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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

08/04/17

Povertà irreversibile per 2 milioni d’italiani


 


“Fate finta di nulla, non esistono”. Sarebbe stato questo l’ordine impartito tre mesi fa dai vertici del ministero del Lavoro e previdenza sociale (quelli del welfare) ad alcuni che segnalavano l’incremento per oltre il 30 per cento degli “invisibili”: ovvero dei cittadini italiani disoccupati non più alla ricerca di un lavoro e finiti tra i senza fissa dimora. L’agire sarebbe stato anche perfezionato da intese tra Istat e Welfare, per omettere dai dati statistici gli “invisibili”, al fine di dimostrare un effettivo calo della disoccupazione.
Ma il caso del veronese di 62 anni e del vicentino di 53 rimasti senza lavoro (e senza casa) è saltato agli onori delle cronache in barba a tutte le pulsioni politiche che chiedevano il silenzio su questi casi, ormai bollati dalla dirigenza italiana come irrisolvibili. I due veneti vivono in una tenda (nella foto), a San Zeno in Monte (salita per Colle San Felice), un posto quasi boschivo. Come loro, circa due milioni d’italiani si nascondono dentro tende e baracche lungo i corsi dei fiumi, tra la macchia mediterranea come tra le sterpaglie che circondano e attraversano le città. Dal Veneto alla Sicilia da Napoli a Genova passando per Roma, quello degli invisibili italiani senza fissa dimora rappresenta ormai una schiera in costante aumento.
Storie che hanno come comune denominatore la perdita del lavoro e il concatenarsi di situazioni avverse create anche da soggetti pubblici (Agenzia delle entrate, Equitalia, enti locali vari). Quindi lo Stato concorre a mandarli per strada. Per il sistema sociale sono inseriti nella “fascia di non ritorno”, anche detta “popolo degli invisibili”. Se parlate con chi tra loro ha ancora voglia di raccontare il suo vissuto, vi elencherà le innumerevoli porte sbattute in faccia e, purtroppo, minacce ed offese ricevute dai dipendenti degli enti pubblici che avrebbero potuto scongiurare (forse solo in parte) la loro discesa agli inferi. Desta non poco sconcerto che il livello d’istruzione degli invisibili sia medio-alto: sempre più laureati vengono quotidianamente arruolati nell’esercito degli invisibili. Più indagini sociali spiegano come il basso livello d’istruzione favorisca l’adattarsi ad ogni forma di lavoro e sopravvivenza, che spesso va dal raccogliticcio al furto di generi di prima necessità. Di pari passo si sono raddoppiate le denunce di violenza a pubblico ufficiale da parte di barboni e senza tetto: è stato dimostrato che i più violenti sarebbero tra i disoccupati invisibili, recalcitranti verso ogni forma di controllo e indagine da parte delle forze di polizia. E nei salotti buoni della Capitale c’è già il dirigente pubblico che invoca soluzioni vittoriane: come nella Londra di metà Ottocento, dove i poveri arrestati per vagabondaggio venivano condotti controvoglia in Australia. Solo la crisi a mettere l’orologio dei diritti indietro di 150 anni? Certamente il benessere diffuso aveva chetato gli animi anche dei più fervidi assertori del classismo, adusi comunque a scongiurare l’ascensore sociale. La riduzione di denaro e speranze ha ravvivato un fuoco mai sedato. Ovviamente i vertici dello Stato hanno pensato bene di sacrificare ben due milioni d’invisibili sull’altare della “pace sociale”, consci che nell’Era della comunicazione sia sufficiente non parlarne per negarne l’esistenza.
Intanto, circa 21 milioni di contribuenti potrebbero finire in povertà: si allude agli indebitati a vario titolo con 8.500 enti creditori che hanno affidato la riscossione ad Equitalia. Per l’amministratore delegto della società pubblica di riscossione, Ernesto Maria Ruffini (in audizione in commissione Finanze alla Camera), il 53 per cento degli italiani ha accumulato pendenze che non superano i 1000 euro e il 74 per cento dei contribuenti ha debiti sotto i 5mila euro. Somme che secondo alcuni vertici dell’Economia sarebbero bastevoli per tentare una lezione esemplare contro gran parte dei cittadini.
La palla passerebbe ancora una volta alla politica, e all’obbligo di ottemperare ad alcune norme Ue: ovvero pignorare il bene casa agli italiani anche per debiti irrisori, e per istillare nel cittadino la paura di finire per stracci anche per insoluti di piccola entità. Strategie che ci fanno comprendere come la dirigenza di Stato sia pronta a un braccio di ferro col popolo, con chi versa in difficoltà economiche. A questo s’aggiunge che nell’Italietta antisolidarista serpeggia sempre più il virus della dabbenaggine, al punto che qualche giustizialista avrebbe bollato come “traffico d’influenza” l’aiuto di eventuali personalità a chi è in cerca d’occupazione. Quella della spoliazione degli italiani sembrerebbe una via irreversibile, anche perché alcuni soloni dell’Unione europea starebbero già sollevando dubbi sulle modalità di rottamazione delle cartelle Equitalia.

di Ruggiero Capone - 08 aprile 2017

I missili di Trump lanciati sulla Siria

 

 


