RefeRenzum. Il gen. Mini racconta di 
una legge 'immaginaria', un Parlamento 'defraudato', una maggioranza non
 rappresentativa e una 'guerra fredda interna' all'Italia. 
 
 
 
      
     
      
 
     
      
     
      
     
 
 
Intervista di Rossella Guadagnini al generale Fabio Mini (*)
Riforme, democrazia, 
governabilità e inganni. Ne parliamo con una voce fuori dal coro, un 
uomo che per 46 anni è stato nelle Forze Armate e oggi si definisce 
molto progressista. Ci racconta di una legge 'immaginaria' e di un 
Parlamento 'defraudato', di una maggioranza non rappresentativa del 
Paese e di una 'guerra fredda interna' all'Italia. Di spazi informativi 
pubblici a favore del marketing governativo e di una grande festa della 
dis-unità a cui, volenti o no, siamo tutti invitati.
D. Generale Fabio Mini cosa pensa delle riforme costituzionali?
R. Non sono contrario alle riforme costituzionali, ma sono nettamente contrario a questariforma.
 Respingo il sillogismo che chi vota "sì" vuole un'Italia "efficiente, 
stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in 
Europa" e chi vota No vuole "un'Italia idiosincratica ed eccentrica, 
eternamente prigioniera delle proprie ombre". E' un sillogismo 
apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e 
offende chi non lo condivide. E' il primo segnale che la riforma 
proposta intende dividere gli italiani ed io penso invece che una 
Costituzione debba unire i cittadini.
D. Il fronte del No è molto variegato e ispirato da ideologie addirittura opposte: come si conciliano?
R.
 Personalmente, mi schiero con il No proposto da un Movimento di 
cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli 
ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell'Italia 
unita e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e 
 intendono affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa. 
Non condivido l'obiezione che il No sia improponibile perché voluto anche da
 partiti e movimenti d'ispirazione fascista, veterocomunista, populista e
 quant'altro, che vogliono soltanto la caduta del governo. Non condivido
 le loro finalità, ideologie e prassi, ma riconosco legittime e fondate 
alcune delle loro motivazioni. Sono infatti queste comuni motivazioni a 
fare del No un fronte trasversale espressione di molte anime, e non di 
un pensiero unico, e quindi - nel suo complesso - essenzialmente 
democratico.
D. Con il No cosa succederebbe al Governo ?
R. Non
 collego il No alla caduta del Governo. Penso che sia stata una grossa 
sciocchezza legare il Referendum alla sopravvivenza politica del capo 
del Governo: un narcisismo inopportuno che non è finito con la tardiva e
 strumentale ammissione dell'errore. Anzi è stato fatto qualcosa di 
peggio, perché tutto l'esecutivo, a partire dal suo vertice, ha 
riversato sull'Italia la prospettiva di fallimento e sfascio nazionale 
in caso di prevalenza del No, alimentando così la disunione all'interno e
 i sospetti d'instabilità nazionale all'esterno. Viste le conseguenze in
 campo internazionale e nella speculazione economica a danno 
dell'Italia, questa operazione, in altri tempi e Stati, sarebbe stata 
considerata e perseguita come "Alto tradimento". Da noi è una "furbata".
 Dopo il voto ciascuna parte politica dovrà trarre le conclusioni e 
agire di conseguenza, ma se il Referendum non realizza una massiccia 
affluenza alle urne nessuno potrà veramente cantare vittoria: avrà perso
 l'Italia. E il conteggio dei voti dovrà far riflettere invece di far 
gioire. La prevalenza risicata del "si" inasprirà ancor di più il clima 
politico e indurrà il Governo a irrigidirsi su posizioni non condivise. 
Secondo me, tutto questo porterà nel giro di breve tempo alla fine 
dell'esecutivo o della stessa legislatura. Se dovesse prevalere il No, 
tecnicamente sarebbe soltanto il rinvio della Riforma e con questo 
