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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.
Quinto
giorno di interrogatorio nel processo di Mafia Capitale per il ras
delle coop: "Coratti, Ferrari, Giansanti, Tassone, D’Ausilio: mazzette
per i debiti fuori bilancio"
Salvatore Buzzi
Mazzette, assunzioni su «segnalazione» e accordi
con esponenti del Pd romano. Al suo quinto giorno di esame davanti ai
giudici della decima sezione penale del tribunale di Roma, Salvatore
Buzzi è ancora un fiume in piena. Il «ras» delle cooperative, in
collegamento video dal carcere di Tolmezzo, racconta dei suoi affari con
il Campidoglio all’epoca dalla giunta Marino.
«Per l’approvazione del debito fuori bilancio legato al servizio di
accoglienza per i minori non accompagnati ci siamo rivolti a Coratti»,
ha detto Buzzi, rispondendo alle domande dei suoi avvocati, Pier Gerardo
Santoro e Alessandro Diddi. «Coratti - ha proseguito - ci ha chiesto
100mila euro in chiaro per far approvare la delibera del debito fuori
bilancio creato nel semestre gennaio-giugno 2013. Io avevo il 26%, il
restante apparteneva ad altre cooperative e tutti eravamo al corrente
che dovevamo dare 50mila euro a Coratti e 50mila euro a D’Ausilio:
praticamente l’1% della delibera da 11 milioni». «Un accordo
corruttivo», il primo di una serie di tre stretti con Coratti, che per
Buzzi sembra non prendere comunque la giusta piega. «L’accordo lo
prendemmo io e Francesco Ferrara con Coratti - spiega Buzzi - ma quando
arrivammo a maggio 2014 lo stesso Coratti mi disse che di queste cose
non ne dovevo parlare più con lui ma con D’Ausilio». La voce del
pagamento dei 100mila euro in chiaro, però, comincia evidentemente a
circolare. «Mi chiama Luca Giansanti, capogruppo della lista Marino e mi
dice: "e noi?" Quindi, l’8 agosto, mi chiede di passare in commissione
Bilancio. In giunta non c’era problema perché il sindaco Marino è
onestissimo e non ci ha mai chiesto nulla. Alfredo Ferrari del Pd,
presidente commissione Bilancio, e Giansanti mi dicono se non ci dai
30mila euro non va in porto. Su questa vicenda, alla fine, non abbiamo
pagato nessuno perché ci hanno arrestato».
Altri due episodi sui quali si dilunga Buzzi sono quelli relativi
all’ex presidente del decimo municipio, Andrea Tassone. «Inizialmente
Tassone mi chiamava e io evitavo di incontrarlo, perché ogni volta mi
chiedeva di assumere qualcuno - ha raccontato Buzzi - Il 7 maggio 2014,
comunque, mi presenta Paolo Solvi come un suo uomo. Mi disse che gli
servivano un sacco di soldi per la campagna elettorale, e che mi avrebbe
affidato un lavoro di potature in cambio di 30mila euro. Voleva i soldi
in nero perché doveva pagare la campagna elettorale e concordai 26mila e
500 euro, il 10% di 264mila euro della gara». «Ho pagato una tangente a
Tassone e a D’Ausilio anche per la gara per la pulizia delle spiagge di
Ostia - ha poi aggiunto Buzzi - il 10% sui 122mila euro della gara».
E se Buzzi sembra ammettere senza scomporsi dazioni di denaro e
tangenti, si infervora quando arriva il momento di parlare dell’ex
vicesindaco Nieri (non indagato) e di altri politici Pd che, a suo dire,
hanno preso le distanze da lui dopo il suo arresto. «Vergognati Nieri,
vergognati - tuona Buzzi - Mi arrabbio per gli amici che ti conoscono da
trent’anni e non ti difendono. Vengono qui a dire "speriamo che la
giustizia trionfi". Perché non sei andato da Pignatone a dire che hanno
preso un abbaglio? Gli amici si vedono nel momento del bisogno». «Nieri -
ha affermato Buzzi - ci chiese di fare il servizio di guardiania per
una villa a Monte Mario che era stata destinata a Suor Paola. Era il
corrispettivo per l’accordo sull’acquisto della sede della 29 Giugno a
prezzo scontato, nel contesto della dismissione del patrimonio del
Comune. A Nieri gli ho assunto più di venti persone». Un’ultima bordata,
Buzzi la riserva a Matteo Orfini: «Ho fatto la Città dell’altra
economia, Orfini ne beneficiava quando chiedeva la sala convegni.
Nessuno pagava, solo Grillo. Nemmeno 200 euro per la sala».
In merito alla vicenda legata all’acquisto degli appartamenti della
cooperativa San Lorenzo, Buzzi ha invece tirato in ballo la LegaCoop.
«Ho comprato gli appartamenti perché me lo ha chiesto Legacoop - ha
spiegato - Mi chiamò il presidente LegaCoop Lazio, Venditti, e mi disse
che ne aveva parlato con Poletti. Andai a Bologna a parlare con il
direttore generale di Unipol e mi mise a disposizione 4 milioni.
Legacoop mi ha ordinato di comprare e io ho eseguito perché sono un
soldato».
Sul tema dell’immigrazione illegale in Italia due elementi emersi
negli ultimi giorni rischiano di scoraggiare le speranze di riuscire a
fornire risposte concrete che tutelino i nostri interessi nazionali. Il
primo è un dato oggettivo, reso noto dal Ministeri degli Interni e che
rivela come dall’inizio dell’anno al 5 marzo siano sbarcati in Italia
dalla Libia 15.844 migranti, il 74,09% in più rispetto ai 9.117 dello
stesso periodo dell’anno scorso
Ancora una volta sui tratta di persone, per lo più uomini adulti e in
buone condizioni fisiche che non fuggono da guerre o carestie e sono
benestanti per gli standard dei loro paesi di origine (Guinea, Nigeria,
Costa d’Avorio, Gambia, Senegal, Marocco, Malì, Sierra Leone e Camerun e
Bangladesh). Si tratta d migranti economici che non avrebbero alcun
titolo per essere accolti in Italia in base alla Convezione di Ginevra
sui Rifugiati, persone in gran parte da espellere anche secondo
l’agenzia europea Frontex e lo stesso governo italiano che pure continua
a consentire lo sbarco in Italia a chiunque paghi i trafficanti.
L’incremento dei flussi registrato nei primi 65 giorni del 2017 può
essere attribuito a diversi motivi: le buone condizioni del mare, forse
il timore dei trafficanti che presto Roma si decida a bloccare gli
accessi al territorio nazionale e infine un incremento degli immigrati
portati in Italia dalle imbarcazioni delle numerose organizzazioni non
governative che, a differenza di quelle militari, operano ormai a
ridosso se non all’interno delle acque territoriali libiche al punto che
la stessa Frontex ha raccomandato un’indagine sul loro operato
sospettando un’intesa, tacita o meno, con i trafficanti.
Il secondo elemento emerso recentemente riguarda la valutazione
espressa dal Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, secondo il quale
il problema dell’immigrazione illegale non lo risolve neppure Mago
Merlino e in Senato ha detto che l’obiettivo da perseguire è frenare “i
migranti in procinto di attraversare il mare” per “regolare i flussi”.
Dichiarazioni che hanno il sapore della resa incondizionata, che
certo incoraggeranno altri milioni di africani a partire e i trafficanti
a procurarsi altri gommoni e barconi per aumentare anche quest’anno gli
incassi che nel 2015 erano stimati da Europol in 6 miliardi di euro.
Che differenza con la comunicazione attuata negli anni scorsi dal
governo australiano che con la campagna “No way” e l’operazione
Sovereign Borders” (“confini sovrani”, termine che nell’Europa di oggi
rischia quasi di suonare reazionario) riporta nelle acque di partenza le
imbarcazioni di migranti illegali scoraggiandone i flussi e impedendo
migliaia di morti in mare.
Chiamare in causa Merlino o altri maghi, anche se come battuta,
scoraggia invece quegli italiani che si aspettano che la politica cerchi
e trovi soluzioni combattendo con determinazione l’illegalità per
stroncarla, non per frenarla o regolarla. Eppure non mancano opzioni
diverse dal consentire a tutte le navi militari e civili di qualunque
nazionalità di sbarcare in Italia gli immigrati illegali la cui
accoglienza genera un giro d’affari che quest’anno supererà i 4 miliardi
di euro. Proviamo a prenderne in esame alcune.
La Marina italiana e la flotta europea potrebbero attuare
“respingimenti assistiti”, raccogliendo in mare i migranti già nelle
acque libiche, evitando naufragi e migliaia di vittime ogni anno. Sulle
navi militari si potrebbero separare bambini soli e persone bisognose di
cure da trasportare in Italia (e poi rimpatriare esercitando pressioni
anche economiche sui paesi d’origine) da tutti gli altri da riportare
immediatamente sulle spiagge libiche.
Un’operazione da attuare impiegando mezzi da sbarco e scorta militare
con una nave da guerra a protezione di quel tratto di spiaggia. I
flussi cesserebbero nel giro di una settimana poiché nessuno pagherebbe
più i trafficanti sapendo che si ritroverà in Africa. Inoltre l’Onu
sarebbe obbligato a intervenire in Libia per rimpatriare i 400 mila
migranti che secondo le stime sono in attesa d imbarcarsi.
Il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, ha ribadito che per
penetrare con le flotte nelle acque libiche occorre il via libera del
governo libico o dell’Onu. In realtà statunitensi, emiratini, egiziani e
algerini hanno condotto azioni belliche in Libia senza chiedere
permesso a nessuno e l’Italia ha tutto il diritto di “respingere al
mittente” le minacce provenienti da un territorio fuori controllo quale
la Libia.
Inoltre il ministro degli Interni Marco Minniti ha firmato un accordo
col premier libico riconosciuto, Fayez al-Sarraj, che ha poche speranze
di concretizzarsi anche quando avremo addestrato i 500 uomini della
Guardia costiera libica fornendo loro 10 motovedette. Al-Sarraj non
controlla neppure Tripoli e le milizie che lo sostengono sono in parte
le stesse che si arricchiscono con i traffici di esseri umani.