Donald Trump l’altra notte ha fatto strike. Con i 59 “Tomahawk” lanciati contro la base aerea siriana di Al-Shayrat, il presidente degli Stati Uniti ha colpito un bel po’ di obiettivi sullo scacchiere internazionale. Conta meno quanti danni abbiano causato i missili all’impatto con le infrastrutture prese di mira. Conta molto di più l’effetto provocato sugli equilibri dello scacchiere Mediterraneo, del Vicino e del Medio Oriente. Innanzitutto la tempistica. L’ordine presidenziale è partito negli stessi momenti in cui Trump accoglieva, nella sua residenza in Florida, il presidente cinese Xi-Jinping.
È da settimane che i toni della Casa Bianca sulle provocazioni missilistiche del leader della Corea del Nord, Kim-Jong-un, si fanno più minacciosi. Trump ha chiesto al governo cinese, che funge da lord protettore del dittatore coreano, d’intervenire. In assenza di risposte convincenti vi sarebbe stata la reazione degli Stati Uniti. I missili dell’altra notte sono la dimostrazione che “The Donald” è in grado di far seguire i fatti alle parole.
Altro messaggio recapitato è al leader turco Recep Tayyip Erdoğan il quale, dopo anni di tensione con Barack Obama, vuole riaprire il dialogo con Washington. I missili su Shayrat sono la risposta alle aspettative turche. Trump aveva anche promesso che avrebbe riportato la piena sintonia tra con Gerusalemme. Il governo israeliano da tempo denuncia il pericolo che il rafforzamento di Bashar al-Assad celi un’espansione dell’influenza nella regione degli Hezbollah e dei loro mandanti iraniani. I missili dell’altra notte sono la migliore smentita della politica degli “occhi chiusi” praticata dall’amministrazione Obama. L’offensiva bellica è stata improvvisa ma non troppo. Fonti del Dipartimento di Stato Usa rivelano che il Cremlino era stato preventivamente informato delle intenzioni della Casa Bianca. Ciò ha consentito ai comandi militari russi presenti in Siria di disporre, prima dell’attacco, lo spostamento degli aerei e dei mezzi di stanza nella base di Al-Shayrat. Non a caso nulla dell’apparato bellico russo è stato danneggiato dai missili.
Con questa mossa Trump, senza scatenare l’inevitabile reazione di Mosca, ha zittito le voci interne al suo Paese che lo volevano succube della politica di potenza di Vladimir Putin. Era da subito chiaro che l’idea di rivoluzionare la politica americana a dispetto di tutti i poteri forti sarebbe stata poco più di un’utopia. L’unica chance per Trump di vincere la guerra intestina avrebbe dovuto far leva sulla rottura del fronte degli oppositori. I missili di Al-Shayrat sono il suggello al cambio di strategia iniziata con la rimozione del “falco” Stephen Bannon, ideologo della sua campagna elettorale, da consigliere per la Sicurezza e la sua sostituzione con il generale Herbert Raymond "H. R." McMaster, moderato, gradito alle gerarchie militari. Ma se i missili l’altra notte hanno colpito i simboli del potere di al-Assad, dove hanno fatto più male è stato in Europa. Uno dei leitmotiv della campagna elettorale trumpiana è stato l’aperto disconoscimento del ruolo geopolitico di un’Europa unita. “The Donald” quando ne ha avuto l’occasione lo ha dimostrato: prima accogliendo con entusiasmo il premier britannico Theresa May che gli portava in dono l’uscita del Paese dall’Unione europea, trattando con glaciale freddezza la signora Angela Merkel nel corso della visita di Stato a Washington e mettendo in fondo all’agenda, solo alla vigilia dell’inizio del G7 a Taormina, l’incontro con il premier italiano, Paolo Gentiloni. Segnali che però avevano la consistenza di punture di spillo rispetto a ciò che è accaduto l’altra notte.
Il presidente Usa ha deciso l’attacco senza consultare i suoi alleati europei. È stato patetico osservare l’imbarazzo con il quale i leader dell’Ue si sono dovuti affrettare a saltare sul carro di Trump senza che lui glielo avesse chiesto. La dichiarazione congiunta, a cose fatte, della Merkel e di Hollande di sostegno all’attacco missilistico la dice lunga sul peso che Washington riservi agli europei. Cosa bisogna aspettarsi d’ora in poi? Non un’escalation bellica. Quella dell’altra notte resta un’iniziativa “one-off”, una tantum. Per qualche giorno i players globali si divideranno, gli uni minacciando sfracelli, gli altri appoggiando entusiasticamente l’iniziativa. Come da copione. Dopo le cose torneranno al loro posto ma con qualche significativa novità. Trump ha fatto sapere al mondo che lui è in palla e intende partecipare alla partita. Ovunque la si giochi: tra le sabbie desertiche del Medio Oriente o nelle acque agitate del Mar del Giappone. E, a dare ascolto ai nostri autorevoli commentatori di regime, costui sarebbe un pazzo e un incapace?

di Cristofaro Sola - 08 aprile 2017

TRUMP VA ALLA GUERRA IN SIRIA



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Non ci eravamo sbagliati: l’impressione di Analisi Difesa evidenziata il 5 aprile che la strana vicenda del gas nervino di Khan Sheikhoun costituisse un pretesto, una “cortina fumogena” per giustificare un rovesciamento della politica mediorientale di Donald Trump si è concretizzato questa notte.
A Donald Trump sono bastate appena 48 ore per cambiare radicalmente la sua politica nei confronti del conflitto siriano. Da quando i media vicini ai ribelli siriani hanno diffuso la notizia del bombardamento chimico a Khan Sheikhoun attribuendolo alle forze aeree di Bashar Assad, Trump ha prima fatto sapere tramite il suo portavoce di “aver cambiato idea sul presidente siriano” per poi annunciare ad alcuni membri del Congresso di valutare azioni militari unilaterali dopo il veto russo alla risoluzione di condanna del regime siriano.
Infine ha scatenato il raid missilistico di questa notte con 59 Tomahawk lanciata dai cacciatorpediniere Porter e Ross (classe Arleigh Burke), basati nel Mediterraneo orientale e hanno colpito aerei, depositi, bunker per le munizioni, sistemi di difesa aerea e radar nella base aerea di Shayrat, vicino ad Homs. da cui erano decollati i jet che colpirono martedì scorso la zona di Idlib.
Il ministro della Difesa siriano, Fahd Yasem al Freich, ha definito “un’aggressione” l’attacco Usa e ha aggiunto che l’uincursione mette gli Stati Uniti sullo stesso piano dei terroristi dell’Isis. L’attacco alla base aerea di Shayrat ha fatto almeno sei morti e decine di feriti, ha confermato il ministro della Difesa di Damasco, Fahd Yasem al Freich, oltre a “grosse perdite materiali”.
Secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, ong vicina ai ribelli, “sono morti 4 militari tra i quali un generale di brigata dell’aeronautica, l’aeroporto è andato quasi totalmente distrutto, la pista, il deposito di carburante e la difesa aerea sono stati polverizzati”.
Secondo Al-Freich, l’attacco “fa degli Stati Uniti un alleato dell’Stato Islamico e del Fronte al-Nusra. Quanto alle motivazioni addotte da Donald Trump (che non ha chiesto autorizzazioni al cOngressio) per lanciare la rappresaglia, cioè  l’uso di armi chimiche da parte delle forze legate al governo siriano, il ministro della Difesa di Damasco ha ribadito che Washington “non conosce la verità di quello che è successo ne’ di chi è il responsabile”.
Parlando dalla sua villa a Mar-a-Lago (Florida), Trump ha bollato il presidente siriano Bashar Assad come un “dittatore”, che ha “lanciato un orribile attacco chimico su civili innocenti”.
Trump ha anche chiamato “tutte le nazioni civilizzate a unirsi nel cercare la fine di questo massacro e il sangue versato in Siria, anche per eliminare il terrorismo di ogni tipo”.

170406232518-02-syria-airstrike-0406-super-169Una giravolta sconcertante se si considera che in campagna elettorale e nelle prime settimane dal suo insediamento il presidente aveva sempre sostenuto che in Siria occorreva un’intesa con Mosca e Assad per sconfiggere i terroristi jihadisti e solo pochi giorni or sono la sua amministrazione aveva ufficializzato, proprio all’Onu, la rinuncia degli Usa a considerare prioritaria la destituzione di Assad.
I tempi fulminei di questa inversione di rotta della politica di Trump, che trasforma Assad da “quasi-alleato” contro i jihadisti in “nemico pubblico numero uno” al pari del dittatore nord coreano Kim Jong-un (anche lui nel mirino di possibili iniziative militari Usa), rafforzano il sospetto che il caso dei gas nervini a Khan Sheikhoun sia stato costruito ad arte.
Non ci sono rapporti o verifiche di fonti neutrali sull’accaduto, i dubbi sul resoconto dei ribelli sono tanti, le vittime troppo poche per un attacco aereo con armi di distruzione di massa (Saddam Hussein nel 1988 uccise 5mila curdi bombardando Halabja, non 90 come nella cittadina siriana) e soprattutto non sono stati effettuati ancora riscontri per verificare che il gas utilizzato martedì sia proprio quello degli arsenali (ufficialmente smaltiti) delle forze armate siriane.
Nonostante l’assenza di prove certe e la consapevolezza statunitense che anche i ribelli utilizzano armi chimiche su bassa scala (proprio quella adatta a uccidere qualche decina di persone) Trump è pronto a minacciare Damasco di quei raid che Barack Obama aveva paventato nel 2013 per poi rinunciarvi quando Mosca si fece garante del disarmo degli arsenali chimici di Assad, costituiti come deterrente contro le armi nucleari israeliane.

