo, in modo costante e deciso e di questo La ringrazio, in modo
che quando lascerò questa vita, purtroppo assai presto, per quello che
mi dicono i sanitari, almeno potrò dire che la mia morte potrà servire a
qualche cosa.
La lucida consapevolezza della mia fine, che come dicono i sanitari
arriverà per arresto cardiocircolatorio (infatti l’asbestosi ha
determinato seri problemi di funzionalità cardiaca, e non a caso l’art. 4
della l. 780/75, per i dipendenti privati sancisce la indennizzabilità
anche delle patologie cardiocircolatorie per coloro che sono affetti da
asbestosi), e la tragedia legata al fatto che ho tre figli, di cui gli
ultimi due in tenera età, Anna di sette anni e Matteo di 17 mesi, che
purtroppo rimarranno solo con la madre e cioè con mia moglie che
peraltro è affetta da Sclerosi Multipla e Morbo di Basedow, non mi
impedisce di mantenere quella saldezza e quella speranza, e anche quella
forza che mi ha infuso il servizio, che ho prestato nella Guardia di
Finanza per quasi un quarto di secolo.
La imploro dunque di proseguire questa attività di bonifica e di
decontaminazione delle Caserme ma Le chiedo pure di non lasciarci soli,
di non lasciare soli i ragazzi che rimarranno orfani per il fatto che
non siamo stati avvertiti della presenza del minerale killer e del fatto
che bastassero poche fibre per contrarre il tumore.
Le dico solo che ho fatto servizio in caserme con presenza di amianto,
che sono stato impiegato di servizio in luoghi dove giacevano, perché
sequestrati, materiali di amianto, senza alcuna protezione. L’amianto
era presente anche nelle camerate.
La prego dunque lo faccia per tutti quei miei colleghi che ancora non si
sono ammalati e disponga che il Corpo glorioso della Guardia di Finanza
disponga qualche mezzo di assistenza per gli orfani, specialmente i
minorenni per il tempo successivo alla morte dei loro cari, per via
delle patologie asbesto correlate e di altre patologie professionali che
abbiamo contratto nello svolgimento del nostro dovere.
La ringrazio anticipatamente per l’attenzione che mi Vorrà dare, anche
nel caso in cui ritenesse di non dover accogliere questa supplica, valga
comunque con il segno della mia stima personale di tutti gli altri
Colleghi malati di patologie asbesto correlate e dei familiari di quelli
che sono deceduti, l’augurio di un buon lavoro.
Sabaudia, 15.10.2014.
fonte: http://www.affaritaliani.it - 17 ottobre 2014
"A Roma hanno deciso la morte di mio padre". Dopo più di 30 anni dalla scomparsa del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua figlia Rita si confessa a ilGiornaleOff. L'ex
conduttrice di Forum parla dei suoi dubbi e delle sue perplessità sui
retroscena che riguardano l'assassinio di via Carini a Palermo: "È tutto
molto strano. Hanno fatto film su come si sia arrivati al 3 settembre.
Io ne farei uno dal 3 settembre in poi, sui tanti misteri che sono
rimasti tali: la borsa di mio padre, i documenti spariti, chi è entrato
nella prefettura quella sera invece di buttare un lenzuolo su mio padre?
Mio padre è morto in una strada molto affollata, eppure un lenzuolo per
coprire mio padre ed Emanuela (Setti Carraro, la seconda moglie del
Generale Dalla Chiesa) nessuno l’ha buttato dalla finestra. E chi è
entrato a Villa Pajno quella sera? Cos’ha preso? Dov’era la chiave della
cassaforte? Nella cassaforte abbiamo trovato una scatola vuota, c’erano
i gioielli di Emanuela, ma non i documenti di mio padre. La scrivania
di mio padre era sempre piena di carte, scartoffie. Quella sera non
c’era un foglio, era perfettamente pulita. Quando mio zio, fratello di
mio padre, disse al procuratore “dovete farci capire cosa sia successo”
lui gli rispose “non mi gioco di certo le ferie per questo omicidio”.
"Tutta colpa di Roma" - Infine l'affondo: "Tutti mi dicono continui ad andare a Palermo,
ad amarla”. Certo, io non dovrei vivere a Roma, dove è stato deciso il
tutto! Non a Palermo, dove sono solo state armate le mani. Sono sempre
più convinta che la mafia abbia ucciso mio padre su
commissione…Politica...".
Catastrofici. Solo così si possono definire i risultati del
sondaggio Swg commissionato dal Pd romano sull'indice di gradimento del
sindaco di Roma Ignazio Marino.
Uno tsunami - scrive Giovanna Vitale su La Repubblica
- non avrebbe potuto fare di più. A un anno e mezzo dal trionfale
cappotto contro Alemanno (finì 64 a 36 e 15 municipi a zero), il
gradimento del sindaco Marino ha subito un crollo verticale: solo il 20%
dei romani si fida ancora di lui, l'80% poco o per nulla. Significa che
quattro su cinque preferirebbero qualcun altro sulla tolda del
Campidoglio. Tant'è che se oggi si tornasse alle urne, lo rivoterebbe
solo il 23% degli elettori, il 75% scriverebbe un altro nome sulla
scheda. Peggio fa la giunta, promossa solo dal 16% dei cittadini, mentre
l'84 si dichiara insoddisfatto. È la foto di una debacle. Scattata
dalla Swg per conto del Pd romano. Il sondaggio choc, realizzato
all'incirca un mese fa su un campione di duemila intervistati, è stato
commissionato dal principale azionista della maggioranza capitolina,
interessato a misurare - anche in termini di consenso - l'efficacia
dell'azione amministrativa. Certo non aspettandosi un risultato tanto
disastroso. Riassumibile in un dato: alla domanda su che cosa funziona
bene a Roma, il 54% ha risposto: 'Nulla'.
