Il gas nervino torna protagonista in Siria e ancora una volta più dei
 danni provocati sul campo di battaglia o tra i civili pesano gli 
effetti mediatici e politico-strategici. Da anni le armi chimiche sono 
diventate uno strumento più utile alle battaglie della propaganda che a 
quelle campali. Il presidente Barack Obama incautamente ne definì 
l’impiego da parte del regime di Bashar Assad il “filo rosso”, superato 
il quale gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente contro 
Damasco.
Dichiarazione che venne messa alla prova nell’agosto 2013 dalla 
strage di Ghouta, quartiere di Damasco in mano ai ribelli dove un 
attacco chimico compiuto con razzi provocò un numero di vittime 
variabile tra qualche centinaio e oltre 1.700, a seconda delle fonti. 
Basterebbe l’incertezza di questi numeri a evidenziare le difficoltà 
riscontrate da osservatori indipendenti non solo ad attribuire la 
paternità di quell’attacco ma anche a verificare il numero di vittime.
La crisi, che vide Usa, Francia e Gran Bretagna pronti a bombardare 
Damasco, venne risolta dall’intervento di Mosca che si fece garante 
dello smantellamento dell’arsenale chimico di Bashar Assad poi 
trasferito nel porto italiano di Gioia Tauro e distrutto a bordo di una 
nave speciale statunitense sotto l’egida dell’Organizzazione per la 
proibizione delle armi chimiche (Opac).
Come per la strage di ieri a Khan Sheikhun, nella provincia di Idlib,
 anche a Ghouta i ribelli mostrarono foto di bambini cadaveri o 
agonizzanti con l’evidente intento di indignare l’opinione pubblica 
occidentale favorendo un intervento militare che avrebbe portato alla 
vittoria le milizie ribelli sostenute dalle monarchie del Golfo Persico e
 soprattutto da Qatar e Arabia Saudita.
Già quattro anni or sono fonti vicine all’intelligence britannico 
espressero perplessità circa il fatto che il gas impiegato a Ghouta 
provenisse dagli arsenali delle forze governative. Circostanza che non 
venne denunciata esplicitamente neppure dall’Opac e nei mesi successivi 
apparve chiaro che armi chimiche di vario tipo, soprattutto cloro, 
yprite e gas nervini come il Sarin erano in possesso anche dello Stato 
Islamico e di altre milizie ribelli.
L’Isis le avrebbe recuperate da alcuni depositi dell’esercito di 
Saddam Hussein, altre milizie potrebbero averle ricevute dai loro 
alleati arabi per provocare stragi di civili da attribuire al regime 
siriano: in un’intervista risalente proprio al 2013 il comandante di una
 milizia salafita filo saudita ammise di confezionare ordigni chimici 
con gas nervino ricevuto dai servizi segreti di Ryadh.
Il rischio non è però solo che le armi chimiche vengano utilizzate 
dalle milizie jihadste ma che i depositi o centri di produzione (in 
genere ricavati nei centri urbani senza alcun tipo di misure di 
sicurezza) vengano colpiti dai raid aerei o di artiglieria disperdendosi
 nell’ambiente.
Cui prodest?
Nella ridda di accuse e smentite filtrate attraverso le ambiguità 
della propaganda che accompagna tutte le guerre, occorre chiedersi cui prodest? Chi si avvantaggia all’uso di armi chimiche nel conflitto civile siriano?

Non il regime di Assad, che si è dotato in passato di un poderoso 
arsenale chimico per bilanciare le testate nucleari israeliane contro le
 quali l’unico deterrente praticabile per Damasco era riposto nella 
capacità di colpire lo Stato Ebraico con un gran numero di missili e 
razzi dotati di testata chimica.
 