USS_Porter_(DDG-78)_2007L’impressione è che Trump, tenuto sotto pressione dai democratici con la minaccia di impeachment proprio per i suoi supposti rapporti con Mosca, stia subendo il ricatto dei “falchi” del suo partito guidati dal senatore John Mac Cain, che già negli anni scorsi rimproverò l’amministrazione Obama per non aver attaccato Bashar Assad in seguito a un altro discusso caso di impiego di gas nervino a Ghouta, alla periferia di Damasco.
Trump avrebbe quindi un gran bisogno di dimostrarsi duro con Mosca per sgombrare il campo da ogni possibile accusa di intesa cordiale con Vladimir Putin e la Siria rappresenta l’occasione ideale per dare un segnale in tal senso, specie sull’onda emotiva delle immagini di bambini uccisi dal gas nervino.
Non si può inoltre escludere che il mutato atteggiamento di Trump nei confronti di Damasco sia dettato dall’esigenza di rendere coerente la sua politica mediorientale basata sulla stretta alleanza con Israele e il contrasto all’Iran. Politica difficilmente conciliabile con le aperture promesse sul fronte siriano ad Assad e Putin dal momento che in Siria (a pochi chilometri dai confini con lo Stato Ebraico) combattono migliaia di iraniani e il regime di Assad è il più importante alleato di Teheran.
Difficile capire se si tratti solo di un ”raid punitivo” e dimostrativo (utile a Trump sul fronte interno a dimostrare che non è “amico di Putin” o se davvero Washington intende ci battere le forze siriane e i loro alleati, favorendo quelle milizie jihadiste (incluso l’Isis) che Assad combatte e che Trump aveva detto più volte di voler annientare criticando la politica obamiana in Medio Oriente.
Nel primo caso l’azione di Trump potrebbe essere solo sporadica come dimostrerebbe l’avviso ai russi dell’attacco imminente che hanno avuto il tempo di ritirare i loro militari dalla base Shayrat, vicino ad Homs nel mirino dei missili da crociera americani, e forse anche di avvertire Assad considerando danni limitati in termini di perdite (6 militari) dalla pioggia di missili dell’Us Navy che hanno però devastato le infrastrutture e le dotazioni della base.
Nel secondo caso Trump incontrerebbe oggi molte più difficoltà di Obama nel muovere guerra a Damasco poiché, a differenza del 2013 quando Mosca schierava in Siria solo alcuni consiglieri militari e contractors, oggi le forze russe dispongono di una trentina di aerei da combattimento, elicotteri, reparti terrestri, circa 5mila militari e soprattutto batterie di missili da difesa aerea a lungo raggio S-300 ed S-400 in grado di intercettare aerei e missili da crociera.
Gli Stati Uniti schierano già nella regione un centinaio di velivoli da combattimento e nel nord della Siria un migliaio di forze speciali e marines impegnati nelle operazione della Coalizione contro lo Stato Islamico, oltre a una dozzina di navi lanciamissili mentre altri mezzi potrebbero giungere in tempi brevi.
La possibilità statunitense di colpire le forze di Assad è quindi fuori discussione ma il rischio è di creare un casus belli con la Russia le cui conseguenze sono imprevedibili e potrebbero ripercuotersi anche lontano dai confini siriani.

Syria_Rich_(1)La svolta di Trump piacerà a Israele che considera più minaccioso il regime di Assad legato all’Iran rispetto a una Siria in mano a jihadisti sunniti, ma anche a sauditi ed emirati del Golfo che hanno sostenuto finora le milizie islamiste siriane.
Piacerà anche ad Ankara che può finalmente tornare ad accarezzare il sogno di far cadere Assad per allagare la sua area di influenza e assumere il controllo del nord della Siria in chiave anti curda. Al tempo stesso la nuova iniziativa del presidente Usa rischia di cancellare ogni ipotesi di distensione con Mosca e di inasprire il confronto già acceso con Pechino.
Scenari che, uniti all’opzione di una Siria dominata dalla sharia, dovrebbe invece preoccupare l’Europa, che oggi ottiene proprio dall’intelligence di Assad preziose informazioni sui “foreign fighters” che rientrano dal fronte bellico e che subisce direttamente gli effetti di quanto accade sulla sponda est del Mediterraneo e nei rapporti con la Russia.
Anche in questo caso però la posizione degli europei pare ininfluente e comunque appiattita su quelle assunte dalle petro-monarchie arabe e dagli statunitensi.

Foto: Reuters, Idlib Media Center e US Navy

7 aprile 2017 - di

07/04/17

Attenti: hanno “normalizzato” Trump


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Verrebbe da dire: c’era una volta Trump.
C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo  e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin.
Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto, le sue idee, quel progetto di America.
Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente , gli effetti auspicati. E non mi riferisco solo alle manifestazioni di piazza, all’opposizione isterica della stampa, alle sentenze dei giudici (a proposito: ricordate l’articolo di Kupchan? Era profetico). Trump non è stato capace di resistere al boicottaggio che proveniva dall’interno delle istituzioni e dall’apparato dell’intelligence e della difesa. E chissà a quali altre pressioni e minacce. Si è lasciato avvinghiare, inghiottire da quel mondo che prometteva di combattere. Tutto in appena due mesi e mezzo dal giorno del suo insediamento.
L’errore più grande lo ha commesso quando ha accettato che uno dei suoi consiglieri più fidati, Flynn, si dimettesse. Un commentatore acuto e davvero indipendente quale Paul Craig Roberts lo aveva capito subito: quel cedimento era devastante, perché spaccava il fronte dei fedelissimi ma soprattutto perché rompeva la posizione di Trump sul “caso Russia”, che poteva diventare così un caso nazionale. Della serie: Se Flynn si dimetteva c’era qualcosa da nascondere. E allora via con le pressioni. Ancora oggi mancano prove concrete sulle ipotetiche collusioni con Mosca per condizionare il voto, ma il “deep state” lo ha fatto diventare il Caso Nazionale con toni maccartisti, paventando persino un impeachment nell’arco di qualche mese. Un impeachment sul nulla, ma questo era secondario.
Flynn era la mente della nuova politica estera e di sicurezza dell’Amministrazione Trump. Un’Amministrazione che si è via via riempita di ministri, consiglieri ed esperti appartenenti alla vecchia guardia. All’inizio quelle nomine, poco coerenti, parevano una concessione obbligata al Partito repubblicano che controlla il Congresso, nella supposizione che le redini sarebbero rimaste nelle mani del presidente. Ma si è rivelata una falsa speranza.  E quando, l’altro ieri, l’altro suo più fedele collaboratore, lo stratega politico Bannon è stato estromesso dal Consiglio di sicurezza nazionale, l’accerchiamento si è concluso. Il segretario di Stato Tillermann si è rapidamente allineato all’establishment e ora a guidare la politica estera e di difesa, a consigliare il presidente sono gli esperti della Washington di sempre.
E si vede: la distensione con il Cremlino appare sempre più lontana; anzi proprio i ministri della nuova amministrazione alimentano la retorica antirussa con le stesse argomentazioni e lo stesso tono di Obama. Il Trump di qualche mese fa avrebbe preteso la verità sull’uso del gas in Siria, quello di oggi, invece, ha proclamato – senza ombra di dubbio – che molte linee rosse erano state superate. Proprio come Obama nel 2013. Peccato che allora, in seguito, si scoprì che a usare il sarin erano stati i “ribelli” moderati per far cadere la colpa su Assad e provocare l’intervento della Nato. Sarin la cui consegna sarebbe stata autorizzata da Hillary Clinton. Ed è molto verosimile che anche la strage dell’altro giorno sia stata provocata dai “ribelli” per fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire.