Per
la stragrande maggioranza chiamata a descrivere la città con tre
aggettivi (senza indicazioni prestabilite) - prosegue il quotidiano -
Roma è sporca (62%), caotica (49), degradata (35): il termine 'bella' --
che dovrebbe essere il più usato -- compare solo al quinto posto. Un
giudizio che si riflette, subito dopo, sulla "Roma che vorrei": "Pulita"
auspica il 60% dei sondati, "vivibile, accogliente, curata" il 31%,
"efficiente" il 29. Tant'è che quando si chiede di individuare, in
ciascun municipio, le emergenze da risolvere, il 61% indica "il decoro
urbano", il 59 "la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti", il 53 "i
problemi legati al trasporto pubblico". Servizio, quest'ultimo, che per
quattro romani su cinque è quello che funziona peggio (79%), seguito ex
aequo dalla gestione del traffico (70) e dei rifiuti (69), più
distanziate la sicurezza (52) e la polizia municipale (45), che
registrano comunque un gradimento piuttosto basso.
È tuttavia il
confronto con il predecessore a far suonare il campanello d'allarme.
Alla domanda: "Secondo lei come vanno le cose rispetto a quando c'era
come sindaco Alemanno?", solo il 23% risponde che è meglio con Marino
("molto" per il 4%; "un po'" per il 19); il 35% risponde che non è
cambiato nulla; per il 40% va addirittura peggio ("un po'" per il 15%,
"molto peggio" per il 25).
"Penso
che sia un ottimo documento che aiuta molto a capire alcuni dati", ha
commentato Marino a margine della giunta sul sondaggio Swg commissionato
dal Pd capitolino e pubblicato nelle pagine romane di Repubblica che lo
danno a picco nel consenso. A chi gli chiede se a suo parere si tratta
di uno sgambetto da parte di qualcuno del Pd Marino risponde:
"Assolutamente no, mi sembra che i dati sul disappunto sul trasporto
pubblico e decoro urbano siano assolutamente in linea con i problemi che
noi vediamo e abbiamo davanti agli occhi".
"È evidente e non c'è
neanche bisogno di un sondaggio per capire che ci sono difficoltà nei
trasporti e dal mio punto di vista è un argomento su cui sto lavorando
dal mese di marzo con il Governo su tre punti centrali quello degli
extra costi di Roma Capitale che permettono di intervenire su un altro
punto che il sondaggio mette in evidenza, il decoro urbano", continua
Marino. "Avremo i 110 milioni di euro in più per intervenire dall'inizio
del 2015 sul decoro urbano, abbiamo lavorato sull'allentamento del
patto di stabilità che ci permette di migliorare in alcuni settori dei
lavori pubblici, al di là delle grandi opere come lo stadio o il ponte
dei congressi".
"Certo - ha aggiunto - poi ci sono delle analisi
più approfondite che andrebbero fatte come la diversa strategia dopo 50
anni della gestione dello smaltimento dei rifiuti. Noi stiamo facendo in
18 mesi lo stesso percorso che città come San Francisco hanno fatto in
18 anni. C'è da chiedersi perché non sia stato fatto nel 1968 o nel
1978".
Poco
più di un miliardo di tagli, metà dei quali in capo al ministero della Difesa.
Lo rivelano le tabelle allegate alla legge di Stabilità in circolazione ieri
sera.
Se si
sommano gli 1,1 miliardi di risparmi attesi nel 2016 e gli 1,3 del 2017 si
arriva a un totale di 3,4 miliardi, non lontano dalle promesse della vigilia (4
miliardi), ma più che una spending review si tratta di tagli lineari
Tremonti-style.
Il
ministro Pinotti, che ha preso una bella «stangata», si schermisce. «È vero che
siamo i più penalizzati, ma gli investimenti non sono stati tagliati», ha commentato
asserendo che «ci sono spese stratificate negli anni che possono essere
tagliate con oculatezza». Il ragionamento potrebbe avere un senso se si
considera che il bilancio della Difesa ogni anno impegna 20 miliardi di euro.
Il problema è che i tagli della spending review si concentrano sul capitolo
«Pianificazione generale delle Forze armate e approvvigionamenti militari» per
496,8 milioni, cioè l'11,1% dello stanziamento che originariamente era previsto
per il prossimo anno. Si tratta di un taglio draconiano per una voce nella
quale sono concentrate tutte le spese per la manutenzione dei mezzi e
l'addestramento che non sono iscritte nei rispettivi capitoli (Carabinieri,
Marina, Esercito e Aeronautica). È lecito ipotizzare che i militari protesteranno.
Più
leggeri i sacrifici imposti agli altri ministri. A superare i 100 milioni sono
solo in tre: Istruzione (148,6 milioni), Giustizia (102,7 milioni) e Interno
(100,9 milioni). Il ministro Giannini dovrà rinunciare a 139 milioni per
l'istruzione scolastica (-30 milioni per gli asili, -36 per le elementari, -17
per le medie e -55 per i licei). Più omogenei i tagli a Via Arenula: 64 milioni
dovranno risparmiare giudici civili e penali, mentre 36 milioni si prendono
dall'amministrazione penitenziaria. La spending review «dedicata» ad Angelino
Alfano colpisce per 74 milioni la Polizia. E qui i sindacati sono già sul piede
di guerra per la cancellazione delle griglie orarie per i servizi dei
poliziotti.