Inoltre i 500 marinai libici divisi in turni di 8 ore, e al netto di
un assenteismo endemico da quelle parti nell’impiego pubblico, potranno
garantire al massimo la presenza di un centinaio di uomini con poche
motovedette in mare per coprire centinaia di chilometri di costa e che
speriamo vengano usate contro i trafficanti e non per catturare i
pescherecci di Mazara del Vallo in acque internazionali.
Perché allora non subordinare il sostegno di Roma ad al-Sarraj al via
libera di quest’ultimo ai respingimenti dei migranti illegali? Certo
varare i “respingimenti assistiti” richiederebbe coraggio e
determinazione politica “all’australiana” ma vi sono anche opzioni più
“morbide”.
Il diritto internazionale obbliga a soccorrere in mare gli immigrati
illegali e a sbarcarli nel “porto sicuro più vicino” …. che non è mai
stato un porto italiano!
I porti maltesi e tunisini sono molto più vicini ma La Valletta, pur
se membro della Ue, non ha mai accolto migranti che turberebbero la
“vocazione turistica” della sua economia e Tunisi non vuole saperne
perché teme restino poi all’interno dei suoi confini.
Convincere la Tunisia, anche con aiuti finanziari, ad accettare che i
migranti vengano sbarcati nei suoi porti e poi rimpatriati dall’Onu
(come accadde nel 2011 per un milione di lavoratori stranieri in fuga
dalla guerra civile libica) determinerebbe la fine dei flussi illegali
perchè nessuno acquisterebbe dai trafficanti un “biglietto” per Tunisi.
Non mancano quindi soluzioni diverse dal subire i “diktat” di chi si
arricchisce (su entrambe le sponde del Mediterraneo) con i traffici
migratori ma occorre che la politica si assuma le sue responsabilità
invece di appellarsi ai maghi.
Foto: Frontex, MSF e Marina Militare
Gianandrea Gaiani - 13 marzo 2017
fonte: http://www.analisidifesa.it
Avete presente quella cosa lì chiamata Italia?
Fa acqua da tutte le parti e non solo perché è una penisola. Ma tutto
di questo paese non va: la politica, l’economia, la bioetica, l
giustizia, l’ordine pubblico, il fisco, perfino l’anagrafe e la
demografia, considerata la prevalenza record di vecchi e di morti sui
nati e sui giovani.
Poi, invece, ti guardi da lontano,
per esempio con gli occhi di un americano e scopri che l’Italia è la
nazione leader al mondo per influenza culturale. Non traffico
d’influenze, come si dice nella cronaca giudiziaria di questi giorni,
no, proprio influenze culturali.
È passata inosservata questa notizia,
che per la rivista Us News l’Italia ha strappato quest’anno lo scettro
di leader culturale del mondo alla Francia e agli stessi Stati Uniti che
sono al terzo posto dopo le due sorelle latine. Cos’è poi l’influenza
culturale?
È l’appeal dell’Italia, il fascino,
l’attrazione che esercita in vari campi e per varie motivazioni: dalla
cucina alla moda, dall’arte alla cultura, dalla natura al clima, dai
geni che ha generato ai suoi centri storici, per non dire dell’incrocio
unico di impero romano, cristianità e civiltà mediterranea.
Diciamolo con parole nostre: il Mito dell’Italia è ancora il più forte del mondo.
Se cerchiamo un punto di ripartenza per il nostro Paese,
o se preferite un punto estremo di resistenza al suo declino finale, e
di consolazione nazionale eccolo, è lì: è quella classifica, dove al
nostro seguito dopo il francesi e gli americani, ci sono nell’ordine la
Spagna, il Regno Unito, il Giappone, la Svizzera, il Brasile, la Svezia e
l’Australia.
Non ci sono paesi giganteschi come
la Cina, l’India e la Russia e questo è un mistero o forse un
pregiudizio occidentale. E la leadership tra i continenti resta ancora,
nonostante tutto, la nostra Europa. L’Unione europea ce l’ha messa tutta
ma non è riuscita a sopprimere l’influenza europea nel mondo.
Ma fa colpo che quella striscetta curva e penzolante nel Mediterraneo,
così piena di guai, sia la regina del mondo, la più influente della
Terra. Trump ha di recente condensato il suo programma di governo in un
motto, Prima l’America; ma l’Italia è già prima di suo, senza che lo
dicano Mattarella, Renzi o Gentiloni. Anzi lo è nonostante loro, e
malgrado la sua volontà. Lo è naturaliter, culturaliter…
Se riuscissimo a costruire un sistema paese,
un sistema politico e sociale, una visione culturale, su quel punto di
eccellenza, svolteremmo davvero. Poi vedi il grigiore della quotidianità
e i suoi protagonisti assoluti e hai l’idea che stai parlando di un
altro paese, questo è la caricatura del precedente, il fratello scemo e
malandrino…
Ma è lì, dalla nostra grandezza, dal
nostro marchio d’origine, dalla nostra esemplare civiltà, dalla nostra
spiccata personalità nazionale che torreggia a livello mondiale, che
dobbiamo ripartire anche se ancora non abbiamo capito come.
Il problema è trovare chi saprà tradurre quel primato,
quel mito in politica, governo e vita quotidiana. Ossia chi farà
diventare normale l’eccezionalità italiana e farà del miracolo italiano
il prodigio di ogni santo giorno.
E’ passata dal volersi uccidere nel
nome di dio al voler dare la vita agli uomini in Suo nome, fino a
rischiare la propria pelle per le rivelazioni circa la strategia della
Jihad a cui apparteneva. L’ex musulmana Isik Abla, prima residente in
Turchia e poi scappata in America dal secondo marito, violento come il
primo, ha mostrato al Christian Post il piano con cui gli
islamisti pensano di conquistare l’Occidente. Alma ha così messo in
chiaro che le preoccupazioni sull’immigrazione non sono da minimizzare,
spiegando che non si può ridurre il problema agli attentati in Occidente
come si trattasse di un'azione circoscrivibile a certe schegge
impazzite. Infatti, insieme alla violenza manifesta, esiste
un'operazione più subdola e pericolosa: “Esiste un’educazione alla Jihad
– ha spiegato Abla - c’è una popolazione della Jihad, un sistema
mediatico della Jihad e un sistema economico della Jihad”.
E' un dato, ha continuato la donna, che “ci sono diversi tipi di jihad integrati
al mondo occidentale di oggi”. E se “quando ero una musulmana fanatica,
credevo nella Jihad fisica, perché “primariamente e soprattutto se sei
un vero musulmano e se studi il Corano devi credere che la jihad fisica
sia necessaria perché non c’è nulla come uccidere, dice il Corano”,
d’altra parte però la Jihad non è solo questo. Infatti, “io facevo parte
di una Jihad diversa. Era una Jihad educativa che vivevo attraverso il
mio primo marito musulmano perché la sua famiglia supportava la Jihad”.
Questa guerra santa avviene tramite “il pagamento delle lezioni agli
studenti per inviarli nelle università più rinomate e prestigiose del
mondo occidentale. Pagano l’educazione ad Harvard, la pagano a
Princeton, a Yale. Noi elargivamo soldi a questo tipo di educazione
jihadista, affinché le persone potessero raggiungere le più alte cariche
di potere per governare quello che deve avvenire in Occidente e per
islamizzare il mondo occidentale. Questo è un tipo di islam ideologico a
cui io appartenevo”.
A 12 anni, conclusi gli studi sul Corano, Abla sognava già di morire martire per Allah e didiventare
così un’eroina, perché “questa è l’ideologia che l’islam inculca in
ogni singolo musulmano”. La donna, fuggita negli Stati Uniti, trovò un
lavoro dove aveva come capo un fervente cristiano che le parlava sempre
di Gesù. La donna era seriamente colpita dalla gioia e dalla serenità di
quell’uomo, anche se poi, disperata e sola, pensò comunque di
uccidersi: “Ma quando stavo per suicidarmi Gesù Cristo mi si mostrò in
un modo miracoloso che ha completamente cambiato la mia vita”.
Ora la missione di Abla è anche quelladi “minare le fondamenta della presentazione
dell’islam come pacifico, perché è un inganno terribile. Non capisco
come il mondo occidentale non riesca a capirlo. Direi che è ingenuo, ma
penso che sia idiota non comprendere che l’islam non ha nulla a che fare
con la pace”. Anche se spesso l’apparenza può ingannare: “Ero una di
loro. Apparivo moderna, questa è la parte più preoccupante dell’islam di
oggi, che i suoi individui possono apparire molto moderni. Possono
apparire molto occidentali, come me. Ma se mi avessero detto di uccidere
nel nome di Allah mi sarei messa in prima linea”.
Eppure non è arrabbiata, non nutre rancore né odio a causa del suo passato, come si
potrebbe provare a sostenere per minimizzare la sua testimonianza. Abla
non pensa nemmeno che le persone islamiche, dotate di cuore e ragione,
non possano comprendere che la pace è ciò di cui hanno veramente
bisogno. Per questo evangelizza anche conducendo una trasmissione tv e
una radiofonica, in turco, arabo, urdu, farsi e inglese, che raggiunge
370 milioni di persone in 150 paesi. Evangelizza, appunto, perciò non
tace la verità: “Trova il tuo scopo e la tua identità in Dio – ripete
alla sua audience. Quando vedi che l’islam uccide e che i musulmani
uccidono fatti questa domanda come musulmano, guardati intorno e
domandati: “E’ questo Dio? Può essere questo Dio? Può essere questo il
Creatore?”. Per la stessa ragione Abla spiega anche perché è
“anticristico e umanitarista” dire che tutti preghiamo lo stesso Dio:
“Quando siamo in Gesù Cristo e conosciamo la Parola di Dio, diciamo che
esiste un solo nome e il suo nome è Yeshua Hamashiach (Gesù il Messia).
Devi capire chi stai servendo e qual è il tuo scopo. Perché senza di Lui
non sai chi sei e non sai perché ci sei”.