Nelle operazioni a bassa intensità che caratterizzano la guerra 
civile siriana l’uso di queste armi non ha alcun senso tattico poichè 
miliziani e civili vengono agevolmente soppressi con ordigni 
convenzionali che, a quanto pare, inorridiscono meno degli aggressivi 
chimici l’opinione pubblica occidentale. Come se la vita di un bambino 
dilaniato dalle schegge di una granata ad alto esplosivo valesse meno di
 quella di un bambino ucciso dal Sarin.
Quattro anni or sono ci si doveva chiedere che interesse avesse Assad
 a bombardare con i gas Ghouta, ad appena 2 chilometri dall’hotel che 
ospitava gli osservatori dell’Opac giunti in Siria proprio per 
verificarne l’eventuale impiego.

Allo stesso modo occorre chiedersi oggi quali vantaggi avrebbe tratto
 Assad dall’utilizzarli ieri nella sacca di Idlib, ultima ridotta dei 
ribelli jihadisti, per intenderci le milizie non appartenenti allo Stato
 Islamico che hanno rifiutato di aderire ai colloqui di pace, sostenute 
da sauditi, qatarini e fino a pochi mesi or sono anche dai turchi.
 
Milizie in parte fuggite da Aleppo Est dopo la sua caduta che a Idlib
 combattono una battaglia senza speranze a meno che il mutevole gioco 
delle alleanze che ha caratterizzato sei anni di guerra civile siriana 
non venga nuovamente modificato sull’onda dello sconcerto internazionale
 determinato dall’uso di armi chimiche da parte di Damasco.
 La macchina della propaganda
Un’ipotesi credibile a giudicare dalla genesi della notizia del raid 
aereo con i gas. La notizia l’ha diffusa (come quasi tutte le news dalla
 Siria in fiamme) l’Osservatorio siriano per i diritti umani, nome 
altisonante per una ong che ha sede a Londra ed è schierata con i 
cosiddetti “ribelli moderati”.
L’Ondus ha reso noto ieri che raid aerei siriani o russi con 
l’impiego di armi chimiche hanno provocato 58 i morti, fra cui 11 
bambini, e decine i feriti. Medici e attivisti hanno riportato che più 
tardi alcuni aerei hanno lanciato razzi sulle cliniche locali che 
stavano curando i sopravvissuti.
Hussein Kayal, un fotografo dell’agenzia pro-opposizione Idlib media center – Emc
 (erede dell’Aleppo media center che diffondeva le notizie dei qaedisti 
del Fronte al-Nusra), ha detto all’AP di aver trovato persone a terra 
paralizzate e con le pupille ristrette. Secondo Mohammed Rasoul, capo di
 un servizio d’ambulanza ad Idlib, i morti sarebbero 67 mentre l’agenzia
 Step news, anch’essa vicina ai ribelli, afferma che le vittime sono 
cento, tutte colpite da gas nervino Sarin.
La risposta di Damasco e Mosca non si è fatta attendere: i russi 
hanno smentito loro attività aerea su Idlib mentre il comando siriano ha
 precisato che le forze armate “non hanno e non useranno mai questi 
materiali in nessun luogo o momento” e aggiungendo che “ritiene 
responsabili per l’uso di sostanze chimiche e tossiche i gruppi 
terroristi e quelli che sono dietro a loro”.

Nell serata di ieri il Ministero della Difesa russo ha reso noto che i
 jet siriani hanno colpito nella zona di Khan Sheikhoun una 
fabbrica-deposito di armi chimiche dei ribelli: gas (ma non ne viene 
precisato il tipo) che si sarebbero dispersi nella zona in seguito ai 
raid e che avrebbero quindi colpito i civili.
 