Un po'
di dieta dimagrante la farà anche Pier Carlo Padoan con 85,6 milioni nel 2015.
I più colpiti direttamente saranno il Dipartimento delle Finanze (20,2 milioni)
e la Guardia di Finanza (4,5 milioni) perché il risparmio più corposo (50
milioni) riguarda i fondi da ripartire alle varie amministrazioni dipendenti da
Via XX Settembre. I tagli degli Esteri cifrano apparentemente zero euro, ma nel
2015 saranno tenuti in cassa 25,2 milioni non versandoli agli organismi
internazionali. Il contributo all'Onu è tagliato di 20 milioni, mentre si
recederà, tra l'altro, dall'Istituto internazionale del Freddo (60mila euro) e
dal Comitato consultivo del Cotone (35mila euro).
Con una mano bonariamente
elargisce e rende, con l’altra furtivamente decurta e sottrae:
millantando ed affabulando da tre-cartista della prima ora, Mago Matteo
sfoggia un estro indiscutibilmente innovativo, per il semplice fatto che
riesca a contrabbandare sesquipedali corbellerie smuovendo gli animi e
convincendoli che quelle siano imprescindibili.
Le capacità di concedere
risposte a quesiti di interesse collettivo dovrebbe essere la principale
preoccupazione di un sistema politico, volto alla risoluzione di
problematiche socioeconomiche particolarmente intricate. La responsività
è quindi prerogativa indispensabile, affinché il tessuto sociale si
rifletta nei rappresentanti e si convinca che questi ultimi possano
davvero incidere nella stabilizzazione del bene comune. Jean
Baudrillard, nel computo delle teorizzazioni, evidenziava però le cause
di un’involuzione drastica e probabilmente irrimediabile della ciclicità
sopracitata durante il XX secolo, in cui la democrazia delegata avrebbe
rischiato di veder crollare il proprio costrutto amministrativo, sul
quale ha sempre fondato la maggior parte delle sue convinzioni. Da anni,
in Italia istituzioni e governi ci propinano l’idea che la
partecipazione diretta della partitocrazia nella Res Publica sia di
primaria importanza, per competenza conoscitiva e tecnica. È bensì
indubbio che altrettanto tempo abbia convalidato, tramite la tesi del
filosofo francese, l’assoluta impotenza di programmi partitocratici nel
contesto statale italiano, dove tra inettitudine, incapacità, servilismo
ed autoreferenzialità, si è consumata in quasi settant’anni una storia
pregna di menzogne e di soprusi, di meretrici e di fedifraghi, di
pigia-bottoni e di infimi cortigiani da salotto. Da contorno, una vile
logica dell’asservimento incondizionato alle disposizioni dei soggetti
privati esteri, con banche, lobbies e gruppi elitari decantando a
diramare vessazioni burocratiche per garantire il domino del capitalismo
finanziario, ad appannaggio dei Popoli.
Ad ogni modo, sembrava che all’incirca
un anno fa, precisamente l’8 dicembre 2013, le sorti del Tricolore
fossero destinate ad un avvenire prospero, prorompente di occupazione e
zampillante di produttività. Matteo Renzi si proponeva con indole
vigorosa e determinata ad incarnare l’agognato cambiamento: in una
commistione di ovvietà e di novità d’impatto, l’ex sindaco di Firenze
prometteva risvolti epocali e dichiarava battaglia alla gerontocrazia
capitolina. A distanza di undici mesi e di una segreteria e di una
Presidenza del Consiglio conquistate, lo sfavillante Renzi ha smarrito
la strada maestra e ha imboccato un viale che invece di cucirgli un
soprabito da rottamatore, ce lo consegna nelle vesti di un consumato
fattucchiere. Con una mano bonariamente elargisce e rende, con l’altra
furtivamente decurta e sottrae: millantando ed affabulando da
tre-cartista della prima ora, Mago Matteo sfoggia un estro
indiscutibilmente innovativo, per il semplice fatto che riesca a
contrabbandare sesquipedali corbellerie smuovendo gli animi e
convincendoli che quelle siano imprescindibili. Perché lui è il santone
per eccellenza, il guru gigliato disceso a Roma per riacutizzare le
piaghe di uno Stivale esanime.
Pazienza che inizialmente dispensi 80
euro alle neo mamme e successivamente stanzi soltanto 500 milioni per la
famiglia – ossia la metà dei proventi fiscali incamerati dalle slot
machine, che tanti nuclei famigliari hanno sgretolato e da cui si esige
costantemente troppo poco. È un dettaglio la questione che desideri
innescare di nuovo il lavoro e che collateralmente non intervenga in
modo netto e deciso sull’IRAP ed anticipi parte del TFR nelle buste paga
degli ipotetici richiedenti, con conseguente guadagno per lo Stato. È
secondario che, nonostante voglia ardentemente dare una scossa ai
consumi, non disintegri la losca intoccabilità di un’IVA da percentuali
microeconomicamente destabilizzanti. D’altronde, lui è l’onnisciente ed
onnipresente Mago Matteo. Comunque, qualcuno ci avvisi repentinamente
quando questo ributtante avanspettacolo chiuderà bottega e lascerà
spazio al concreto e serioso dibattimento. Gli italiani (incazzati)
ringraziano.