Nessuno
vuole più figli, eccetto gay e anziani. E via con uteri in affitto,
maternità surrogate, eterologa. Politica ferma e i pm "corrono"
Il mondo capovolto, il diritto a rovescio,
l'Italia a testa in giù. I figli non li vuole più nessuno eccetto i gay,
le lesbiche e le donne anziane. E via con gli uteri in affitto, le
maternità surrogate, l'eterologa, le adozioni di coppie dello stesso
sesso. E se la politica tentenna, la magistratura accelera, non applica
le leggi ma le crea. A passo di carica, come non accade per la gran
parte dei processi. Ma è sempre colpa della legge che non c'è, la legge
come la vogliamo noi; e allora il giudice pietoso con sensibilità
sartoriale, l'inventa su misura, per l'occorrenza. Se un medico è
obiettore di coscienza sull'aborto allora si assumono solo medici
abortisti, e intanto spopolano il suicidio assistito e l'eutanasia, c'è
una vasta tifoseria per i morituri volontari: perché il diritto di
vivere di chi nasce si può negare ma non si può nemmeno discutere il
diritto di morire a norma di legge, col consenso del prete e con
l'aiutino di Stato. Si possono strappare i figli ai genitori, i nipotini
ai nonni, ma vanno autorizzati i figli comprati dalle coppie omosex. Si
affrettano i tribunali di Roma, di Firenze e di Trento - quegli stessi
tribunali dove tanti processi anche urgenti languono per anni - ad
assicurare adozioni e figli di uteri affittati a coppie omosessuali; si
mette in marcia il Parlamento per votare il primo step dell'eutanasia,
per ora nella forma rassicurante di testamento biologico. Poi per gradi
si arriverà al resto. Quella è la strategia: prima si agitano casi
estremi per colpire l'immaginazione popolare, poi si allarga ad altri
casi, s'invoca una nuova norma ad hoc e infine si dilata la regola a
dismisura. Così accade con la droga, coi migranti clandestini e con
tutti i danni collaterali, inclusi i furti in casa. La colpa non è mai
della droga ma di chi ne impedisce l'uso, non è colpa di chi si droga ma
della mamma che vi si oppone, non dei clandestini ma di chi li chiama
clandestini, non di chi ruba in casa ma di chi si difende in casa
propria. Il diritto è diventato il rovescio e chi si oppone viene
accusato di sessismo, razzismo, fascismo o xenofobia. Alla fine il
criminale sei tu, che subisci o denunci il fatto.
Ma cos'è questa voglia insana di rovesciare la natura, la storia
della civiltà, la legge, la realtà e l'umanità come finora è stata
concepita? Cos'è questo desiderio di far saltare la famiglia, la
maternità, la paternità, la nascita, la vita e la morte, nelle forme
finora conosciute? È possibile che una generazione nel giro di pochi
anni smantelli il tessuto millenario di una civiltà giuridica e
religiosa, civile e naturale, fondata sulla famiglia? Chi siamo noi,
viventi, per ergerci con infinita presunzione a giudici dell'umanità di
tutti i tempi e a decidere che finora gli uomini si erano sbagliati ma
adesso arriviamo noi e rimediamo agli errori della storia e della
natura, dell'esperienza secolare e della vita di generazioni e gridiamo
il nostro «tana» salvatutti?
Come altro possiamo chiamare questo delirio ideologico, scientifico,
giuridico se non una forma virale e distruttiva di pazzia? Stiamo
perdendo il senso del limite, stiamo allevando mostri geneticamente
modificati, siamo in piena frenesia di dismisura, vogliamo abbattere i
confini tra sessi, limiti d'età e di natura, popoli e desideri. Se ha
ragione Schopenhauer, è la natura che sta decidendo di farla finita e si
serve della sterilità diffusa, delle pulsioni di morte e di
autodistruzione, della stessa omosessualità elevata a modello di vita,
per portare all'estinzione l'umanità.
Complimenti, signori, quel che non riuscì a guerre, armi atomiche,
rivoluzioni sanguinarie e regimi totalitari, potrà riuscire a voi,
pacifisti e libertari, nel nome dei diritti, del progresso e della
stessa umanità.
La piazza pro immigrazione del partito dell’Anti Nazione. Il nemico dei
sinistri resta l’Italia e il suo popolo. Serve un’opposizione libera da
paure e sensi di inferiorità culturale è il tempo di un fronte degli
italiani di Roberto Pecchioli
La piazza pro immigrazione del partito dell’Anti Nazione
Il
candidato alla segreteria Andrea Orlando, benché relativamente giovane –
è del 1969 – è il classico vecchio comunista ligure. Cresciuto fin da
adolescente nelle sezioni del Bottegone, parla spesso delle sue giornate
di venditore porta a porta dell’Unità. I comunisti liguri si
distinguono dagli altri per un inossidabile stalinismo, per una sorta di
mistica operaista fuori tempo massimo, nonché per una speciale
inclinazione ad un rancoroso pedagogico moralismo verso il nemico di
classe, mai rielaborato come semplice avversario.
Orlando,
che è ministro di Giustizia, ha proposto una manifestazione a favore
degli immigrati, affermando che, oltre all’inevitabile “solidarietà”,
rappresenterebbe un forte segnale identitario della sinistra. Con
prudenza, da parte renziana le prime risposte sono freddine, ma non c’è
dubbio che la mobilitazione ci sarà. Quel che resta dell’Unità titola
trionfante, a proposito dell’iniziativa di Orlando, “Noi non abbiamo
paura”. Per loro, l’unico sentimento diverso dal razzismo che
riconoscono agli avversari dell’immigrazione massiva nonché apertamente
sostitutiva è la paura. Del diverso, dell’altro da sé, forse dell’uomo
nero.
Non
sono cambiati, i compagni. In psicologia il termine “bias” indica un
tunnel della mente, una griglia interpretativa non necessariamente
corretta attraverso la quale si filtrano le informazioni possedute in
modo da porre maggiore attenzione su quelle che confermano le proprie
convinzioni. Confessiamo di avere un personale bias da mezzo secolo,
cioè dall’infanzia: comunisti e sinistri di tutte le specie sono quelli
che stanno sempre dalla parte di quegli altri.
Nel
lontanissimo 1966, in vacanza tra i monti toscani, in una zona operaia
dove il roccioso PCI aveva almeno il 60 per cento dei consensi, un
bambino di pochi anni che oggi scrive queste righe piangeva perché la
nazionale italiana di calcio perdeva ai mondiali in Inghilterra.
Soprattutto, non capiva come mai la stragrande maggioranza delle persone
ne fosse invece tanto felice, esultante al famoso gol della Corea del
Nord ed alla vittoria dell’Unione Sovietica contro gli azzurri. Il babbo
spiegò faticosamente che quelli erano comunisti, come l’URSS ed i
piccoli coreani. La conclusione di quel bimbo fu che i comunisti erano
nemici “nostri” e dell’Italia. Il papà reduce di guerra rispose al
figlio che era proprio così.
Stanno
sempre dalla parte opposta: l’invidia per chi costruisce qualcosa e ne
gode i frutti, il disprezzo della civiltà in cui sono nati, l’odio vero e
proprio per ciò che non corrisponde agli schemi mentali precostituiti
ed indiscutibili dell’Intellettuale Collettivo non sono affatto
cambiati. Stavano con l’URSS che aveva missili puntati contro le nostre
case, detestavano la bandiera ed i simboli nazionali; formavano veri e
propri cordoni sanitari, sul lavoro, nei confronti di chi non fosse
iscritto al loro sindacato, deridevano chi la domenica frequentasse la
messa. Oggi, hanno due idoli: gli omosessuali e gli immigrati. E poiché
anch’ essi hanno i loro “bias”, chi non la pensa come loro può soltanto
essere un malvagio o un soggetto pervaso da paure illogiche o
irrazionali. Loro, che hanno capito tutto, continuano a ragionare in
termini psichiatrici: l’altro deve essere un pazzo, un fobico, oppure,
se gli viene riconosciuta la sanità mentale, è un volgare o prezzolato
difensore di sporchi interessi.
Intanto,
è servito chi avesse creduto alla ridicola panzana del Partito della
Nazione. Il ministro di giustizia si schiera a favore degli stranieri e
contro i connazionali, colpevoli, presumiamo, di non accordare il 100
per cento dei voti al Botteghino democratico, che nel cuore e nell’anima
sua e di moltissimi altri non è che il PCI che ha cambiato all’anagrafe
un nome divenuto imbarazzante ,non più finanziato in rubli sovietici,
ma in ottimi dollari dei finanzieri senza terra. Dettagli,
evidentemente.
Il
nemico dei sinistri resta l’Italia, il suo popolo, la civiltà europea.
L’attitudine nei confronti dell’immigrazione ne è la plateale conferma.
Occorre, a dire il vero, un’autocritica, o almeno una precisazione di
capitale importanza, in materia.
E’
giusto e saggio opporsi all’immigrazione, specialmente nella misura e
con le modalità di cui siamo spettatori e vittime, ma mantenendo il
rispetto umano per l’immigrato. Il nemico non è lui, ma l’enorme
apparato economico, finanziario, ideologico che impoverisce vaste aree
della terra, fomenta, anzi organizza guerre, carestie, sfruttamento per
poi promuovere immensi movimenti di masse umane verso il Nord del
pianeta. E’ la legge dell’acqua, si va dove si può bere.
Dunque,
difendere se stessi dall’invasione non è paura, o cattiveria, ma amor
proprio, rispetto di chi si è stati e di ciò che vorremmo lasciare in
eredità. E’ anche elementare prudenza e buon senso, giacché la capacità
di ospitare, assorbire, integrare stranieri è ampiamente esaurita. Non
siamo tanto ingenui da accettare in toto l’equazione meno stranieri
uguale meno disoccupazione, meno delinquenza. E’ del tutto evidente che
in alcuni settori, come l’assistenza alla persona, gli stranieri colmano
vuoti e risolvono problemi. In molti altri, al contrario, essi
alimentano la corsa al ribasso, lo schiavismo, il nuovo rivoltante
caporalato, il dumping sociale che permette a troppi di pagare
cinque, quattro, tre euro per un’ora di lavoro in tanti settori. Poi ci
sono l’enorme impatto sulla prostituzione, con sconvolgente riduzione in
schiavitù, sulla criminalità alimentata dal disagio sociale (oltreché
dall’impunità che dovrebbe spiacere ad Orlando ministro della
giustizia), e sorvoliamo sugli incalcolabili costi economici in materia
di sanità, assistenza, previdenza, rimesse di miliardi nei paesi
d’origine.