Parlamento il Governo potrebbe restare in carica fino al termine di 
legislatura. Ma gli equilibri politici sarebbero mutati e il Governo non
 potrebbe imporsi sul Parlamento come ora. Non è detto che questo sia 
necessariamente un male. Inoltre, se oggi il No di altri gruppi tende 
solo allo sfascio del Governo bisogna riflettere sulle ragioni e le 
responsabilità di tale atteggiamento. In questi ultimi anni il dissenso 
democratico non ha avuto né attenzione né alternativa onorevole. Quando 
quasi mezzo Parlamento è costretto a lasciare l'aula, per non essere 
coinvolto in uno schema  che non condivide e i restanti festeggiano come
 allo stadio, si celebra l'effimera vittoria di una parte e si detta il 
necrologio della democrazia.
D. Entrando nel merito della riforma, perché vota NO?
R. E' stato detto che questa riforma, "dopo un dibattito trentennale infruttuoso e
 controverso", era diventata improcrastinabile. Non è stato detto che la
 controversia non derivava dalla carenza di norme, ma dalla necessità 
(riconosciuta dalle stesse commissioni bilaterali e da tutti gli altri 
proponenti di riforme alla Costituzione) di procedere alle riforme con 
il più largo consenso delle forze politiche. Lo stesso meccanismo 
dell'articolo 138 della Costituzione, prevedendo più esami incrociati 
tra Camera e Senato, cauti passi successivi e tempi di riflessione 
intendeva promuovere un largo consenso. Tant'è che nel caso esso fosse 
venuto a mancare si prevedeva la possibilità di ricorrere alla 
consultazione diretta del popolo. Ora, si è arrivati a questa riforma 
pasticciata e opaca perché invece di ricercare il largo consenso si è 
preferito imporre la volontà di una maggioranza non rappresentativa 
della Nazione. Abbiamo assistito a manovre di qualsiasi genere, a 
ricatti politici, disinformazione, emarginazione dei dissidenti o 
soltanto dei non favorevoli, sostituzione di membri di commissioni 
parlamentari scomodi, agitazione di spauracchi, promesse populistiche, 
ghigliottine, canguri, sedute fiume e molto altro. Di peggio è avvenuto 
nell'ombra. La forma non è stata violata, ma il metodo si è rivelato 
ingiusto e scorretto perché nel frattempo la rappresentatività 
parlamentare e governativa era passata, con successive "porcate" e 
"leggi incostituzionali",  dal sistema proporzionale a quello 
maggioritario a sbarramento. E soprattutto perché le finalità della 
riforma erano e rimangono tanto confuse da giustificare ogni sospetto di
 manipolazione.
D. Lo ritiene un fenomeno nuovo?
R.
 No, ma nel passato, quando gli obiettivi delle riforme costituzionali 
erano chiari, puntuali e condivisi sono state promulgate leggi 
costituzionali senza difficoltà. Dal 1948 ad oggi sono state approvate 
38 leggi costituzionali tra cui provvedimenti importanti come le pari 
opportunità, l'abolizione della pena di morte anche per i reati militari
 in tempo di guerra, il voto degli italiani all'estero, l'estradizione 
per delitti di genocidio, il giusto processo, il pareggio di bilancio 
ecc. I problemi si sono posti quando le riforme si presentavano 
strumentali o soltanto imparziali e soprattutto quando rispecchiavano 
interessi di potere particolari e clientelari.
D. La riforma vorrebbe snellire la burocrazia legislativa, ridurre i costi della politica.
R. Purtroppo
 questa riforma non snellisce e non fa risparmiare. Si sarebbe invece 
risparmiato molto utilizzando strumenti legislativi ordinari senza 
scomodare la Costituzione. E anche ammettendo che ci sia qualche 
risparmio sul piano contabile, la riforma comporta costi enormi  in 
credibilità delle istituzioni, bilanciamento dei poteri e quindi in 
democrazia. Non sono costi teorici o morali, a ognuno di tali elementi 
sono collegate pratiche politiche e amministrative che se non 
adeguatamente controllate generano corruzione, sprechi, abusi di potere,
 imposizioni di tasse esose, aumento del debito e dissoluzione dei 