Barroso sarà contento di finire la sua
carriera di Commissario UE, con il suo successore che dovrà vedersela
col referendum britannico, con i movimenti separatisti in crescita, e
con Francia e Italia messe di traverso. In particolare, quest'ultima,
guidata da un Gian Burrasca niente male, che le cose non le manda certo a
dire. Nell'estate del 2011, quando arrivò la
famosa lettera della BCE, firmata da Trichet (ma controfirmata dal suo
successore, Mario Draghi), Berlusconi e Tremonti piegarono la testa, nel
timore che la banca europea ci mollasse e i nostri titoli di stato
mancassero di copertura. Renzino, 3 anni dopo, non ha problemi diversi,
perché il nostro debito pubblico in questi tre anni, nonostante il padre
di tutti i mali italiani non sia più a Palazzo Chigi, non è diminuito,
anzi è aumentato ancora. Però ha deciso di assumere un piglio diverso. E
così dice che noi rispetteremo il tetto del 3%, facendo finta di non
sapere che a Bruxelles da noi vogliono il pareggio di bilancio nel 2015,
cosa assolutamente impossibile salvo manovre da periodi di guerra
(leggi : patrimoniale, prelievi dai conti corrente, in stile Amato per
intenderci, ennesimo ma più pesante al patrimonio privato, visto che il
pubblico non si tocca ). Sbruffone come sempre, Renzi dice che se
mancano 2-3 miliardi lui li trova in una mattinata ( che ce vò ? aumenta
un'altra volta l'IVA, ed è fatto !), e però è ora di farla finita con
le letterine, e i conti iniziare a farli anche con le spese dei palazzi
di Bruxelles (e tutti i torti non li ha..., anche se poi la sostanza dei
NOSTRI problemi non sta lì e non cambia). Vedremo nelle prossime ore. Un fatto non
è smentibile : se ALTRI si fossero mossi con la stessa spregiudicatezza
verbale nei confronti delle autorità europee, sarebbe venuta giù la
rete web tra tweet e post sui social network.
Legge di stabilità, ecco la lettera Ue:
all’Italia: “Chiarimenti su deficit, coperture e riforme”. Renzi: “2
miliardi? Possiamo metterli domani”
Sul tavolo del governo i rilievi tecnici che la Commissione ha
sollevato sulla manovra. Barroso contro il Ministero dell’Economia:
«Quel testo non doveva essere pubblicato». Il premier lo gela: «Stupito.
Ora pubblicheremo i dati delle spese Ue, sarà divertente»
ANSA
La lettera «confidenziale» di Katainen è stata pubblicata integralmente sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanza
«E’ partita, dunque è anche arrivata», dice di buon’ora una fonte
europea a La Stampa. Poi arriva la conferma del Tesoro. Da questa
mattina sul tavolo del governo italiano ci sono i rilievi tecnici che la
Commissione Ue ha sollevato sulla Legge di Stabilità varata dal governo
Renzi il 15 ottobre. In sostanza, hanno circoscritto tre gruppi di
questioni da modificare o approfondire: il mancato rispetto dell’obbligo
di ridurre di mezzo punto il deficit strutturale (al netto di ciclo e
una tantum); la solidità delle coperture e delle entrate; gli effetti e
il calendario delle riforme.
24 ORE DI TEMPO «La Commissione intende continuare il dialogo costruttivo con
l’Italia per arrivare alla valutazione finale della manovra e gradirebbe
il vostro punto di vista non appena possibile e preferibilmente entro
il 24 ottobre per consentirci di tener conto delle valutazioni italiane
nella prossima fase», si legge nella lettera.
Il commissario per l’Economia Jyrki Katainen rileva una significativa
deviazione dagli aggiustamenti richiesti per centrare l’obiettivo di
medio termine (il pareggio nel 2015). «Non una è minaccia, ma l’avvio
di una collaborazione», si assicura a Bruxelles. Vero a metà. Perché
se il dialogo non avrà uno sbocco positivo, il 29 l’esecutivo potrebbe
calare il suo asso di picche e chiedere la riscrittura degli impianti
non in linea con le regole a dodici stelle.
“SIGNIFICATIVO SCOSTAMENTO DAGLI OBIETTIVI” «Dall’analisi preliminare, sulla base dei conti degli uffici tecnici
della Commissione Ue, l’Italia programma una significativa deviazione
dagli aggiustamenti richiesti per centrare l’obiettivi di medio termine (il pareggio di bilancio, ndr)
nel 2015», si legge nella lettera. Quindi, «l’Italia come assicurerà un
pieno rispetto degli obblighi della politica di bilancio nel 2015?». Il
governo italiano fa sapere che risponderà entro domani. Ci sono 24 ore
di tempo per trattare. «Gli uffici tecnici del Ministero sono già in
contatto con la direzione ECFIN a Bruxelles, così come il Governo
italiano è in contatto con la Commissione europea», scrive una nota del
Tesoro. Matteo Renzi, a Bruxelles per il vertice europeo, non ci sta:
«Stiamo discutendo di uno o due miliardi di differenza, possiamo
metterli anche domattina», «corrispondono ad un piccolissimo sforzo».
LA PUBBLICAZIONE DELLA LETTERA DIVENTA UN CASO La pubblicazione della lettera di Katainen a Padoan - apprezzabile
operazione di trasparenza del Tesoro - non è però andata giù a Barroso.
«È stata una decisione unilaterale del governo italiano, la
Commissione non era favorevole perché siamo in una fase di negoziati e
consultazioni con diversi governi e sono consultazioni tecniche, che è
meglio avere in un ambiente confidenziale», dice il presidente uscente.
Anche su questo fronte la replica di Renzi è durissima: «Sono stupito
che Barroso si sia sorpreso per la pubblicazione della lettera che era
stata anticipata qui, su un importante quotidiano internazionale, il
Financial Times, poi un importante giornale italiano ha avuto lo scoop».