siria2Solo che nel 2013 Obama si fermò all’ultimo minuto, il Trump di oggi no. Ha fatto tutto in fretta, senza riscontri oggettivi sulle responsabilità di Assad, evidentemente mal consigliato. O consigliato benissimo, dipende dai punti di vista. Intanto l’Isis e i fondamentalisti islamici  che combattono Assad ringraziano: la distruzione della base siriana avrà un solo effetto concreto, quello di indebolire l’esercito siriano e dunque di rimettere in discussione una vittoria che sembra certa. E’ così che si combatte lo Stato Islamico? Non ci prendano in giro: così lo si favorisce,perché l’obiettivo di Washington è il cambio di regime a Damasco anche a costo di vedere trionfare in Siria il peggior integralismo islamico.
Non è un caso che a salutare l’interventismo della Casa Bianca siano stati proprio Hillary Clinton e John McCain. L’impressione è che l’agenda Trump sia già stata sconfessata a beneficio di quella irresponsabile e interventista portata avanti negli ultimi 15 anni dai neoconservatori.
Se ciò fosse vero, significherebbe che Trump è stato “normalizzato”. E per la pace nel mondo sarebbe una pessima notizia.
Resta una sola flebile speranza: che si tratti di un riposizionamento transitorio e non di una resa. Che l’uomo sia capace di riscattarsi. Ma probabilmente, a questo punto, più che una speranza è un’illusione.

di Marcello Foa - 7 aprile 2017

anche su twitter @Marcello Foa

fonte: http://blog.ilgiornale.it/foa/2017/04/07/hanno-normalizzato-trump/

06/04/17

Mussolini riposa in pace. L’odio, no!


Martedì, 4 aprile 2017 – Sant’Isidoro – a Taurianova, nello studio di mio Padre


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Non è ancora arrivato, quel fatidico 25 aprile (in primis, Festa di San Marco e, dunque, onomastico di mio nipote Marco) – il giorno in cui c’è ancora chi si sente vivo, ringalluzzito, al solo pensiero che il fascismo sia finito – che già si avverte nell’aria un olezzo di menzogna e di becero protagonismo. Ad ogni annata, si aggiunge un figlio, un nipote, un pronipote di qualche presunto “eroe” della guerra civile, che vuole godere dei suoi quindici minuti di esposizione pubblica, di talk, di docufiction pseudostorica, durante i quali concionare sulla guerra di liberazione. Quella che ha sporcato di sangue non solo le strade, ma, soprattutto, la dignità degli Italiani, macchiandoci, per sempre, del peggiore dei peccati: il fratricidio e il parricidio.
Settanta e più anni passati nell’odio non hanno ancora  insegnato, a una porzione di questo Popolo quasi meraviglioso, che la Storia si scrive da sola: non la creano né i vincitori, né i vinti. Prima o poi, infatti, le bugie dei vittoriosi vengono scoperte e la guerra riprende. Già! La guerra. Quella che i finti vincitori continuano a deprecare pubblicamente, ma di cui si beano nei racconti. Salvo, poi, dover fare i conti coi propri incubi.
Le innegabili schifezze perpetrate sui civili, a fine conflitto, non hanno giustificazione. Fascisti o no!  E sono sicuro che i protagonisti di quelle porcate siano proprio gli stessi che, nel corso di questi maledetti settant’anni, abbiano inventato una nobiltà che quella guerra non ha avuto. Non sono nobili quegli stupri, gli omicidi, i ferri di cavallo inchiodati alle mani e ai piedi di gente inerme, le sevizie, le torture, le foibe… Così come non lo erano stati i lager, le leggi razziali, le purghe…
E non è nobile, oggi, a parer mio, continuare a mentire. Né continuare a riesumare fantasmi di un passato che E’ PASSATO, per cercare di rattoppare un presente sbrindellato e senza dignità. Figlio di una ricostruzione fasulla e di una rivoluzione politica e sociale postsessantottina, ignorante, proterva e stronza. Tanto per rimanere alle chiacchiere da bar della piazza e senza voler intavolare discorsoni da convegno mondiale sul XX secolo.
Non finiranno le repliche televisive pasquali di tutti i gesucristi cinematografici, che cominceranno le messe in onda di “testimonianze” di ogni genere su un periodo che, piaccia o no, ha portato l’Italia ad essere una delle Potenze Mondiali. Ma “i Vinti” non avranno, ancora una volta, diritto alla parola. A ciacolare di fascismo e antifascismo saranno, ancora, storici improvvisati, magari trenta/quarantenni; presunti “testimoni”, senza prove alla mano; parenti o eredi di antifascisti veri e presunti. Magari qualche vedova di partigiano. Anche di quelli che lo sono diventati dopo il 25 aprile 1945, dopo il 28 aprile 1945!
O, peggio, si ritaglieranno uno spicchio di palcoscenico quei dannati della storia, nati dieci, vent’anni dopo la fine della guerra, che grondano odio per sentito dire. Per ozio. Perché da piccoli non avevano la televisione. Perché non esserci fa male.
Mussolini riposa. Anche i suoi figli.

L’odio, no.

#frameeme

di Nino Spirlì - 4 aprile 2017

Siria, perché è stato lanciato un attacco chimico a Idlib?

Quello che appare come una sorta di suicidio politico per Assad, in un momento in cui la guerra volge in suo favore, ha molti lati oscuri e poche certezze


IDLIB CHEMICAL ATTACK






Ieri, 4 aprile 2017, su questo giornale ci domandavamo a chi potesse giovare questa insensata mossa decisa dal governo siriano di lanciare attacchi chimici contro la popolazione siriana nella provincia di Idlib. Quello che appare come una sorta di suicidio politico per il presidente in carica, in un momento in cui la guerra volge in suo favore, ha molti lati oscuri e poche certezze.

Anzitutto, quale motivo avrebbe avuto il regime di Bashar Al Assad per usare gas chimici sulla popolazione, dopo aver giurato di averli consegnati «tutti alle Nazioni Unite» nel gennaio 2014, dopo la famosa “Red Line” tracciata dal presidente Barack Obama e ben sapendo che le conseguenze di un simile gesto avrebbero provocato la reazione internazionale?

Le ragioni di Assad

Si può sostenere, come fa oggi mercoledì 5 aprile il ministero della Difesa russo – evidentemente imbarazzato dal caso – che il bombardamento dei jet siriani era di tipo convenzionale e che le loro bombe hanno in realtà colpito un deposito dove i ribelli nascondevano armi chimiche in loro possesso, probabilmente trafugate da Aleppo. La nube tossica si sarebbe così sprigionata dal deposito e colpito i civili. I dubbi restano, legittimati dal fatto che gli attacchi chimici di solito fanno danni ben peggiori (ad Al Halabja, in Iraq, il 16 marzo 1988 il gas Sarin uccise 5mila persone e non 70, mentre l’attacco del 21 agosto 2013 nei sobborghi di Damasco fece tra le 600 e le 1.400 vittime).