Resta,
drammatica, la domanda psicologicamente scorretta, forse il nostro
bias. Perché preferiscono gli stranieri ai connazionali? Innanzitutto
perché “quelli” detestano la nazione, e lavorano attivamente, specie
quando indossano fasce tricolori o altre vesti istituzionali, per
affossarla. Un altro motivo, bassamente legato al consenso, è che gli
stranieri sono il goloso bacino elettorale del futuro prossimo, e,
ragione ancora più terra terra, votano alle primarie del PD. Il passato
ne è la prova: cinesi a Milano, sudamericani a Genova, zingari anzi
nomadi rom un po’ dappertutto, i vuoti lasciati dagli italiani vengono
riempiti dai faccendieri democratici mobilitando i capi bastone di
comunità estere beneficate in vario modo a spese nostre.
Più
in profondità, tuttavia, trionfa l’odio di sé, il rancore antico nei
confronti della civiltà e della cultura europea ed italiana, mascherato
da internazionalismo, solidarietà, filantropia. Sono i bigotti di una
religione secolare che non ammette eretici o miscredenti, quella dei
Diritti, dell’Universalismo, dell’Umanità. Tutto, sempre, in lettere
maiuscole, lo impone il senso della Storia!
Orlando
e l’Unità assumono come modello una recente manifestazione tenuta a
Barcellona in nome dell’accoglienza. Fingono di ignorare che in
Catalogna le mobilitazioni di piazza degli ultimi anni hanno tutte un
convitato di pietra, il secessionismo anti spagnolo declinato in odio
per la patria comune sino alla preferenza per gli stranieri. In questo
concordano tanto la forte sinistra locale quanto la borghesia mercantile
e finanziaria che detesta Madrid. Lì, almeno, è chiara quanto
paradossale l’alleanza tra un acceso nazionalismo locale ed una sinistra
nipote della guerra civile accecata dall’avversione per lo stato
nazionale. Da noi, le cose sono in fondo più semplici: l’immigrazione ha
molti amici, non solo a sinistra e non solo in chiesa, e poi c’è un
popolo. Forse…
Il
punto, l’enigma da risolvere è se questo popolo che è il nostro voglia
vivere, se preferisca ancora se stesso al Grande Altro che avanza. In
questo senso, l’iniziativa di Orlando potrà almeno servire a chiarire le
idee, definendo gli schieramenti.
E’
fortissimo, diffuso e trasversale il Partito dell’Anti Nazione. Serve
un’opposizione, libera da stupide paure, da sensi di inferiorità
culturale, lontana dalle menzogne politicamente corrette. E’ il tempo di
un fronte degli italiani che amano, preferiscono, difendono se stessi.
Quando, se non adesso? L’alternativa è tra vita e suicidio. Non è detto
che quest’Italia preferisca se stessa, ma dobbiamo costringerla alla
scelta.
L’amore
di sé, l’identità, a rigore di psicologia cognitiva, forse non sono che
un “bias di conferma”, una semplice griglia interpretativa di credenze
che permettono di vivere. Secondo i soliti studiosi progressisti, si
tratta di un pregiudizio che coinvolge anche persone intelligenti ed
aperte, ma, rispondiamo noi, è quello che ci rende ciò che siamo.
Se
poi l’intelligenza e l’apertura significano essere nemici di se stessi,
evviva la chiusura mentale ed il basso Q.I. (quoziente intellettivo).
Almeno, permette di essere diversi da Orlando, Laura Boldrini e
monsignori vari.
Matteo Salvini ha scritto, a Napoli, una pagina di storia. Lo
ha fatto anche grazie all’aiuto del sindaco Lugi De Magistris, la cui
rozzezza istituzionale ha fatto da cassa di risonanza all’iniziativa del
leader leghista. Non v’è dubbio che la sfida della Mostra d’Oltremare
avesse, nelle intenzioni del proponente, molte valenze. Esterne e
interne al suo partito.
A Napoli è stata segnata una tappa decisiva del riposizionamento
strategico avviato da Salvini già all’indomani della sua elezione a
segretario della Lega. Il processo di riconversione dell’orizzonte
politico leghista da movimento di rivendicazione localista a partito
sovranista di respiro nazionale costituisce la fase propedeutica a una
possibile candidatura alla premiership. Salvini sa bene che non si può
ambire alla guida del Paese se non si è in grado di rappresentarne tutte
le aree geografiche, non solo alcune. Non è impresa facile giacché vi è
un vissuto ultradecennale di ostilità della Lega verso il Meridione. È
pur vero che Salvini, in questi anni, ha lavorato di cesello cercando di
tracciare intese sul piano pragmatico della difesa degli interessi
comuni tra comunità del Nord e del Sud, bypassando le classi dirigenti
locali e parlando direttamente ai cittadini. Pescatori, agricoltori,
artigiani vessati dall’Unione europea, piccoli imprenditori massacrati
dagli studi di settore, pensionati e pensionandi vittime della
“Fornero”, persone comuni da tutelare dagli abusi del potere, senza
differenze a tutte le latitudini.
Mancava però, al suo racconto, il tassello centrale, la chiave di
volta della costruzione: l’incontro con Napoli. La città di Partenope
non è, per l’immaginario collettivo, una metropoli qualsiasi: è la
capitale storica e morale di un mondo, di una cultura, che incarna, nel
bene e nel male, l’essenza della civiltà mediterranea. Napoli non è a
sud: è il Sud. Venire a proporsi da protagonista sulla scena napoletana è
stato infrangere un tabù. Ha fatto un certo effetto sentirlo
pronunciare un molto kennediano: “Napoli è casa mia”. Nondimeno, ha
sorpreso la sintonia con la platea di gente accorsa ad ascoltarlo. Una
curiosità da applausometro: dopo l’ovazione riservata al leader,
l’esplosione di entusiasmo più fragorosa si è avuta quando sullo schermo
del palco è apparsa la foto di Marine Le Pen: è venuta giù la sala. Non
v’è dubbio che via sia anche calcolo opportunistico nella scommessa
salviniana. Lo sfaldamento dei partiti tradizionali, a destra e a
sinistra, ha aperto praterie di consenso nell’elettorato napoletano che
non possono essere pascolo del populismo prevaricatore di De Magistris e
dei suoi pretoriani dei centri sociali e men che meno dei grillini.
Di là dalla propaganda i numeri delle elezioni ultime comunali
restituiscono la fotografia di una città delusa che si tiene lontana
dalla politica. Su quella massa di scontenti, sensibile alle tematiche
securitarie, dell’immigrazione incontrollata, delle politiche per la
lotta alla crisi economica e alla povertà, sabato scorso Salvini è
venuto a iscrivere la sua ipoteca. Ma la sfida napoletana guardava anche
ai difficili equilibri in casa leghista. Non tutti nella Lega la
pensano come il “capitano”. C’è Umberto Bossi che è tornato a farsi
vedere per tentare di segare il ramo dal quale Salvini prova a cogliere i
frutti della sua semina. I dissidenti del Carroccio speravano in un
passo falso a Napoli per scatenare una rapida resa dei conti
congressuale. È andata male ai “gufi in verde” perché il “capitano” l’ha
sfangata e ora può guardare con maggiore tranquillità al suo progetto
di allargamento al Sud.
Intanto, oltre l’osso delle solite parole d’ordine, non è mancata la
ciccia politica, concentrata nelle battute finali del suo intervento.
C’è stata un’apertura importante, sebbene criptata nel messaggio, a
Silvio Berlusconi. Il “capitano” prima della standing ovation finale si è
lasciato scappare due cosette non da poco. La prima: fatemi fare il
ministro dell’Interno e vedrete se in sei mesi non rimetto a posto la
situazione. E poi: mi interessa che qualsiasi coalizione di centrodestra
si faccia metta avanti l’impegno a sostenere prima gli italiani, poi di
primarie, secondarie o altro non m’interessa. Tradotto: se non sarà lui
il candidato premier non ne farà un dramma e sulle primarie non intende
rompersi la testa. Se non è apertura di dialogo questa?
E’ in corso la campagna contro il nuovo presidente degli Stati Uniti,
condotta dagli stessi sponsor di Barack Obama, Hillary Clinton e della
distruzione del Medio Oriente. Dopo la marcia delle donne del 22
gennaio, è previsto che si tenga una marcia per la scienza non solo
negli Stati Uniti, ma anche in tutto il mondo
occidentale, il 22 aprile. L’obiettivo è dimostrare che Donald Trump
non è solo un misogino, ma anche un oscurantista. Il fatto che sia
l’ex-organizzatore del concorso di Miss Universo, e che sia sposato con
una modella al suo terzo matrimonio è sufficiente, a quanto pare, a
dimostrare che disprezza le donne. Che il presidente contesti il ruolo
svolto da Barack Obama nella creazione della Borsa Climatica di Chicago
(ben prima della sua presidenza) e che respinga l’idea che le
perturbazioni climatiche siano causate dal rilascio di carbonio
nell’atmosfera, attesta il fatto che non capisce nulla di scienza. Per
convincere l’opinione pubblica statunitense della follia del presidente –
un uomo che dice di desiderare la pace con i suoi nemici, e di voler
collaborare con loro per la prosperità economica universale – uno dei
più grandi specialisti di agit-prop (agitazione e propaganda), David
Brock, ha messo in campo un dispositivo impressionante già prima
dell’investitura di Trump.
Al tempo in cui lavorava per i repubblicani, Brock lanciò contro il
presidente Bill Clinton una campagna, che sarebbe poi diventata il
Troopergate, la vicenda Whitewater, e il caso Lewinsky. Dopo aver
voltato gabbana, è oggi al servizio di Hillary Clinton,
per la quale ha già organizzato non solo la demolizione della
candidatura di Mitt Romney, ma anche la sua replica nella vicenda
dell’assassinio dell’ambasciatore Usa
a Bengasi. Durante il primo turno delle primarie, è stato Brock a
dirigere gli attacchi contro Bernie Sanders. “The National Review” ha
qualificato Brock come «un assassino di destra che è diventato un
assassino di sinistra». E ‘importante ricordare che le due procedure di
destituzione di un presidente in carica, avviate dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono state messe in moto a vantaggio dello Stato Profondo, e non certo per il bene della democrazia.