Poi l’affondo: «Pubblicheremo non solo la lettera» inviata dall’Ue, «ma
tutti i dati economici di quanto si spende in questi palazzi, sarà
molto divertente».
LETTERA ANCHE ALLA FRANCIA Da Parigi il sottosegretario per gli Affari Comunitari, Sandro Gozi
getta acqua sul fuoco, definendo gli interrogativi contenuti nella
lettera del tutto «normali». «Noi - sottolinea - vogliamo raggiungere
gli obiettivi ma attraverso un nuovo percorso. Di questo discutiamo con
la Commissione e tra poco la Commissione riceverà la risposta
dell’Italia». La lettera dell’Ue, comunque, era attesa ed è stata
recapitata anche alla Francia. Lo ha annunciato il presidente della
Commissione Esteri del Parlamento europeo, Elmar Brok, lasciando il
pre-vertice del Ppe a Bruxelles. «La Francia rispetterà le regole usando
il massimo della flessibilità», ha ribadito Hollande entrando al summit
Ue. E il plenipotenziario economico Jyrki Katainen ha confidato
l’intenzione di inviare tre lettere ad altrettanti Paesi per «chiedere
chiarimenti sulle leggi di bilancio». Anche Austria, Malta e Slovenia
dovrebbero pertanto ritrovarsi oggi un invito a spiegarsi meglio.
DUELLO A DISTANZA VAN ROMPUY-JUNCKER Il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, avrebbe inoltre
suggerito al numero uno uscente Barroso, e al confermato Katainen, di
non alimentare polemiche che potrebbero inquinare l’eurosummit in
programma nella capitale belga (inevitabile). Infine peserebbe la
mancanza di piena sintonia fra il vecchio e il nuovo, fra il portoghese
dalla linea dura (dall’Italia vorrebbe tutto lo 0,5%) e gli uomini di
Juncker, già generosi nel ripetere che «le regole cambiano, ma possono
essere applicate con maggiore flessibilità».
CLIMA AMMORBIDITO Il senso della lettera è chiaro: bisogna mettere le mani nel motore
nel giro di una settimana. «Il clima nei confronti dell’Italia si è
ammorbidito», riferisce una fonte. Potrebbe bastare una «lettera di
intenti» come base per risolvere la contesa. Ci si aspetta «uno sforzo
verso lo 0,25 di correzione strutturale». Il dato di riferimento è
quello. Potrebbe essere accettato alla luce della difficile congiuntura e
scontando l’efficacia delle riforme. Roma, con attenzione, diplomazia e
2-3 miliardi, ha ancora la possibilità di non sentirsi chiedere di
riscrivere il bilancio. LA FRETTA DI JUNCKER E’ importante per sedersi a pieno titolo al tavolo della fase due,
quella «politica» su flessibilità e investimenti. Juncker ha fretta.
«Presenteremo il piano investimenti da 300 miliardi entro Natale e non a
metà febbraio», ha annunciato all’Europarlamento. L’obiettivo è andare
oltre il guado, «senza accumulare nuovo debito», ricordando «non si crea
lavoro con la sola austerità, perché se così fosse la crescita sarebbe
massiccia e invece no». Una task force Bei-Commissione presenterà
l’elenco dei progetti possibili nazionali il 25 novembre. C’è l’ipotesi
di un utilizzo di parte della dote del fondo salva-Stati (che non piace a
Berlino) e la ricapitalizzazione della stessa Banca per gli
investimenti. Si conta su un’approvazione al summit del 18-19 dicembre.
Juncker vuole sia la priorità, per il lavoro, l’occupazione e oltre.
«Questa commissione - dice - è l’ultima chance per l’Ue». Forse esagera.
Ma forse no.
Ovazione del Parlamento canadeseal SergenteKevinVickers, ex polizziotto delle Giubbe Rosse e responsabile della sicurezza del Parlamento canadese. Il giorno prima aveva sparato e ucciso Michel Zehaf Bibeau, che aveva fatto irruzione nel Parlamento .
L'assalitore aveva aperto il fuoco e ucciso Nathan Cirillo, soldato di origini italo-canadesi.
Allo sfruttamento intensivo dello shale gas
analisti e politici americani hanno accostato a colpo sicuro il termine
“rivoluzione”. Gli incrementi produttivi innescati dall’estrazione di
gas da argille e scisti bituminosi sono predicati quali il vettore che
nel prossimo futuro ripoterà gli Stati Uniti alla posizione di
preminenza occupata agli inizi del Novecento, ossia a quella di prima
potenza energetica. Per un gigante economico che a lungo è stato centro
di gravità delle transazioni di energia e che ha improntato la vocazione
internazionale al dogma della liberalizzazione delle linee di
approvvigionamento, le implicazioni geostrategiche di quest’annunciato
cambio di paradigma del mercato energetico sono certamente imponenti.
Tuttavia, una serie di questioni sottaciute dalle proiezioni sulla curva
di produzione impone una lettura prudente della condizione
d’indipendenza energetica eventualmente perseguibile dagli Stati Uniti –
tanto sul piano della diversificazione globale dei siti estrattivi,
quanto su quello dei costi non manifesti.