Al Halabja(Il cimitero di Al Halabja dove sono sepolte le vittime dell’attacco chimico del 1998) 

Oppure, si può sostenere che Assad abbia deciso di gasare la popolazione per concludere anzitempo una delle battaglie più importanti per il futuro della Siria occidentale: quella per il controllo di Idlib, dove sono confluite le ultime milizie ribelli sfollate da Aleppo e dove si trova Tahrir Al Sham, l’alleanza jihadista legata ad Al Qaeda che ha di fatto il vero controllo delle operazioni militari. Presa Idlib, infatti, la guerra sarà pressoché vinta o comunque Damasco avrà un vantaggio indiscutibile. Consapevole di avere dalla sua parte Mosca e contando sul placet americano (Trump, al contrario di Obama, non ha ancora chiesto la sua testa), ritiene forse che la sua dimostrazione di forza resterà impunita e non avrà conseguenze serie per lui (proprio come Al Halabja per Saddam).

Syria's President Bashar al-Assad(Il presidente siriano Bashar Assad) 
 

Chi vuole proseguire la guerra?

Ma c’è anche un’altra possibilità. E cioè che l’attacco sia avvenuto scientemente per costringere le parti in lotta a proseguire la guerra senza sosta. Ci sono soltanto due soggetti internazionali ai quali conviene la fine delle ostilità: uno è Mosca, l’altro Washington. Il Cremlino ha infatti raggiunto tutti gli obiettivi che si prefiggeva, cioè assicurarsi il controllo della fascia costiera della Siria per poter avere finalmente quell’accesso ai mari caldi che sognarono già gli zar di Russia. Nella provincia di Latakia, infatti, Mosca ha installato una base aerea militare e un porto per la sua marina, dai quali non si muoverà mai più.

Washington, invece, ha interesse a concordare una pace che certifichi la sconfitta delle milizie jihadiste – Stato Islamico in primis – per ritrovare il prestigio perduto durante l’Amministrazione Obama, e che favorisca una soluzione politica federativa all’interno della quale sarà più facile muoversi, stringere accordi energetici, fornire armi e sistemi di sicurezza. In una parola, attuare un divide et impera che dia l’impressione del peso di Washington anche a ovest dell’Iraq.



SIRIA MAPPA

Il punto di vista della Turchia

A tutti gli altri, invece, non conviene che finisca la guerra. E questo vale anzitutto per il presidente Bashar Al Assad, che teme di essere sacrificato sull’altare della pace proprio dai suoi salvatori russi. I quali ragionevolmente, in un ipotetico tavolo della pace, non avrebbero troppi problemi a concordare un’uscita di scena del rais siriano per ottenere un accordo duraturo, a patto che si assicuri loro il controllo di Latakia.

Non deve sfuggire, però, che l’attacco chimico avviene a meno di una settimana dalle dichiarazioni del segretario di stato americano, Rex Tillerson che nel corso di una visita in Turchia ha dichiarato che la rimozione di Assad non è più una priorità per gli americani e che, per quanto li riguarda, potrebbe anche restare al suo posto dopo la guerra.

Chi, invece, ha un interesse preciso alla dipartita di Assad e alla sconfitta del governo di Damasco è la Turchia. Ankara non ha ottenuto niente da questa guerra e, anzi, ha peggiorato la propria situazione interna ed esterna: ha patito e patisce tuttora il terrorismo in casa ma, soprattutto, ha visto gli odiati curdi “circondare” i suoi confini e prendere il controllo di ampie porzioni di territorio tanto in Iraq quanto in Siria, preludio della nascita di uno stato autonomo. Il che è considerato da Ankara una minaccia alla propria esistenza. La strategia di Ankara, che voleva ergersi a protettore dei sunniti in Siria e Iraq, è insomma fallita miseramente e la permanenza degli Assad al potere sarebbe la pietra tombale alle sue ambizioni di controllare anche solo una parte residuale dei territori sunniti e turcomanni occupati dai ribelli durante il conflitto.

SIRIA TURCHIA(Soldati turchi sorvegliano le alture di Kilis, al confine con la Siria)  

L’interesse dell’Iran

E poi c’è l’Iran. Neanche gli ayatollah hanno ottenuto, per il momento, quanto speravano. Il prezzo pagato dagli Hezbollah libanesi, la longa manus di Teheran in Siria, ad esempio è stato altissimo. Avendo preso parte attiva ai combattimenti ma subito perdite significative, si sono indeboliti senza ottenere in cambio una contropartita reale, se non nella disponibilità di villaggi e territori anche in Siria, dove contadini e mafie locali alle loro dipendenze possono ampliare l’industria e il traffico della droga. Che a sua volta serviranno a finanziare le loro nuove imprese politiche e militari.

Un po’ scarso come risultato, visto che nel frattempo Israele ha inflitto loro perdite significative, compiendo attacchi aerei mirati e cadenzati per evitare che Hezbollah ottenga vantaggi militari o entri in possesso proprio delle armi chimiche che non dovrebbero più essere in circolazione (su questo, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, è stato chiaro quando a dicembre 2016 ha affermato che la Siria nei propri arsenali nasconde ancora armi chimiche).

PUTIN_ROUHANI(Mosca, 28 marzo 2017: l’incontro tra Vladimir Putin e Hassan Rouhani)

Ma, soprattutto, Teheran puntava a una vittoria delle forze sciite chiara e senza l’aiuto di Mosca, un alleato ingombrante e focalizzato solo a garantirsi il proprio spazio vitale, per poter dettare legge nella regione. L’Iran, invece, al momento non ha mano libera né in Siria né in Iraq, paese sul quale è più determinato ad assicurarsi un’influenza crescente per ragioni di continuità territoriale e per il ruolo politico (il governo è sciita), sociale (la popolazione sciita è la maggioranza) ed economico (l’Iraq è una potenza energetica il cui suolo è ricchissimo di idrocarburi) che Baghdad esercita nella regione.

L’Iran, inoltre, è a un passante importante della sua storia politica. Le elezioni presidenziali del prossimo maggio, in tal senso, saranno uno specchio importante per capire verso dove il paese degli ayatollah si sta dirigendo. Se vincerà la continuità, Hassan Rouhani resterà al suo posto e potrà proseguire il disegno “riformatore” tracciato a partire dal 2013. Una battuta d’arresto, invece, segnerà un cambio di passo nei confronti della comunità internazionale e degli Stati Uniti in primis.

Il silenzio prevedibile dell’ONU

Oggi è prevista alle ore 16 italiane una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza Onu che, con ogni probabilità, non deciderà niente in ragione del fatto che in uno di quei seggi siede Mosca, che opporrà il veto a qualsiasi decisione non condivida. L’attacco chimico c’è stato ed è un crimine di guerra. Ma il vero crimine di guerra in questa triste e lunga storia è lasciare che la guerra prosegua.

STAFFAN DE MISTURA (L’inviato speciale ONU per la Siria Staffan De Mistura)
 di Luciano Tirinnanzi - 5 aprile 2017
fonte: http://www.lookoutnews.it

ITALIANI POPOLO DI PECORONI!