Così il Watergate è stato interamente gestito da una certa “gola
profonda” che, 33 anni più tardi, si è rivelato essere Mark Felt,
l’assistente di J. Edgar Hoover, direttore dell’Fbi. Per quanto riguarda
la vicenda Lewinsky, era semplicemente un modo di forzare Bill Clinton
ad accettare la guerra contro la Jugoslavia.
La campagna in corso è organizzata sottobanco da quattro
associazioni. “Media Matters” (“i media contano”) ha il compito di dare
la caccia agli errori di Donald Trump. Leggete ogni giorno il suo
bollettino sui vostri giornali: il presidente non può essere
attendibile, si è sbagliato su questo o su quel punto. “American Bridge
21st Century” (“Il ponte americano del XXI secolo”) ha raccolto più di
2.000 ore di video che mostrano Donald Trump nel corso degli anni, e più
di 18.000 ore di altri video dei membri del suo gabinetto. Ha a sua
disposizione sofisticate attrezzature tecnologiche progettate per il
dipartimento della difesa, e presumibilmente fuori mercato, che le
consentono di cercare le contraddizioni tra le loro dichiarazioni più
datate e le loro posizioni attuali. Dovrebbe arrivare a estendere il suo
lavoro a 1.200 collaboratori del nuovo presidente. “Citizens for
Responsibility and Ethics in Washington – Crew” (“I cittadini per la
responsabilità e l’etica a Washington”) è uno studio di giuristi di alto
livello con il compito di monitorare tutto ciò che potrebbe fare
scandalo nell’amministrazione Trump. La maggior
parte degli avvocati di questa associazione lavorano gratis, per la
causa. Sono loro ad aver preparato il caso di Bob Ferguson, il
procuratore generale dello Stato di Washington, contro il decreto
sull’immigrazione (“Executive Order 13.769”).
“Shareblue” (“la condivisione blu”) è un esercito elettronico già
collegato con 162 milioni di internauti negli Stati Uniti. Ha il compito
di diffondere dei temi preordinati, ad esempio: Trump è autoritario e
ladro; Trump è sotto l’influenza di Vladimir Putin; Trump è una
personalità debole e irascibile, è un maniaco-depressivo; Trump non è
stato eletto dalla maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti, ed è
quindi illegittimo; il suo vicepresidente, Mike Pence, è un fascista;
Trump è un miliardario che sarà costantemente di fronte a conflitti di
interesse tra i suoi affari personali e quelli dello Stato; Trump è un
burattino dei fratelli Koch, i famosi elemosinieri dell’estrema destra;
Trump è un suprematista bianco e una minaccia per le minoranze;
l’opposizione anti-Trump continua a crescere fuori Washington; per
salvare la democrazia, cerchiamo di sostenere i parlamentari democratici che stanno attaccando Trump, e cerchiamo di demolire quelli che stanno collaborando
con lui; stessa cosa con i giornalisti; per rovesciare Trump ci vorrà
del tempo, quindi cerchiamo di non indebolire la nostra lotta.
Questa associazione produrrà newsletter e video di 30 secondi. Si
appoggerà ad altri due gruppi: una società che realizza video
documentari, “The American Independent”, e una unità statistica,
Benchmark Politics (ossia “politica comparativa”). L’insieme di questo
dispositivo – che è stato messo in campo durante il periodo transitorio,
cioè prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca – dà già lavoro
a oltre 300 specialisti a cui conviene aggiungere numerosi volontari.
Il suo budget annuale, inizialmente previsto nella misura di 35 milioni
di dollari, è stato aumentato fino a un livello di circa 100 milioni di
dollari. Distruggere l’immagine – e quindi l’autorità – del presidente
degli Stati Uniti, prima che abbia avuto il tempo di fare alcunché, può
avere gravi conseguenze. Eliminando Saddam Hussein e Muammar Gheddafi,
la Cia ha fatto precipitare questi due paesi in un lungo periodo di
caos, e la “terra della libertà” potrebbe gravemente soffrire da una
tale operazione. Questo tipo di tecnica di manipolazione di massa non
era mai stata utilizzata contro il capofila del mondo occidentale. Per il momento, questo piano sta funzionando: nessun leader politico al mondo ha avuto il coraggio di felicitarsi dell’elezione di Donald Trump, con l’eccezione di Vladimir Putin e di Mahmud Ahmadinejad.
(Thierry Meyssan, “Il dispositivo Clinton per screditare Donald Trump”, da “Megachip” del 5 marzo 2017).
Deserto Italia. Incominciamo dai dati che in questi giorni stanno
impazzando attraverso i media. Non generiamo più vita. Che scoperta.
Ogni donna partorisce 1,34 figli a testa, paurosamente sotto i 2,1 che
servirebbero per non farci scomparire, nel volgere di qualche
generazione, dalla faccia della terra in qualità di occidentali.
Occidentali’s Karma. Francesco Gabbani ha vinto
un festival, noi stiamo perdendo le nostre radici, compromettendo il
futuro. In Italia, nel 2016, sono nati 474mila pargoli contro i 486mila
del 2015. Siamo ai minimi storici dall’Unità d’Italia. I decessi, lo
scorso anno, sono stati 608mila, la mescolanza di numeri crea uno
scenario orrifico. Il monologo dell’orrore, da far impallidire quello di
Marlon Brando, nei panni del Colonnello Walter E. Kurtz, sulla
cellulosa di Apocalypse Now. L’apocalisse tricolore. Davanti al
precipizio sorridono i nostri governanti, sorride l’ebete, mentre cade
pensando all’adrenalina del volo, ma non alla caduta. Siamo diventati un
paese di anziani, eppure non a misura di anziani. Simone de Beauvoir
nel 1970 scrisse: “I vecchi sono degli esseri umani? A giudicare dal
modo in cui sono trattati nella nostra società, è lecito dubitarne: la
vecchiaia resta un segreto vergognoso, un soggetto proibito”.
Invecchiamo, ma non sappiamo farlo. Crolliamo, ma ci crediamo giovani
per sempre. Forever young. 17 anni tutta la vita. Ma non nello spirito.
Ve li ricordate i distretti industriali? Il fiore all’occhiello della
produzione italiana? Stanno diventando un ricordo lontano. Quelle
piccole e medie industrie che hanno fatto grande il Paese a partire dal
post Seconda Guerra Mondiale. Le viscere della nazione, gente vogliosa
questi italiani, gente capace di buttarsi alle spalle le bombe del 1945 e
ricostruire tutto daccapo. Olivetti, Mattei passando per l’Eni. Sono
molti i nomi, e le sigle, che riportano alla mente un passato rampante,
capace di regalare speranza. Ora ci troviamo davanti allo scheletro di
quello che è stato. Un monumento alla decadenza, si sbriciolano i
mattoni, sembra di essere davanti ad un mausoleo. Immenso e silenzioso,
con in lontananza le grida dei “nuovi” europei che sgomitano per
prendere il nostro posto. Un romanzo tutto da scrivere, ma con il finale
già sancito. I finanziamenti alle banche dominano lo scenario, 20
miliardi di euro che entrano dalla finestra, dopo essere usciti dalla
porta. I giovani periscono, gli esodati piangono, niente a che vedere
con le lacrime da coccodrillo di Elsa Fornaro, mentre quelli nel mezzo
pregano. Abbiamo scelto di non scegliere, siamo i Mark Renton della via
di mezzo. Avevamo la vita abbiamo deciso di interpretare uno stato di
morte apparente, ci viene così bene da non svegliarci più.
“Se ne va anche un’azienda del San Daniele. Una delle aziende che
producono il prosciutto più famoso d’Italia infatti finisce nelle mani
nei francesi. Ad accaparrarsi questa fetta del made in Italy è stato il
gruppo agroalimentare d’Oltralpe CA Animation, ‘a cui fanno capo le
società produttive Loste Tradi France e Jean Larnaudie'”. Questo quanto
si legge sulle colonne de Il Giornale. Stiamo svendendo. Chiudiamo
bottega. Venghino siori, venghino. Il battitore dell’asta è Paolo
Gentiloni, ma lo sappiamo che il burattinaio resta Matteo Renzi, uomo da
camouflage, mentre tutti scappano non suona nemmeno il violino che ci
accompagna al naufragio, alla Titanic per intenderci. Volete un po’ di
sovranità, sedetevi al tavolo. Il popolo non ha il pane, che si mangi il
debito pubblico. Sembriamo destinati ad un futuro ineluttabile, un
destino che fa rima con la scomparsa dell’Italia. Segnati per sempre.
Grecia. Spagna. Irlanda. Un domani nostro? Un certezza in caricamento.
Renaud Camus, teorico dell’ovvia Grande Sostituzione, bussa alle nostre coscienze. In un’intervista rilasciata a ilTempo.it,
il 21 aprile 2016, ha dichiarato: “Il sostituzionismo è il mondo del
falso, del doppio, dell’ersatz. Io chiamo questo mondo il ‘fauxel’, il
reale ribaltato, il reale falso. Lo scambio di tutto con il suo doppio
meno costoso implica la proletarizzazione così suggestiva della nostra
società. Se le persone del 1900 o anche del 1950 ritornassero nelle
nostre città, penserebbero che sono abitate solo da clochard, vestiti
male, che si comportano altrettanto male e parlano male la loro stessa
lingua. Ma la sostituzione etnica fa sì che questa proletarizzazione
diventi sempre di più una ‘terzomondizzazione’. Su un terzo del suo
territorio, Parigi è Bamako, Marsiglia è la banlieue nord di Algeri. È
così rassicurante per l’uomo, in fondo: è l’uomo che conta, e non certo
le materie prime. Ma con una popolazione del terzo mondo, un paese
europeo diventa del terzo mondo”. Rotoliamo verso sud e siamo felici di
farlo. Siamo a crescita zero e siamo felici. Le aziende chiudono e siamo
felici. Una felicità unità di misura dello sfacelo. Qualcuno ci vede
sparire nel giro di una decade, una realtà che si avvicina in maniera
spaventosa.
“La Commissione europea ha confermato stamani le previsioni di
crescita dell’Italia, rispetto alle stime di novembre, con un aumento
del prodotto interno lordo dello 0,9% nel 2017 e dell’1,1% nel 2018.