La
crescente rilevanza degli idrocarburi non convenzionali nel mix
energetico statunitense è stata sollecitata dai recenti sviluppi delle
tecnologie estrattive; precisamente, la frantumazione idraulica e la
trivellazione orizzontale hanno rapidamente creato un nuovo orizzonte di
opportunità, consentendo l’utilizzo di vasti bacini altrimenti non
commercializzabili in termini di redditività. Dal 2000 a oggi lo shale gas
è passato dal 2% al 40% del gas complessivamente estratto, guidando
aumenti costanti del livello di produzione che nel 2010 hanno permesso
di sopravanzare la concorrenza russa. Secondo le proiezioni dell’Energy
Information Administration (EIA) gli Stati Uniti diventeranno
esportatori netti di gas naturale prima del 2020 ed esportatori di 5.8
trilioni di piedi cubi (Tcf) nel 2040, quando il gas non convenzionale
peserà per metà dell’intera quota prodotta; si ipotizza, inoltre, che
entro il 2035 il gas avrà soppiantato il carbone quale risorsa
principale per la generazione di elettricità [1]. Secondo i dati forniti
dall’EIA gli Stati Uniti potranno contare su un serbatoio di riserve
sufficienti a sostenere almeno 90 anni di produzione. Emblematiche di
questo cambiamento di prospettiva sono le numerose richieste [2]
sottoposte al vaglio del Department of Energy per la conversione dei
rigassificatori, costruiti per la ricezione di gas naturale liquefatto
(LNG nell’acronimo inglese) e largamente inutilizzati, in impianti di
liquefazione, al fine di sostenere le (eventuali) esportazioni verso i
mercati asiatici, sudamericani ed europei.
La
maggiore disponibilità di gas comporta ricadute importanti
sull’economia interna: tra le più significative, il rilancio dei consumi
provocato dalla riduzione della spesa familiare per il riscaldamento,
il sostegno dell’occupazione nell’industria estrattiva, l’incentivo ad
investimenti nel settore manifatturiero in ragione dei prezzi declinanti
degli input energetici [3]. La rivoluzione americana non è
tuttavia ancorata unicamente all’accresciuta abbondanza di gas naturale e
al conseguente ampliamento degli utilizzi finali. Gli avanzamenti
tecnologici hanno parallelamente incoraggiato lo sfruttamento del “tight oil”,
ossia di petrolio anch’esso intrappolato in rocce impermeabili, la cui
immissione sul mercato ha ribaltato un andamento negativo di lungo
periodo nella produzione di greggio. Dopo il punto di minimo toccato nel
2008, la quantità di petrolio prodotta è cresciuta regolarmente,
raggiungendo nell’agosto 2014 una media di 8.6 milioni di barili
giornalieri (bbl/d) – un livello che l’industria petrolifera
statunitense aveva da ultimo toccato nel luglio 1986 [4]. Nel 2013 gli
Stati Uniti hanno registrato un incremento annuale di 1.1 bbl/d, un
aumento assoluto non corrisposto da alcun competitore e che non ha
precedenti negli annali della superpotenza [5]. I modelli EIA prevedono
una produzione di 9.6 bbl/d nel 2019, con un differenziale positivo di
3.1 bbl/d rispetto al 2012, e prorogano al 2040 la contrazione
inevitabile dello stock di greggio [6]. In altre parole, ciò
significherebbe tornare alla capacità estrattiva degli anni Settanta,
contendendo il primato dell’Arabia Saudita – con quest’ultimo che
potrebbe essere già intaccato entro la fine dell’anno.
Benché
occorra tenere concettualmente distinti i livelli di produzione dalla
disponibilità di riserve, i dati attuali e le proiezioni correlate non
solo accertano un rafforzamento degli Stati Uniti in una delle
componenti costitutive della potenza nazionale, ma sembrano prefigurare
un mutamento dei rapporti di forza globali. Il dibattito interno è
concorde nel ritenere che i fattori scatenanti lo “shale boom”
(la proprietà privata dei giacimenti, lo studio avanzato della geologia
del Paese, un mercato dei servizi competitivo, un quadro legislativo
accomodante, la presenza d’infrastrutture preesistenti e di adeguate
conoscenze tecniche) potranno essere difficilmente replicati dai
principali antagonisti di Washington, spesso frenati (è il caso cinese)
da burocrazie elefantiache e verticistiche [7]. In questo senso una
maggiore capacità produttiva tenderebbe ad una maggiore flessibilità
strategica, allentando i pesanti vincoli contratti nei teatri
mediorientali a tutela prioritaria della stabilità dei pozzi del Golfo
Persico.
Le attese americane sembrano
però peccare di eccessivo ottimismo poiché la guerra di cifre lanciata
dai media d’oltreoceano lascia trasparire più di qualche incertezza
sulla lettura dei prossimi equilibri energetici. In primo luogo, gli
Stati Uniti consumano più idrocarburi di quanto siano in grado di
produrne. Pertanto, l’ingente domanda interna deve essere
continuativamente soddisfatta dalle importazioni. Guardando al gas
naturale, nel 2013 ad una produzione di 687.6 bilioni di metri cubi
(bcm) è corrisposto un consumo di 703.2 bcm, secondo tassi di incremento
annuale rispettivamente dell’1.3% e del 2.0% [8]. La differenza è stata
colmata dai gasdotti canadesi che hanno irrorato l’economia
statunitense di 78.9 bcm [9] – a copertura anche delle quantità di gas
pari a 44.5 bcm esportate dagli Stati Uniti in direzione dei partner
NAFTA. Deve essere inoltre annotato che nel medesimo anno di riferimento
sia Federazione Russa che Cina hanno seguito un passo più spedito,
realizzando aumenti del 2.4% e del 9.5%.