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Scusate lo sfogo da semplicissimo cittadino di questa povera Italia, ma ancora fortemente fiero ed orgoglioso di esserlo! I fatti a cui stiamo assistendo ultimamente non possono che farmi tornare in mente le visioni con cui il nostro grandissimo Dante Alighieri dipinse il nostro Paese nella Divina Commedia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”.
L’Italia è esattamente questa! Governata da maggiordomi improvvisati senza le più che minime competenze fino a comportarsi come dei miseri collaborazionisti al servizio di paesi stranieri per non perseguire minimamente gli interessi nazionali e dei propri cittadini in totale oltraggio e disprezzo nei confronti dei più elementari principi sanciti dalla Carta Costituzionale. In ginocchio davanti a Bruxelles e Francoforte con le ginocchia sbucciate e il cappello in mano senza che nessuno, dico nessuno, abbia la capacità e la forza di far valere le nostre ragioni. Ricordate mai un uomo di governo italiano che sia andato in Europa a cantargliene quattro? Solo sorrisi, pacche sulle spalle e promesse (poi mai mantenute).
Le note vicende che hanno riguardato ad esempio le banche dissestate è semplicemente vergognoso! In qualsiasi altro paese del mondo i provvedimenti presi dal governo italiano sarebbero stati impossibili da realizzare perché i cittadini sarebbero scesi immediatamente in strada e avrebbero cacciato i responsabili materiali e i complici che hanno avallato al governo le loro nefandezze a calci nel sedere, mentre da noi non è successo niente. Qualche protesta, qualche parola grossa nei talk show e poi tutti buoni a casa!

Siamo ormai assuefatti a qualsiasi cosa, diventati ormai un mansueto esercito di pecore disponibili a subire qualsiasi sopruso senza reagire. Eppure decine e decine di migliaia di cittadini sono stati letteralmente truffati in buona fede senza che le istituzioni preposte abbiano alzato un solo dito in loro difesa e soprattutto con un governicchio composto da burattini incompetenti che hanno considerato i risparmiatori come vera e propria carne da macello.
Perdonate lo sfogo e anche se non sono mai stato un cliente delle quattro banche coinvolte, il mio orgoglio da semplice italiano e padre di famiglia a cui ancora stanno tremendamente a cuore le sorti del mio, del nostro, Paese non mi consentono di rimanere in silenzio.
Fino a quando dovremo sopportare tutto questo? Fino a quando continueremo a rimanere zitti e mandare giù rospi sempre più grandi di fronte a tutte queste porcherie che si stanno perpetrando sempre più frequentemente a nostro discapito?  Fino a quando saremo disponibili ad essere considerati delle pecore di un gregge capaci solamente a chinare la testa per essere tosate?
L’Italia è nostra e non di questi politicanti cialtroni da quattro soldi incapaci totalmente di difenderci e di tutelarci; cerchiamo di reagire prima che sia troppo tardi e prima che ci privino definitivamente di qualsiasi strumento democratico per decidere delle nostre sorti.
Non mi vergogno di essere considerato un Patriota populista, anzi ne sono fierissimo, almeno mi differenzio da chi per vocazione o professione svende il Paese per un piatto di lenticchie, anzi di crauti e spero che presto un minimo di orgoglio si riaccenda nel cuore e nella mente di tutti i miei concittadini per non continuare ad essere sonoramente presi in giro da questi scalzacani abusivi che hanno anche la pretesa di governarci e decidere del nostro destino! Per quello che mi riguarda non permetterò mai che il futuro dei miei figli sia lasciato nelle mani di questi incapaci e arroganti pseudo amministratori della res publica e farò di tutto per impedirlo. 
Io ho già tirato fuori dall’armadio gli stivali pesanti per prenderli a calci nel sedere, voi?

Antonio M. Rinaldi - 6 aprile 2017

05/04/17

UNA CORTINA DI GAS PER CELARE LA CAPRIOLA DI TRUMP IN SIRIA?


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Il gas nervino torna protagonista in Siria e ancora una volta più dei danni provocati sul campo di battaglia o tra i civili pesano gli effetti mediatici e politico-strategici. Da anni le armi chimiche sono diventate uno strumento più utile alle battaglie della propaganda che a quelle campali. Il presidente Barack Obama incautamente ne definì l’impiego da parte del regime di Bashar Assad il “filo rosso”, superato il quale gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente contro Damasco.
Dichiarazione che venne messa alla prova nell’agosto 2013 dalla strage di Ghouta, quartiere di Damasco in mano ai ribelli dove un attacco chimico compiuto con razzi provocò un numero di vittime variabile tra qualche centinaio e oltre 1.700, a seconda delle fonti. Basterebbe l’incertezza di questi numeri a evidenziare le difficoltà riscontrate da osservatori indipendenti non solo ad attribuire la paternità di quell’attacco ma anche a verificare il numero di vittime.
La crisi, che vide Usa, Francia e Gran Bretagna pronti a bombardare Damasco, venne risolta dall’intervento di Mosca che si fece garante dello smantellamento dell’arsenale chimico di Bashar Assad poi trasferito nel porto italiano di Gioia Tauro e distrutto a bordo di una nave speciale statunitense sotto l’egida dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac).
Come per la strage di ieri a Khan Sheikhun, nella provincia di Idlib, anche a Ghouta i ribelli mostrarono foto di bambini cadaveri o agonizzanti con l’evidente intento di indignare l’opinione pubblica occidentale favorendo un intervento militare che avrebbe portato alla vittoria le milizie ribelli sostenute dalle monarchie del Golfo Persico e soprattutto da Qatar e Arabia Saudita.
Già quattro anni or sono fonti vicine all’intelligence britannico espressero perplessità circa il fatto che il gas impiegato a Ghouta provenisse dagli arsenali delle forze governative. Circostanza che non venne denunciata esplicitamente neppure dall’Opac e nei mesi successivi apparve chiaro che armi chimiche di vario tipo, soprattutto cloro, yprite e gas nervini come il Sarin erano in possesso anche dello Stato Islamico e di altre milizie ribelli.
L’Isis le avrebbe recuperate da alcuni depositi dell’esercito di Saddam Hussein, altre milizie potrebbero averle ricevute dai loro alleati arabi per provocare stragi di civili da attribuire al regime siriano: in un’intervista risalente proprio al 2013 il comandante di una milizia salafita filo saudita ammise di confezionare ordigni chimici con gas nervino ricevuto dai servizi segreti di Ryadh.
Il rischio non è però solo che le armi chimiche vengano utilizzate dalle milizie jihadste ma che i depositi o centri di produzione (in genere ricavati nei centri urbani senza alcun tipo di misure di sicurezza) vengano colpiti dai raid aerei o di artiglieria disperdendosi nell’ambiente.

Cui prodest?
Nella ridda di accuse e smentite filtrate attraverso le ambiguità della propaganda che accompagna tutte le guerre, occorre chiedersi cui prodest? Chi si avvantaggia all’uso di armi chimiche nel conflitto civile siriano?

a-man-carries-the-body-of-a-dead-child-after-what-rescue-workersNon il regime di Assad, che si è dotato in passato di un poderoso arsenale chimico per bilanciare le testate nucleari israeliane contro le quali l’unico deterrente praticabile per Damasco era riposto nella capacità di colpire lo Stato Ebraico con un gran numero di missili e razzi dotati di testata chimica.
Nelle operazioni a bassa intensità che caratterizzano la guerra civile siriana l’uso di queste armi non ha alcun senso tattico poichè miliziani e civili vengono agevolmente soppressi con ordigni convenzionali che, a quanto pare, inorridiscono meno degli aggressivi chimici l’opinione pubblica occidentale. Come se la vita di un bambino dilaniato dalle schegge di una granata ad alto esplosivo valesse meno di quella di un bambino ucciso dal Sarin.
Quattro anni or sono ci si doveva chiedere che interesse avesse Assad a bombardare con i gas Ghouta, ad appena 2 chilometri dall’hotel che ospitava gli osservatori dell’Opac giunti in Siria proprio per verificarne l’eventuale impiego.