Sono le stime più basse di tutta l’Unione. Nella sua analisi della
congiuntura, Bruxelles accoglie positivamente l’impegno del governo di
correggere la traiettoria dei conti pubblici entro aprile, ma nel
frattempo ha rivisto leggermente al rialzo le sue stime di debito
pubblico”. Così sentenziava, un mese fa, Il Sole 24 Ore in diretta da
Bruxelles. Dovevamo correre, stiamo seguendo l’esempio del granchio. Le
certezze parlano d’altro, parlano di una fine ineluttabile. E non sono
pessimista, solamente realista.
Italiani che non fanno più figli perché non hanno la possibilità
economica per mantenerli, aziende che continuano ad abbassare le
saracinesche, perché strozzate dalle tasse e da una burocrazia
pachidermica, le poche aziende che resistono vengono comprate da
multinazionali estere che acquistano il brand e poi esportano le
produzioni all’estero, il tasso di povertà che continua a crescere a
livelli veramente preoccupanti, i nostri giovani costretti a scappare
all’estero per trovare lavoro, immigrazione fuori controllo, percezione
di sicurezza per i cittadini pari a zero, leggi antiquate e nessuna
certezza della pena, la macchina della giustizia che grazie proprio a
queste leggi obsolete e troppo interpretabili non riesce a garantire
processi veloci ecc ecc. E potrei continuare ancora perché l’elenco non
finirebbe mai. Per tutto questo dobbiamo ringraziare una classe di
politici, anzi di politicanti, sia di destra che di sinistra, di centro e
movimenti vari totalmente incapaci che hanno pensato e pensano tutt’ora
solamente ai loro interessi personali e mai a quelli della
collettività. Vergogna.
Sei anni dopo la catastrofe nucleare di Fukushima. Vivere radioattivi quanto basta per non morire.
Il racconto dell’agenzia Reuters, da Namie, una cittadina costiera
giapponese a quattro chilometri da Fukushima, ora quasi deserta dopo il
disastro del 2011. Un gruppo di operai ripara una casa danneggiata, e si
preparano ad accogliere il ritorno dei residenti. Non molto lontano,
due cinghiali si sono intrufolati nel giardino di qualcuno, in cerca di
cibo. Ma sono animali radioattivi, pericolosi. Tutto ciò che vive lì
attorno è potenziale pericolo.
Ritorno al futuro,
sarebbe la speranza. Partendo da sei anni addietro quando in
quell’angolo di Giappone scoprirono un futuro da inferno. In origine i
residenti di Namie erano 21.500, ma solo poche centinaia progettano di
tornare nelle loro case. E, traduzione su Internazionale, leggiamo che
ad appena quattro chilometri di distanza dallo stabilimento nucleare,
Namie è stata la prima città a essere bonificata per il ritorno dei
residenti. Ma il Giappone della primavera fiorita finisce qui.
La vita in città non sarà più la stessa: le radiazioni hanno
contaminato molte aree che non saranno mai più abitabili. Inoltre più
del 50 per cento degli abitanti ha deciso di non tornare. Le loro
preoccupazioni riguardano le radiazioni e la messa in sicurezza
dell’impianto nucleare. La maggior parte di chi ha già deciso di non
tornare ha meno di 29 anni, di conseguenza la popolazione futura sarà
costituita da anziani e la città sarà senza bambini.
Il livello di radiazioni a Namie è di 0,07 microsievert (un
milionesimo di sievert) per ora, simile al resto del Giappone. Ma nella
vicina città di Tomioka, un dosimetro segna 1,48 microsieverts per ora,
trenta volte quella segnalata nel centro di Tokyo. Perché l’annullamento
del piano di evacuazione sia ufficiale, il livello deve essere
inferiore a 20 millisievert (un millesimo di sievert) per anno. Vivere
con un dosimetro appeso al collo?
Il sindaco di Namie Tamotsu Baba spera di riuscire a riattivare
l’industria e l’economia attirando imprese di ricerca e robotica. Le
prospettive per la rinascita del business non si realizzeranno a breve,
ma il presidente della compagnia di legnami Munehiro Asada ha riaperto
la sua fabbrica per favorire la ripresa economica della città. “Ora le
vendite non raggiungono nemmeno il decimo di una volta, ma aprire la
fabbrica era la mia priorità. Se nessuno tornerà, la città sparirà”.
La stessa città letta da altri
Sampre Namie, e sempre a quattro chilometri di distanza dalla centrale
nucleare di Fukushima Daiichi. Per un altro racconto, uno dei problemi
grandi da affrontare sono i cinghiuali che, in assenza dell’uomo, hanno
proliferato. Come attorno allas spazzatura di Roma che li ha chiamati in
città. Peccato che a Namie di cinghiali ce ne sono centinaia che
arrivano alla città scendendo da zone considerate radioattive dove hanno
vissuto per anni e di conseguenza lo sono anche loro.
Sembra cronaca di casa, sono che qui c’è poco da sorridere. Kimiko de
Freytas-Tamura sul New York Times: «Scendono nelle città, saccheggiando
le coltivazioni intrufolandosi nelle case. In certi casi hanno anche
attaccato degli uomini. Ma, forse, la cosa più pericolosa di tutte, è il
loro essere radioattivi». Secondo alcuni test fatti dal governo
giapponese, alcuni dei cinghiali dell’area avrebbero livelli di
cesio-137 300 volte più alti rispetto a quelli ritenuti accettabili
dagli standard di sicurezza.
La guerra al cinghiale. A Tomioka, una delle città della zona, c’è un
gruppo di 13 persone che ha l’incarico di uccidere quanti più cinghiali
possibili. Le autorità di Tomioka, un’altra città dell’area, hanno
detto di averne uccisi 800 e a Soma sono stati predisposti inceneritori
per brucare le carcasse ed evitare di disperdere cesio nell’ambiente.
Cinghiali, problema principale, ma nelle aree vicino alla centrale ci
sono anche altri animali. I ratti ad esempio.
Film Horror. Colonie di ratti radioattive che si sono sviluppate nei
supermercati abbandonati. È una cosa che era successa e continua a
succedere anche dopo il disastro di Chernobyl: nell’area di alienazione,
quella in cui fu vietato l’accesso agli umani, la popolazione animale è
molto aumentata. Non è che gli animali sono immuni alle conseguenze
delle radiazioni. Loro traggono vantaggio dall’assenza dell’uomo ma
diventano loro stessi veicolo di minaccia radioattiva, morendo a poco a
poco e contaminando.
Utile spaccato di realtà dentro la nostra modernità ad energia
nucleare. Pur che sia chiaro a tutti di cosa stiamo parlando e a cosa
potremmo dover andare incontro.
Quando
ci si accosta al fenomeno del jihadismo in Europa [1], ci si imbatte
frequentemente in espressioni come “lupi solitari”, “solo terrorism”, o “leaderless resistance”,
sintagmi che, specialmente negli ultimi anni, sono stati impiegati
sempre più diffusamente. Tuttavia, a questa proliferazione lessicale è
troppo spesso corrisposto un approccio disorganico e semplicistico, che
finisce per assimilare realtà che, nei fatti, non risultano
sovrapponibili o, ancora, che vedono tali neologismi come categorie passe-partout.
A livello complessivo – e dunque trascurando, almeno per il momento, le
peculiarità di ogni singola espressione – è possibile affermare che
queste nuove concettualizzazioni fanno riferimento a svariati aspetti
del jihadismo occidentale, emersi negli ultimi anni: da un lato il
numero di terroristi coinvolti in un attentato (pianificato e/o
eseguito); dall’altro la natura “decentralizzata” dell’operazione
terroristica [2].
In questa ottica, l’ideal-tipo dell’attentato “centralizzato” (ossia emanazione diretta della leadership)
eseguito da un gruppo di jihadisti non è l’unico modello esistente; al
contrario, gli attacchi possono essere perpetrati anche da un singolo
individuo, sostanzialmente autonomo dal gruppo di riferimento. Secondo
uno studio di Petter Nesser, il “single-actor terrorism”
(terrorismo a base individuale, cioè che coinvolge un singolo militante)
tra il 2001 e il 2007 rappresentava il 12% dei casi di terrorismo
jihadista in Europa Occidentale; nell’intervallo tra gli anni 2008 e
2013, la proporzione ha raggiunto il 38%, segnalando quindi un sensibile
aumento [3]. Infine, nel lasso temporale tra il 2014 e il 2016, il single-actor terrorism
ha di fatto eguagliato (se non superato lievemente) il jihadismo a base
gruppale – anche se, come si vedrà, non sempre sussiste un cleavage netto tra le due realtà [4].
Una griglia interpretativa – Come si evince dai dati appena riportati, il single-actor terrorism
è divenuto un fenomeno vieppiù significativo, soprattutto a partire dal
2008 [5]. Ciò è ascrivibile a svariate ragioni, strettamente connesse;
nella fattispecie, può essere letto come un meccanismo di adattamento a
un mutato contesto operativo – un assestamento di carattere
“pragmatico”, che si è inscritto però in una ben precisa cornice
dottrinale. Da una parte, tradizionalmente la decentralizzazione (avente
come apice il terrorismo a base individuale) scaturisce dalle
operazioni antiterroristiche che bersagliano le formazioni militanti e
le lororeti – nel caso in esame, gli attacchi statunitensi ai danni del core di al-Qaeda in teatri come quello afghano-pachistano (in primis
l’impiego di droni per colpire i quadri del movimento e i campi di
addestramento). Dall’altra parte, queste limitazioni sul versante
operativo sono state costeggiate da un’enfasi sull’ideologia del jihad
decentralizzato: innanzitutto, è stata recuperata l’architettura teorica
di Abu Musab al-Suri, stratega jihadista che, già in precedenza, aveva
postulato la necessità di un nuovo paradigma jihadista – incentrato
sull’autonomia delle singole cellule, disconnesse dalla leadership
centrale [6]. Naturalmente, sul piano speculativo, non si trattava
della sola istanza di “decentralizzazione”: una strategia simile era
propugnata dalla rivista Inspire
(pubblicata da al-Qaeda nella Penisola Arabica, AQAP) e dal suo
ideologo di punta Anwar al-Awlaki. Parimenti, si segnalavano altresì gli
appelli al jihad individuale di Osama bin Laden e di Abu Yahya al-Libi,
nonché le idee di Abu Jihad al-Masri, autore del testo How to fight alone, divulgato nei forum dei militanti [7]. Un altro fattore che, con ogni probabilità, ha favorito la propagazione osmotica del single-actor terrorism,
poi, è stato l’effetto emulativo, una spiegazione che, d’altronde, non
riguarda solo i movimenti jihadisti o le operazioni a base individuale,
bensì i movimenti terroristici intesi in senso lato [8].