La
forbice import/export è ben più ampia in riferimento al petrolio,
laddove nel 2012 la domanda di greggio è stata sostenuta per il 42% da
fonti estere. Rovesciando i termini dell’equazione, gli Stati Uniti
possono provvedere autonomamente a poco più di un terzo del proprio
fabbisogno. Sebbene l’introduzione di misure di efficienza energetica
abbia ridotto il consumo pro-capite, l’apparato industriale americano
drena quasi 18 bbl/d, che riflettono il 19.9% dell’intera domanda
mondiale. Se nel caso del gas naturale il bacino nordamericano nel suo
complesso protegge la posizione di Washington, per quanto concerne il
petrolio gli Stati Uniti non sono dunque in grado di recedere da una
condizione di dipendenza esterna. In questa prospettiva tra l’ascesa
produttiva e la recente riduzione delle quote importate non esiste alcun
nesso di causalità: se è pur vero che la domanda di greggio si è
abbassata di circa il 10% rispetto al 2005, è piuttosto il crollo
dell’attività economica generato dalla crisi finanziaria del 2006 ad
aver asciugato la sete di petrolio, moderando i flussi in entrata.
Conseguentemente,
la tesi dell’indipendenza energetica del polo americano pare a dir poco
affrettata, oltre che avvallata da studi di fattibilità non ancora
maturi. Lo shale gas è certamente destinato a rivestire un ruolo
fondamentale nel sostentamento dell’economia statunitense, ma la
conversione dei sistemi produttivi a tale fonte energetica rappresenta
un traguardo ad oggi lontano, basti pensare che il settore dei trasporti
è interamente monopolizzato dai derivati del petrolio [10]. Nel caso di
riferimento fissato dall’EIA il tasso di crescita annuale nella
produzione di gas naturale raddoppia quello del consumo (1.6% contro lo
0.8%), ma questa ipotesi non è confermata dai trend attuali, come
evidenziato nel paragrafo precedente. La stessa agenzia governativa
precisa che l’attendibilità dei prospetti è sensibilmente condizionata
da incognite geologiche (l’effettiva entità delle formazioni
bituminose), economiche (il livello dei prezzi) e tecnologiche (lo
sviluppo delle tecniche di estrazione) [11]. A tal proposito il grafico
sottostante mette in luce la variabilità di questa tipologia di
proiezioni.
Diversamente
da valutazioni di corto respiro che puntualizzano l’accrescimento delle
riserve fruibili dall’industria statunitense [12], uno studio del Post
Carbon Institute raccomanda di considerare il rendimento energetico
netto della risorsa, ossia il differenziale tra l’energia richiesta per
lo sfruttamento della risorsa e l’energia contenuta nel prodotto finale.
Poiché il rendimento netto degli idrocarburi non convenzionali è minore
rispetto a quello delle fonti fossili convenzionali, il discrimine
circa l’efficienza del loro impiego è determinato dai costi complessivi
(anche ambientali) del ciclo estrattivo, che in ultima istanza
definiscono l’indice di approvvigionamento della risorsa [13]. Da questo
punto di vista i pozzi di shale gas accusano un crollo di
rendimento elevatissimo, mediamente oscillante tra il 79% ed il 95% dopo
i primi 36 mesi di attività. Secondo i report pubblicati dall’EIA, il
mantenimento di livelli di produzione in linea con le proiezioni
costringe una continua immissione di capitali per l’apertura di nuovi
siti di estrazione. Tale esborso finanziario è stimato dal Post Carbon
Institute in 42 mld di dollari, da versare annualmente al fine di
garantire la trivellazione di oltre 7mila nuovi pozzi – una spesa che
eccede il valore commerciale del gas estratto (nel 2012 stimato in 32.5
mld) [14]. La legge dei rendimenti decrescenti è parimenti applicabile
ai prodotti petroliferi. In tal senso, per ottenere nel 2040 un atteso
aumento del 41% dell’intera produzione domestica di idrocarburi sarà
necessario un incremento annuale del 77% nella perforazione di pozzi.
Non è un caso che nel corso del 2012 l’industria del gas e del petrolio
degli Stati Uniti abbia chiuso con un passivo di 60 mld, a fronte degli
onerosi investimenti effettuati [15].
In
definitiva, se si incrociano i dati sul rapido declino della
produttività media dei giacimenti non convenzionali con quelli
descrittivi del divario consumo-produzione, gli andamenti discussi in
apertura all’articolo non sembrano sostenibili nel lungo periodo. Ad
appesantire questo bilancio intervengono due aspetti che non saranno
oggetto di specifico approfondimento in questa analisi: da un lato, la
convenienza nell’impiego su larga scala del gas naturale nel tessuto
industriale americano sarà primariamente determinata dalle oscillazioni
dei prezzi, bassi dal 2008 ma storicamente volatili e condizionati tanto
da fattori macroeconomici quanto dall’evoluzione del settore
estrattivo; dall’altro, i danni ambientali procurati dalla frantumazione
idraulica (dalla contaminazione delle falde acquifere alla distruzione
degli ecosistemi locali [16]) potrebbe raccomandare l’introduzione di
regolamentazioni restrittive, fissando dei limiti ai volumi prodotti
ovvero imponendo sanzioni, che condizionerebbero l’esplorazione e lo
sfruttamento dei bacini non convenzionali.
I
dati riportati avvalorano la tesi per cui il gas naturale possa
costituire una “risorsa ponte” per il sistema produttivo statunitense,
in grado di aggiornare l’efficienza energetica degli utilizzi
industriali e residenziali, di ridurre il livello di emissioni e
soprattutto di allungare la coperta in vista di un inderogabile
ripensamento delle fonti energetiche (si tenga presente che l’86% della
domanda statunitense è colmata da fonti fossili). Tuttavia, non pare
realistico ritenere che le vaste riserve di gas non convenzionale in
dote agli Stati Uniti possano risultare decisive sullo scacchiere
globale poiché la crescita più che proporzionale del consumo interno
diminuisce la credibilità ed il peso strategico delle quote esportabili
oltre oceano.