2014_11_14_syrian_air_forceAllo stesso modo occorre chiedersi oggi quali vantaggi avrebbe tratto Assad dall’utilizzarli ieri nella sacca di Idlib, ultima ridotta dei ribelli jihadisti, per intenderci le milizie non appartenenti allo Stato Islamico che hanno rifiutato di aderire ai colloqui di pace, sostenute da sauditi, qatarini e fino a pochi mesi or sono anche dai turchi.
Milizie in parte fuggite da Aleppo Est dopo la sua caduta che a Idlib combattono una battaglia senza speranze a meno che il mutevole gioco delle alleanze che ha caratterizzato sei anni di guerra civile siriana non venga nuovamente modificato sull’onda dello sconcerto internazionale determinato dall’uso di armi chimiche da parte di Damasco.

 La macchina della propaganda
Un’ipotesi credibile a giudicare dalla genesi della notizia del raid aereo con i gas. La notizia l’ha diffusa (come quasi tutte le news dalla Siria in fiamme) l’Osservatorio siriano per i diritti umani, nome altisonante per una ong che ha sede a Londra ed è schierata con i cosiddetti “ribelli moderati”.
L’Ondus ha reso noto ieri che raid aerei siriani o russi con l’impiego di armi chimiche hanno provocato 58 i morti, fra cui 11 bambini, e decine i feriti. Medici e attivisti hanno riportato che più tardi alcuni aerei hanno lanciato razzi sulle cliniche locali che stavano curando i sopravvissuti.
Hussein Kayal, un fotografo dell’agenzia pro-opposizione Idlib media center – Emc (erede dell’Aleppo media center che diffondeva le notizie dei qaedisti del Fronte al-Nusra), ha detto all’AP di aver trovato persone a terra paralizzate e con le pupille ristrette. Secondo Mohammed Rasoul, capo di un servizio d’ambulanza ad Idlib, i morti sarebbero 67 mentre l’agenzia Step news, anch’essa vicina ai ribelli, afferma che le vittime sono cento, tutte colpite da gas nervino Sarin.
La risposta di Damasco e Mosca non si è fatta attendere: i russi hanno smentito loro attività aerea su Idlib mentre il comando siriano ha precisato che le forze armate “non hanno e non useranno mai questi materiali in nessun luogo o momento” e aggiungendo che “ritiene responsabili per l’uso di sostanze chimiche e tossiche i gruppi terroristi e quelli che sono dietro a loro”.

Syrian-Air-ForceNell serata di ieri il Ministero della Difesa russo ha reso noto che i jet siriani hanno colpito nella zona di Khan Sheikhoun una fabbrica-deposito di armi chimiche dei ribelli: gas (ma non ne viene precisato il tipo) che si sarebbero dispersi nella zona in seguito ai raid e che avrebbero quindi colpito i civili.
Si tratterebbe di munizioni e installazioni produttive già impiegate dai ribelli ad Aleppo e trasferiti nella provincia di Idlib dopo la caduta della città poiché, dicono ancora le fonti militari russe, i sintomi sui civili colpiti ieri sono uguali a quelli registrati in un caso analogo ad Aleppo.
I ribelli hanno già impiegato yprite e altri gas e le informazioni sono state definite complete e verificate dal portavoce del ministero russo, il generale di divisione Igor Konashenkov le cui dichiarazioni non sembra abbiano avuto molto spazio sui media occidentali così come non lo ebbero le rivelazioni del comando russo che a metà marzo denunciò l’uso di armi chimiche da parte dello Stato Islamico a Mosul.
La diffusione localizzata e relativamente poco estesa del gas a Khan Sheikhoun sembrerebbe rafforzare la valutazione russa che sia stato colpito un deposito a terra di aggressivi chimici dei ribelli. Un attacco aereo con armi chimiche avrebbe visto colpita un’area molto più vasta con l’impiego di molti ordigni e un numero di vittime molto più elevato.
Inoltre le foto diffuse dagli organismi vicini ai ribelli mostrano soccorritori privi di di protezioni o limitate a mascherine e guanti di gomma che sarebbero del tutto inadeguati in presenza di gas nervino.
E’ quindi sorprendente che la comunità internazionale non abbia atteso verifiche o gli esiti di inchieste e ispezioni affidate a organizzazioni neutrali o non abbia ascoltato le perplessità di molti esperti circa gli eventi di Khan Sheikhoun prima di mobilitarsi subito contro Damasco con una rapidità e una sequenza che è difficile non valutare come ben pianificate.

Quanta fretta!
Il governo turco, che per anni ha addestrato e armato ribelli di ogni fazione per far cadere Assad, ha subito accusato Damasco di crimini contro l’umanità, ha tacciato l’Occidente di ipocrisia e di non fare nulla contro Bashar Assad, le cui forze militari hanno negato decisamente l’impiego di armi chimiche.
Nelle accuse a Damasco Ankara è stata seguita a ruota dall’Europa e soprattutto dalla Francia, la cui politica in Medio Oriente è dettata a tal punto dai petrodollari del Golfo (Parigi è oggi la capitale europea più prona ad Arabia Saudita e Qatar) che ha chiesto per oggi la riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Neppure il tempo per effettuare verifiche su quanto accaduto e anche Washington si è allineata alla versione dei ribelli siriani nonostante l’Opac non si sia ancora espressa neppure sulla natura del gas impiegato e molti esperti esprimano dubbi sull’accaduto, come Matteo Guidotti, dell’Istituto di Scienze e Tecnologie molecolari del CNR, che consiglia “una certa cautela nell’affermare che nell’attacco chimico è stato utilizzato il gas Sarin”.

imagesSJWESP2UGli Stati Uniti sembrano pronti a cogliere l’occasione per buttare alle ortiche il riavvicinamento a Mosca e Damasco teso a sconfiggere lo Stato Islamico, che pure è stato un cavallo di battaglia di Donald Trump.
Solo pochi giorni fa l’amministrazione avevano annunciato che la caduta di Assad non era più una priorità per gli USA e che il suo futuro lo avrebbero deciso i siriani.
Ieri invece il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, non ha esitato ad accusare Damasco. “Queste azioni atroci del regime di Bashar Assad sono una conseguenza della debolezza e dell’indecisione della precedente amministrazione” con un riferimento al mancato intervento militare di Obama contro Assad caldeggiato a lungo dai repubblicani.
Lo stesso Spicer ha detto che il presidente ha suggerito che è “nel miglior interesse” dei siriani che Assad non guidi più il Paese.
Un rovesciamento delle posizioni di Trump che piacerà al senatore John McCain e ai tanti “falchi” repubblicani anti-russi. Se la strage coi gas di Idlib aprirà la strada al mutamento della politica statunitense sul fronte siriano, riportandola al muso duro con Damasco e Mosca, avremo più chiara la risposta alla domanda “cui prodest?”