Il
riconoscimento delle spinte verso decentralizzazione, ad ogni modo, non
deve suggerire una visione polarizzante, ossia una contrapposizione
irriducibile tra operazioni terroristiche “centralizzate” e
“indipendenti”. Al contrario, a livello empirico si riscontra un
panorama poliedrico, raffigurabile come uno spettro continuo: tra i due
estremi (operazioni pianificate e controllate integralmente dalla leadership, vis à vis
casi di totale indipendenza del terrorista) si possono realizzare
infinite possibilità combinatorie [9]. Sono proprio gli elementi che si
collocano presso questo secondo estremo del continuum – e che dunque si contraddistinguono per una spiccata indipendenza operativa – a essere definiti “lupi solitari” (lone wolves).
Se la tassonomia del “lupo solitario” intende attestare il carattere
autonomo dell’operazione terroristica pianificata da un militante,
d’altro canto non mancano alcuni punti di criticità. Il primo,
indubbiamente, è l’aspetto determinativo, poiché si rilevano varie
definizioni del concetto di lone wolf, più o meno restrittive a seconda dei casi. In un saggio del 2011, Raffaele Pantucci li definisce come «individuals
pursuing Islamist terrorist goals alone, either driven by personal
reasons or their belief that they are part of an ideological group» [10], distinguendo diverse tipologie a seconda del grado di interazione con la galassia militante: ad esempio vi sono i loners, lupi solitari stricto sensu,
privi di qualsivoglia contatto con altri jihadisti; poi, esistono
militanti che intrattengono una qualche interazione (seppur vaga o
lasca) con i membri dell’organizzazione terroristica di riferimento e i lone attackers,
che – pur attaccando solitariamente – sono chiaramente connessi con un
gruppo jihadista. Lo studio include anche i gruppi di lupi solitari (lone wolf packs), nuclei isolati formati da più di un individuo, ma che non possiedono connessioni con le reti jihadiste [11].
Queste
osservazioni sul variegato microcosmo dei lupi solitari portano al
riconoscimento di una seconda criticità: tra il fenomeno dei lupi
solitari e il solo-actor terrorism non esiste una relazione biunivoca. Da un lato, come appena visto, possono esservi dei cluster
di lupi solitari (e quindi l’azione non è propriamente “solitaria”,
anche se slegata da una rete jihadista); dall’altro, un militante che
opera su base individuale può intrattenere legami anche cospicui con una
data organizzazione terroristica. In quest’ultimo caso, l’azione del
militante può essere di tipo top-down – qualora siano i quadri della formazione jihadista ad averlo “arruolato” e a guidarlo – oppure di tipo bottom-up,
circostanza in cui è l’aspirante terrorista stesso ad adoperarsi per
stabilire una connessione con il gruppo. Questa griglia fornisce una
chiave di lettura per apprezzare la complessità del fenomeno e per
orientarvisi, ma, naturalmente, non è da intendersi in senso rigido ed
esclusivo, poiché spesso si possono verificare situazioni ibride, in cui
la distinzione tra operazioni top-down e bottom-up è sfuocata [12].
La complessità sottesa dal single-actor terrorism: alcuni esempi nel teatro europeo – Nello
studio degli attentati pianificati e/o eseguiti, la sottostima degli
eventuali legami (tenui ovvero più solidi) tra un militante o una
cellula e la più ampia galassia jihadista è un rischio sempre presente –
e che, di fatto, può tradursi in distorsioni analitiche. All’indomani
degli attacchi di Madrid e di Londra, rispettivamente nel 2004 e nel
2005, si è parlato diffusamente di terrorismo homegrown,
sottolineando non semplicemente il carattere autogeno della minaccia, ma
anche (e soprattutto) la sua presunta indipendenza operativa dal nucleo
qaedista. Tuttavia, con il prosieguo delle indagini, è emerso un
differente quadro, dipinto con efficacia da Fernando Reinares e da Bruce
Hoffman: lungi dall’essere degli episodi di “auto-radicalizzazione”,
avulsi dai reticoli jihadisti, le operazioni erano frutto di
un’interazione massiccia con i quadri di al-Qaeda [13]. A titolo
illustrativo, si consideri che Mohammed Siddiq Khan e Shehzad Tanweer,
due degli attentatori di Londra, erano stati reclutati da Rashid Rauf
(figura chiave di al-Qaeda e mente di numerosi attentati in quegli anni)
e si erano addestrati in “Af-Pak”, dove avevano incontrato vari
personaggi di spicco del gruppo [14].
Tale rischio è forse ancor più evidente nel caso del single-actor terrorism
– qualora si proponga, in via aprioristica, un’equazione surrettizia
tra terrorismo a base individuale e lupi solitari. In un numero
significativo di casi, in effetti, l’apparente indipendenzadell’attentatore
è stata invalidata dal proseguimento delle indagini – che hanno
consentito di appurare le connessioni (di vario tipo) tra il singolo e
un più vasto network. L’apposizione prematura dell’etichetta di lone wolf
– quasi si trattasse di una categoria universale – finirebbe pertanto
per ostacolare la comprensione delle reti jihadiste che puntellano gli
attentatori [15]. Focalizzandosi sugli ultimi anni, è possibile
individuare numerosi esempi di attacchi apparentemente “solitari” e,
solo a una successiva disamina, rivelatisi parte integrante di una rete
più organica, talvolta esito di una pianificazione top-down. Nel
maggio del 2014, il militante franco-algerino Mehdi Nemmouche, armato di
kalashnikov, ha compiuto un’irruzione nel Museo ebraico di Bruxelles,
provocando quattro vittime; a dispetto delle supposizioni iniziali, le
indagini hanno rivelato significative connessioni tra il militante e IS:
Nemmouche si era addestrato in Siria ed era stato reclutato da
Abdelhamid Abaaoud, attentatore di Parigi e figura cardinale dell’EMNI –
l’unità speciale di DAESH che supervisiona le operazioni esterne e che è
stata fino alla sua morte nell’agosto 2016 alle dirette dipendenze di
Abu Muhammad al-Adnani, portavoce del Califfo e “Ministro della
Propaganda” [16]. Similmente, Ayoub el-Khazzani, l’uomo di origine
marocchina e responsabile di un attacco (fallito) sul treno ad alta
velocità che collega Amsterdam e Parigi, avvenuto nell’agosto del 2015,
in apparenza un lone wolf, celava in realtà legami evidenti con
IS, poiché – come Nemmouche – era stato inviato da Abaaoud [17].
Pertanto, ciò che, a prima vista, poteva apparire come uno sconnesso
insieme di attacchi isolati, al più ispirati da IS, si è rivelato in seguito il frutto di un’accurata pianificazione top-down,
funzionale del resto a una strategia di “diversione”: nelle intenzioni
di DAESH, infatti, tali operazioni avrebbero dovuto distogliere
l’attenzione dalla preparazione di attentati su scala maggiore (come
quelli del novembre 2015, a Parigi) [18].
Inoltre,
esaminando altre operazioni e progetti terroristici, sono emersi
differenti tipi di interazione con l’organizzazione madre – ossia una
supervisione degli attacchi in via remota, con uno scambio elettronico
di istruzioni. La dinamica è evidente in alcuni dei più recenti casi: in
quello di Würzburg e quello di Ansbach del luglio 2016, in cui è stato
appurato che gli attentatori (rispettivamente Riaz Khan Ahmadzai e
Mohammed Daleel) hanno ricevuto istruzioni elettroniche da alcuni
militanti situati in Medio Oriente [19]. In differenti casi di attacchi
(anche sventati) in Francia, poi, è emerso il ruolo del jihadista Rachid
Kassim, che – inter alia – era in contatto con Adel Kermiche e
Abdel Malik Petitjean, responsabili dell’attacco presso la chiesa di
Saint-Étienne-du-Rouvray, sempre nel luglio del 2016, in cui ha trovato
la morte Padre Jacques Hamel [20]. I campioni illustrati offrono un’idea
della varietà di connessioni che possono instaurarsi tra i singoli
militanti (anche quando agiscono in piccoli cluster come nel caso
di Kermiche e Petitjean) e l’organizzazione terroristica di riferimento
– talora più vaghi, talora cristallizzati in modo più solido.
Naturalmente, esistono altresì alcuni episodi che, almeno per ora,
sembrano rispecchiare l’ideal-tipo del lupo solitario inteso come loner,
ossia che agisce in totale autonomia: esemplificativo è il caso di
Roshonara Choudry, che nel 2010 ha accoltellato il politico britannico
Stephen Timms [21], o di Tarek Belgacem, che nel gennaio del 2016 ha
tentato di fare irruzione in una stazione di polizia parigina [22].
Osservazioni conclusive e accenno al caso statunitense –
I casi concreti cui si è fatto riferimento non intendono cartografare
metodicamente le operazioni jihadiste in Europa occidentale –
un’ambizione che va al di là degli obiettivi di questa analisi.
Tuttavia, il richiamo di tali accadimenti mira a fornire una panoramica
della complessità di fenomeni quali i lupi solitari e il terrorismo a
base individuale. La vasta gamma di tipologie di interazione tra singoli
militanti e i network strutturati – che si traduce in uno scenario policromo e composito e che vede, comunque, l’innegabile incremento del single-actor terrorism
– mal si attaglia a modelli riduzionisti [23]. In questa sede, accanto
ad alcune considerazioni di carattere generale, ci si è concentrati
sullo scenario dell’Europa Occidentale; a titolo conclusivo, però, è
interessante proporre qualche spunto di riflessione in riferimento alla
situazione statunitense.