Conviene ricordare in tal senso il caso indonesiano,
laddove lo sviluppo economico stimolato dall’abbondanza di petrolio ha
gradualmente sollevato la domanda interna, trasformando l’Indonesia da
Paese esportatore a importatore. Gli analisti che enfatizzano le
potenzialità del “secolo del gas” a direzione americana tendono inoltre a
trascurare un aspetto non marginale, ossia i costi di trasmissione
delle esportazioni di gas che la condizione di insularità accresce
sensibilmente. È infatti il mercato internazionale e non la quantità di
riserve nazionali a definire l’export sulla base del prezzo di vendita
della materia prima: in questo frangente i maggiori costi risultanti dal
necessario processo di liquefazione e dal trasporto di volumi modesti
influiscono negativamente sull’appetibilità del gas statunitense. In
altri termini, è altamente improbabile che Washington abbia la capacità
produttiva e commerciale di egemonizzare i mercati europei (riducendo il
potenziale di ricatto di Mosca) [17] ed asiatici – con una possibile
eccezione rappresentata dal Giappone, primo importatore di LNG (119 bcm
nel 2013) ma conteso dalla concorrenza australiana.
Pertanto,
nell’agone della politica internazionale gli Stati Uniti avranno
l’opportunità di spendere la moneta del gas sul terreno del prestigio
nazionale e delle percezioni altrui, piuttosto che sfruttarne i
dividendi per alterare a proprio favore la bilancia dell’energia
mondiale ovvero agitare una ancor meno probabile fuga isolazionista
nell’emisfero occidentale. Da questo punto di vista il monumentale
accordo per la fornitura (trentennale) di gas sottoscritto da
Federazione Russa e Cina irradia un impatto strategico incomparabile con
le deboli declamazioni di una prossima autosufficienza energetica della
potenza statunitense, il cui baricentro politico-economico si rivela
progressivamente eccentrico rispetto all’evoluzione dei contesti
regionali. Secondo questa lettura, gli statisti americani (e con loro le
cancellerie europee) dovranno guardare con crescente preoccupazione
agli effetti conflittuali determinati dalla corsa globale al consumo di
energia e dalla distribuzione iniqua del consumo. Come già riportato,
gli Stati Uniti consumano mediamente un quinto del petrolio
complessivamente immesso sul mercato, mentre il consumo mondiale di
greggio è destinato a salire dagli attuali 90.5 bbl/d ai 117-121 bbl/d
del 2040 – trainato quasi interamente dalle cd economie emergenti. È la
crescita strutturale di quest’ultime a rendere ancor più complessa la
partita energetica giocata dagli Stati Uniti.
* Alessandro Tinti è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Firenze)
[1] U.S. Energy Information Administration, Annual Energy Outlook 2014 With Projections to 2040, Department of Energy, Washington, aprile 2014.
[2]
Su 31 richieste per l’autorizzazione ad esportare LNG inoltrate al
dicastero competente, almeno 8 prevedono l’adattamento dei
rigassificatori esistenti, con un costo stimato tra i 6 e i 10 mld di
dollari per singolo stabilimento. Cfr. Michael Ratner, Paul W. Parfomak,
Ian F. Fergusson, Linda Luther, U.S. Natural Gas Exports: New Opportunities, Uncertain Outcomes, Congressional Research Service, 17 settembre 2013, p. 11.
[3] Cfr. Robert A. Hefner, The United States of Gas, in “Foreign Affairs”, vol. 93, n. 3, 2014.
[4] U.S. Energy Information Administration, Monthly Energy Review, Department of Energy, Washington, settembre 2014, p. 37.
[5] BP, Statistical Review of World Energy, giugno 2014.
[6] U.S. Energy Information Administration, Short-Term Energy Outlook, Department of Energy, Washington, settembre 2014.
[7] Cfr. Lynann Butkiewicz, North America’s Natural Gas Boom Comes to the Asia-Pacific, in “The Diplomat”, 27 settembre 2012; Robert A. Hefner, op. cit.; Edward L. Morse, Welcome to the Revolution, in “Foreign Affairs”, vol. 93, n. 3, 2014.
[8] BP, Statistical Review of World Energy, giugno 2014.
[9] A questi si aggiungano 2.7 bcm di LNG.
[10] Cfr. Michael Ratner, Carol Glover, U.S. Energy: Overview and Key Statistics, Congressional Research Service, giugno 2014.
[11] U.S. Energy Information Administration, Annual Energy Outlook 2014 With Projections to 2040, Department of Energy, Washington, aprile 2014.
[12] Henry D. Jacoby, Francis M. O’Sullivan, Sergey Paltseva, The Influence of Shale Gas on U.S. Energy and Environmental Policy, in “Economics of Energy & Environmental Policy”, vol. 1, n. 1, 2012.
[13] J. David Hughes, Drill, Baby, Drill: Can Unconventional Fuels Usher in a New Era of Energy Abundance?, Post Carbon Institute, 2013, pp. i-ii.
[14] Ibidem, p. 50.
[15] Edward L. Morse, op. cit.
[16] Cfr. Bipartisan Policy Center, Shale Gas: New Opportunities, New Challenges, gennaio 2012; Michael Ratner, Mary Tiemann, An Overview of Unconventional Oil and Natural Gas: Resources and Federal Actions, Congressional Research Service, gennaio 2014;
[17] Cfr. Matteo Villa, Sicurezza energetica: Obama (non) ci salverà, ISPI, 24 luglio 2014.