Si tratterebbe di munizioni e installazioni produttive già impiegate 
dai ribelli ad Aleppo e trasferiti nella provincia di Idlib dopo la 
caduta della città poiché, dicono ancora le fonti militari russe, i 
sintomi sui civili colpiti ieri sono uguali a quelli registrati in un 
caso analogo ad Aleppo.
I ribelli hanno già impiegato yprite e altri gas e le informazioni 
sono state definite complete e verificate dal portavoce del ministero 
russo, il generale di divisione Igor Konashenkov le cui dichiarazioni 
non sembra abbiano avuto molto spazio sui media occidentali così come 
non lo ebbero le rivelazioni del comando russo che a metà marzo denunciò
 l’uso di armi chimiche da parte dello Stato Islamico a Mosul.
La diffusione localizzata e relativamente poco estesa del gas a Khan 
Sheikhoun sembrerebbe rafforzare la valutazione russa che sia stato 
colpito un deposito a terra di aggressivi chimici dei ribelli. Un 
attacco aereo con armi chimiche avrebbe visto colpita un’area molto più 
vasta con l’impiego di molti ordigni e un numero di vittime molto più 
elevato.
Inoltre le foto diffuse dagli organismi vicini ai ribelli mostrano 
soccorritori privi di di protezioni o limitate a mascherine e guanti di 
gomma che sarebbero del tutto inadeguati in presenza di gas nervino.
E’ quindi sorprendente che la comunità internazionale non abbia 
atteso verifiche o gli esiti di inchieste e ispezioni affidate a 
organizzazioni neutrali o non abbia ascoltato le perplessità di molti 
esperti circa gli eventi di Khan Sheikhoun prima di mobilitarsi subito 
contro Damasco con una rapidità e una sequenza che è difficile non 
valutare come ben pianificate.
Quanta fretta!
Il governo turco, che per anni ha addestrato e armato ribelli di ogni
 fazione per far cadere Assad, ha subito accusato Damasco di crimini 
contro l’umanità, ha tacciato l’Occidente di ipocrisia e di non fare 
nulla contro Bashar Assad, le cui forze militari hanno negato 
decisamente l’impiego di armi chimiche.
Nelle accuse a Damasco Ankara è stata seguita a ruota dall’Europa e 
soprattutto dalla Francia, la cui politica in Medio Oriente è dettata a 
tal punto dai petrodollari del Golfo (Parigi è oggi la capitale europea 
più prona ad Arabia Saudita e Qatar) che ha chiesto per oggi la riunione
 d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Neppure il tempo per effettuare verifiche su quanto accaduto e anche 
Washington si è allineata alla versione dei ribelli siriani nonostante 
l’Opac non si sia ancora espressa neppure sulla natura del gas impiegato
 e molti esperti esprimano dubbi sull’accaduto, come Matteo Guidotti, 
dell’Istituto di Scienze e Tecnologie molecolari del CNR, che consiglia 
“una certa cautela nell’affermare che nell’attacco chimico è stato 
utilizzato il gas Sarin”.

Gli Stati Uniti sembrano pronti a cogliere l’occasione per buttare 
alle ortiche il riavvicinamento a Mosca e Damasco teso a sconfiggere lo 
Stato Islamico, che pure è stato un cavallo di battaglia di Donald 
Trump.
 
Solo pochi giorni fa l’amministrazione avevano annunciato che la 
caduta di Assad non era più una priorità per gli USA e che il suo futuro
 lo avrebbero deciso i siriani.
Ieri invece il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, non ha 
esitato ad accusare Damasco. “Queste azioni atroci del regime di Bashar 
Assad sono una conseguenza della debolezza e dell’indecisione della 
precedente amministrazione” con un riferimento al mancato intervento 
militare di Obama contro Assad caldeggiato a lungo dai repubblicani.
Lo stesso Spicer ha detto che il presidente ha suggerito che è “nel 
miglior interesse” dei siriani che Assad non guidi più il Paese.
Un rovesciamento delle posizioni di Trump che piacerà al senatore 
John McCain e ai tanti “falchi” repubblicani anti-russi. Se la strage 
coi gas di Idlib aprirà la strada al mutamento della politica 
statunitense sul fronte siriano, riportandola al muso duro con Damasco e
 Mosca, avremo più chiara la risposta alla domanda “cui prodest?”
Foto: Reuters, Idlib Media Center, Web e Aeronautica Siriana
5 aprile 2017 - di 
Gianandrea Gaiani
fonte: 
http://www.analisidifesa.it