Anche
negli Stati Uniti, negli anni successivi al 2001, si è assistito a un
processo di “decentralizzazione”: a livello complessivo, i piani
terroristici legati al core di al-Qaeda e, in particolare a
Khalid Sheikh Mohammed (MSK), di natura esterna, sono stati
progressivamente surrogati da operazioni in genere meno ambiziose,
nonché di carattere homegrown. Ciò, naturalmente, indica una
tendenza generale e non intende sottacere il perdurare di qualche piano a
carattere esterno (come il fallito attacco sul volo da Amsterdam a
Detroit nel 2009), né affermare la totale indipendenza delle operazioni
terroristiche o negare le possibilità di connessione tra i militanti
locali e il gruppo jihadista di riferimento [24].
Secondo
Lorenzo Vidino, a uno sguardo d’insieme, la scena jihadista
statunitense appare più decentralizzata e ridotta, nonché meno
“professionale” rispetto a quella europea [25]. Nel periodo successivo
all’11 settembre, sino al 2011, vi sono stati 32 piani di attacco
terroristico di tipo homegrown, il 69% dei quali a base individuale [26]. La minaccia del single-actor terrorism,
dunque, si dimostra estremamente significativo nel caso americano;
tuttavia, come già notato in riferimento al teatro europeo, non sempre
la chiave di lettura del lone wolf rappresenta lo strumento di
analisi più adeguato – e pertanto non è da accettare meccanicamente. Il
fenomeno è certamente esistente ed esemplificato da casi come Abdulhakim
Muhammad, che nel 2009 ha attaccato l’ufficio di reclutamento militare a
Little Rock [27]; tuttavia, la categorizzazione del “lupo solitario”
non è estendibile erga omnes: considerando i piani terroristici
di matrice jihadista dal gennaio del 1993 al febbraio del 2016, si nota
che solamente in 9 episodi il militante ha agito in completa autonomia
[28]. Di fronte agli avvenimenti dello scorso anno, tra cui l’attacco di
Orlando perpetrato da Omar Mateen, è naturale interrogarsi circa la
natura della minaccia. Ancora una volta, tuttavia, l’accoglimento
pregiudiziale dell’interpretazione lone wolf risulterebbe
intempestiva: solo con la prosecuzione delle indagini e la raccolta di
ulteriori elementi probatori sarà possibile verificare la presenza
ovvero l’assenza di legami più o meno deboli con reti terroristiche
[1] Per una trattazione sistematica del jihadismo in Europa – intesa come analisi diacronica – si veda la monografia P. Nesser, Islamist Terrorism in Europe: A History, Hurst & Company, Londra, 2016.
[2] Più avanti, nell’analisi, ci soffermerà sulle singole espressioni, con particolare attenzione ai “lupi solitari” e al “solo terrorism”. Un altro termine che si riscontra con una certa frequenza è “homegrown”; tuttavia, la tipologia homegrown
non sarà l’oggetto centrale della trattazione e verrà menzionata solo
tangenzialmente. Questa espressione non indica semplicemente una certa
autonomia dal core del gruppo terroristico di riferimento, ma
anche la natura “autoctona” della minaccia (ossia la presenza di
jihadisti nati e/o cresciuti in paesi occidentali). Per un
approfondimento, si veda M. Crone e M. Harrow, Homegrown Terrorism in the West, “Terrorismand Political Violence”, vol. 23, n. 4, 2011.
[3] P. Nesser and A. Stenersen, The Modus Operandi of Jihadi Terrorists in Europe,
“Perspectives on Terrorism”, vol. 8, n. 6, 2014, p. 8. Il database di
riferimento per il calcolo, naturalmente, non include solo gli attacchi
portati a termine, ma anche i piani terroristici sventati. Si noti poi
che tra il 1995 e il 2012, su un totale di 105 attacchi e piani di
attacco di matrice jihadista in Europa occidentale, solo 15 (il 14%)
erano di carattere “individuale”; in particolare, solo 3 casi di single-actor terrorism (su un totale di 15) risalgono al periodo antecedente al 2008: cfr. P. Nesser, Research Note: Single Actor Terrorism: Scope, Characteristics and Explanations, “Perspectives on Terrorism”, vol. 6, n. 6, 2012, pp. 65-66.
[4] P. Nesser, A. Stenersen, and E. Oftedal, Jihadi Terrorism in Europe: The IS-Effect, “Perspectives on Terrorism”, vol. 10, n. 6, 2016, p. 13.
[5] Il 2008, del resto, si caratterizza per la presenza di importanti sviluppi nell’universo jihadista: l’indebolimento del core di
al-Qaeda, il rafforzamento dei suoi nodi regionali, nonché la crescente
importanza delle piattaforme social come Facebook e Twitter: cfr. P.
Nesser and A. Stenersen, The Modus Operandi of Jihadi Terrorists in Europe, cit., pp. 2-3.
[6] P. Nesser, Research Note: Single Actor Terrorism: Scope, Characteristics and Explanations, cit., p. 67 ss.; per un approfondimento su al-Suri, si veda B. Lia, Architect of Global Jihad: The Life of al-Qaida Strategist Abu Mus‘ab al-Suri, Hurst & Company, Londra, 2007. Il libro contiene in appendice anche alcuni brani tratti da The Global Islamic Resistance Call, la maggiore opera di al-Suri.
[7] P. Nesser, Research Note: Single Actor Terrorism: Scope, Characteristics and Explanations, cit., pp. 67 ss.; P. Nesser, A. Stenersen, and E. Oftedal, Jihadi Terrorism in Europe: The IS-Effect, cit., pp. 14-15; E. Bakker and B. de Graaf, Lone Wolves: How to Prevent this Phenomenon?,
The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague, 2010, p. 3.
In particolare, bin Laden ha fatto riferimento al teologo medievale Ibn
Taymiyya per giustificare l’assassinio di chi insulta il Profeta
Muhammad.
[8] P. Nesser, Research Note: Single Actor Terrorism: Scope, Characteristics and Explanations,
cit., p. 69. Ad esempio, gruppi come al-Qaeda hanno mutuato le
operazioni suicide da Hezbollah e dalle formazioni palestinesi; Anders
Breivik, nella progettazione dell’attacco ad Oslo, si è ispirato alle
tattiche qaediste, e così via. Per quanto concerne i fattori
catalizzatori del single-actor terrorism, esistono anche altre
interpretazioni, che fanno riferimento alle motivazioni psicologiche e
sociali. Queste ipotesi si concentrano per esempio sul nesso tra i
fenomeni contemporanei di frammentazione sociale (e
l’individualizzazione) e l’accelerazione dei processi di
radicalizzazione; nondimeno, come sottolineato da P. Nesser, tali
spiegazioni presentano vari punti di debolezza (di fronte ai pattern storici del terrorismo a base individuale, inter alia).
[10] R. Pantucci, A Typology of Lone Wolves: Preliminary Analysis of Lone Islamist Terrorists, The International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (ICSR), 2011, p. 9.
[11] Ibid., pp. 13 ss.
[12] P. Nesser, Islamist Terrorism in Europe: A History, cit., pp. 253 ss. I lone wolves
si caratterizzano inoltre per la mescolanza di ideologia jihadista e
frustrazioni personali; spesso, infatti, si parla di esternalizzazione
di frustrazioni individuali: cfr. S. Teich, Trends and Developments
in Lone Wolf Terrorism in the Western World: An Analysis of Terrorist
Attacks and Attempted Attacks by Islamic Extremists, “International Institute for Counter-Terrorism – IDC Herzliya”, pp. 5 ss.
[13] Per un’analisi dell’attentato di Madrid dell’11 marzo 2004, si veda F. Reinares, The 2004 Madrid Train Bombings in B. Hoffman and F. Reinares (eds.), The Evolution of the Global Terrorist Threat: From 9/11 to Osama bin Laden’s Death, Columbia University Press, New York, 2014 o la monografia F. Reinares, ¡Matadlos!: quién estuvo detrás del 11-M y por qué se atentó en España, Galaxia Gutenberg, Barcelona, 2014; per un approfondimento sugli attacchi di Londra del 7 luglio 2005, si veda B. Hoffman, The 7 July 2005 London Bombings in B. Hoffman and F. Reinares (eds.), The Evolution of the Global Terrorist Threat: From 9/11 to Osama bin Laden’s Death, cit.
[14] Si veda B. Hoffman, The 7 July 2005 London Bombings in B. Hoffman and F. Reinares (eds.), The Evolution of the Global Terrorist Threat: From 9/11 to Osama bin Laden’s Death., cit., pp. 182 ss.
[19] P. Nesser, A. Stenersen, and E. Oftedal, Appendix 1: chronology of jihadi plots in Europe 2014-16, cit.; C. Ellis, With a Little Help from my Friends: an Exploration of the Tactical Use of Single-Actor Terrorism by the Islamic State, “Perspectives on Terrorism”, vol. 10, n. 6, 2016, p. 43.
[22] P. Nesser, A. Stenersen, and E. Oftedal, Appendix 1: chronology of jihadi plots in Europe 2014-16, cit.; C. Ellis, With a Little Help from my Friends: an Exploration of the Tactical Use of Single-Actor Terrorism by the Islamic State, cit., p. 43.
[23]
Ai fini analitici, alcuni modelli particolarmente interessanti – ossia
in grado di proiettare differenti gradi di interazione tra militanti e
gruppi di riferimento – sono quelli di P. Nesser e T. Hegghammer, quello
di D. Gartenstein-Ross e N. Barr e, infine, quello di C. Ellis. Per un
approfondimento, si vedano rispettivamente: T. Hegghammer e P. Nesser, Assessing the Islamic State’s Commitment to Attacking the West in Perspectives on Terrorism, vol. 9, n. 4, 2015; D. Gartenstein-Ross and N. Barr, The Myth of Lone Wolf Terrorism, cit.; C. Ellis, With a Little Help from my Friends: an Exploration of the Tactical Use of Single-Actor Terrorism by the Islamic State, cit. Il modello di Nesser e Hegghammer, ad esempio, prevede sei possibili livelli di interazione.
[24] L. Vidino, The Evolution of the Post-9/11 Threat to the U.S. Homeland: From 9/11 to Osama bin Laden’s Death in B. Hoffman and F. Reinares (eds.), The Evolution of the Global Terrorist Threat: From 9/11 to Osama bin Laden’s Death., cit., passim. Sulla tipologia homegrown, si veda la nota [2].