Foto: Reuters, Idlib Media Center, Web e Aeronautica Siriana

5 aprile 2017 - di

fonte: http://www.analisidifesa.it

L’ attentato a San Pietroburgo



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(aggiornato ore 23.58)
Nonostante i tanti misteri e i dubbi circa l’attentato alla metropolitana di San Pietroburgo è difficile immaginare una pista diversa da quella islamica, cioè un attacco jihadista effettuato da caucasici oppure da terroristi di una delle tante nazionalità che hanno offerto volontari e “foreign fighters” allo Stato Islamico e ad altri movimenti islamisti. Milizie a cui hanno aderito in questi anni 8 mila cittadini dell’ex URSS tra i quali 4/5mila russi secondo le stime dei servizi segreti di Mosca.
Pare improbabile al momento ipotizzare una relazione tra l’attentato e i disordini di piazza che negli ultimi giorni hanno visto protagonisti gli oppositori interni di Vladimir Putin, sia perchè tra di essi non vi sono mai stati terroristi sia perché è impensabile che Putin (come lasciano intendere alcuni osservatori in Occidente) abbia interesse a provocare atti di terrorismo per sviare l’attenzione dall’opposizione interna.
Le manifestazioni dei giorni scorsi hanno avuto un’eco più vasta nell’Occidente russofobo che nella Russia stessa e in ogni caso la popolarità di Putin continua ad essere elevata tra i suoi concittadini da non creare allo “zar” problemi di consenso.
Sul piano politico l’attentato di ieri da un lato rafforza il Cremlino perché consente a Putin di appellarsi al solido patriottismo del popolo russo per far fronte alla minaccia terroristica contro la sicurezza nazionale ma dall’altro lo indebolisce dimostrando l’incapacità del governo di proteggere la popolazione.
Al momento va però rilevato che le notizie circa l’attentato sono confuse e a tratti contraddittorie mentre molti aspetti restano da chiarire.
La bomba posta nel vagone della metropolitana (dalle prime indiscrezioni composta da 200 grammi di tritolo, avvolti da cuscinetti a sfera e chiodi nascosti in una valigetta abbandonata sulla carrozza) aveva il compito di mietere il maggior numero di morti e feriti.
Ben più potente sarebbe stata la seconda bomba, dissimulata come un estintore, disinnescata in tempo dagli artificieri in una seconda stazione e contenente, secondo fonti della BBC, un chilogrammo di Tnt con chiodi e biglie di ferro. Fonti russe invece hanno resi noto che il secondo ordigni era simile a quello esploso e conteneva “solo” due o tre etti di esplosivo.

image.jpgL’attentato, che ha causato almeno 14 morti  e 49 feriti, è stato effettuato proprio nel giorno in cui Putin si trovava nella sua città natale per un media forum e un incontro, nel pomeriggio, con il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko.
L’atto terroristico e il giorno in cui è stato effettuato non sono quindi casuali neppure sul piano mediatico poiché, come ha sottolineato il presidente della Commissione Difesa del Senato, Viktor Ozerov, “in città c’erano il presidente e tanti giornalisti”.
Le autorità russe hanno confermato il nome del kamikaze che si sarebbe fatto esplodere: è Akbarjon Djalilov, 22enne kirghiso nato nella regione di Och, i cui resti  sono stati trovati nel terzo vagone del treno.
Sulla borsa che conteneva la seconda bomba, non esplosa,   trovata nell stazione della metropolitana di Ploshchad Vosstania, sono state trovate tracce del Dna del kamikaze. A quanto pare l’ordigno era attivabile con l’impulso di un telefono cellulare.
L’ordigno “doveva essere attivato da un telefono cellulare e non da un meccanismo a orologeria” ha spiegato una fonte vicina alle indagini alla Tass. Circostanza che porta gli inquirenti a “non escludere” che pure la bomba esplosa sul vagone della metro possa essere stata innescata “a distanza” dai complici dell’attentatore, che forse “controllavano i suoi movimenti”.
Dalla serata di lunedì l’antiterrorismo russo aveva concentrato le indagini su un kamikaze (circostanza inizialmente esclusa),  come aveva riferito l’agenzia Interfax citando una fonte dei servizi di sicurezza. Inizialmente i sospetti erano concentrati sul kazako Maksim Arishev che probabilmente è solo una delle vittime dell’attentato tra le quali vi siono russi, bielorussi, kazaki e uzbeki.
Fonti di polizia citate dalla TASS dicono invece che il terrorista avrebbe avuto legami con combattenti siriani mentre il quotidiano Kommersant cita “una fonte attendibile” rivelando che i servizi segreti di Mosca sapevano della preparazione di attentati terroristici a San Pietroburgo perché avvertiti da un russo che collaborava con l’Isis e detenuto dopo il suo ritorno dalla Siria.
Non tutti i dettagli appaiono chiari. L’attentatore suicida avrebbe celato l’ordigno in uno zaino ma anche questa versione non spiega chi e come avrebbe dovuto far esplodere il secondo ordigno rinvenuto e disinnescato dagli artificieri.
A quanto sembra, ma non è certo, i terroristi che hanno colpito a San Pietroburgo disponevano di esplosivo di tipo industriale o militare, peraltro non difficile da reperire nel Caucaso insanguinato da anni dall’insurrezione islamista, non il TATP “fatto in casa” utilizzato negli attentati in Belgio e Francia.

La definizione “ordigno artigianale” utilizzata dalle autorità russe non specifica infatti se si tratti di un ordigno costruito artigianalmente con esplosivo convenzionale (come le IED utilizzate dai talebani afghani, dallo Stato Islamico e da altre milizie) o se si tratti di esplosivo “prodotto artigianalmente”.
L’esplosione si è verificata tra due stazioni della metropolitana, cioè proprio nel punto più difficile per far arrivare tempestivamente i soccorsi, come avvenne per l’attentato del 22 marzo 2016 alla metropolitana di Bruxelles.

SAN-PIETROBURGO-ESPLOSIONI-METROPOLITANAIn assenza di rivendicazioni la matrice cecena o caucasica è quella più immediata per la lunga serie di attacchi e attentati verificatisi in Russia negli ultimi 20 anni che hanno visto protagonisti miliziani e terroristi di quelle regioni, ma attualmente sono davvero molti i gruppi jihadisti ad avere conti in sospeso con Mosca.
A partire dal settembre 2015 l’intervento russo in Siria non solo ha rovesciato le sorti del conflitto consentendo al regime di Bashar Assad di sopravvivere e avviarsi a vincere la guerra civile ma ha sbaragliato le milizie salafite dei Fratelli Musulmani, di al-Qaeda e dello Stato Islamico.
Frange diverse tra loro ma accomunate dalla fede jihadista e dalla volontà di vendicarsi dei russi che hanno sottratto loro l’opportunità di porre la Siria sotto il tallone della sharia. Un sentimento di vendetta diffuso anche tra gli sponsor delle milizie islamiche siriane tra i quali il Qatar e l’Arabia Saudita, quest’ultima in particolare in prima fila da anni nel finanziare i ribelli wahabiti ceceni.
Del resto Mosca ha già pagato un alto prezzo di sangue al terrorismo islamico per l’intervento al fianco di Damasco. Nell’ottobre 2015 un charter della Metrojet diretto proprio a San Pietroburgo esplose sul Sinai a causa di una bomba posizionata a bordo dopo il decollo dall’aeroporto di Sharm el-Sheik. Morirono in 224 e l’Isis rivendicò l’attentato per punire l’intervento russo in Siria.
Foto Web


4 aprile 2017 - di
fonte: http://www.analisidifesa.it