rapporti di fiducia tra Stato e cittadini. E' vero, ci è stato detto che
   "Abbiamo bisogno di capacità decisionali e di procedimenti 
legislativi più rapidi e non di un sistema immaginato e pensato a quei 
tempi, in cui forse si credeva si dovesse decidere raramente".
 Ebbene, dobbiamo ricordare che  la rapidità non è sinonimo di migliore 
qualità o efficacia dei provvedimenti. Anzi. Siamo ancora impantanati  
nei problemi creati dalla fretta dei governi e dalle loro false 
priorità. Inoltre, il sarcasmo fuori posto è sempre una forma di 
denigrazione e, in questa frase, è chiara la volontà di delegittimare 
un'Italia che i denigratori  non hanno né conosciuto né studiato.
D. Cosa trascurano?
R. Più
 che trascurare, in realtà non sanno e quindi non possono nemmeno 
ricordare. Questo progetto fa parte dello schema di rottamazione non di 
ciò che non funziona, ma di ciò che non si conosce. Siccome l'ignoranza è
 molta, non deve stupire che la cosiddetta rottamazione colpisca a 
vanvera in molti settori. Se i denigratori non possono ricordare, 
potrebbero ascoltare, ma di solito l'ignoranza va di pari passo con 
l'arroganza e perciò bisogna accontentarsi di dire cose che non 
ascolteranno mai. Noi però possiamo ricordare che quel sistema immaginato nel
 1948 è stato realizzato e ha preso le decisioni più difficili della 
nostra storia. Con successi e insuccessi abbiamo recuperato credibilità 
internazionale, risollevato l'economia, affrontato emergenze naturali 
senza scandali, combattuto il terrorismo e la mafia, ristrutturato le 
Forze Armate e le abbiamo spedite in ogni angolo della Terra a 
rappresentare l'Italia e abbiamo raggiunto il quarto posto fra sette 
delle maggiori economie (G-7). Poi, con una breve stagione di 
"decisionisti" e  fantasiosi innovatori abbiamo decuplicato il debito 
nazionale, aumentato la disoccupazione e il precariato, diminuito la 
nostra competitività. Infine, grazie alle virtù taumaturgiche del 
mercato, dei tecnocrati e dei rottamatori abbiamo centuplicato il debito
 e siamo stati malamente coinvolti in una crisi che non ci avrebbe 
riguardato così da vicino, se non avessimo avuto immaginifici finanzieri
 di Stato e speculatori privati rivolti esclusivamente allo sfruttamento
 delle bolle finanziarie.
D. E oggi come siamo messi?
R. Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria e
 siamo più deboli in Europa, sminuiti nella capacità di sicurezza,  
succubi delle decisioni altrui, allontanati dai tavoli di discussione 
globali ed europei, ultimi nella graduatoria del G7, incapaci di 
provvedere al rilancio dell'economia e costretti ad elemosinare non 
denaro (che nessuno regala), ma la possibilità di fare altri debiti. Non
 si può addossare la responsabilità di tutto questo solo al sistema 
bicamerale o ai governi del passato. Negli ultimi dieci anni sono state 
approvate più leggi richieste dal Governo che quelle promosse dal 
Parlamento. In alcuni periodi delle legislature passate e di quella 
presente si è legiferato con le procedure di urgenza su cose che non 
erano affatto urgenti, si sono blindate leggi e leggine d'iniziativa 
governativa (109 in questa legislatura), facendo ricorso eccessivo ai 
colpi di maggioranza, alle deleghe al governo (13 a quello attuale su 
temi  fondamentali come lavoro, scuola, comunicazione pubblica ecc.) e 
al voto di fiducia al governo (ben 56 volte negli ultimi due anni e 
mezzo). Oggi non andiamo a votare per migliorare, ma per 
 istituzionalizzare un Parlamento defraudato del potere legislativo e 
assoggettato al potere esecutivo molto di più di quanto non lo sia già 
ora.
D. Un altro elemento su cui insistono i fautori della riforma è la governabilità. Argomento convincente, a suo parere?
R. La "governabilità" è
 ormai un dogma. Ma non è un'invenzione di oggi. Il tema è stato 
sollevato per primo da Bettino Craxi (fine anni '70), quando con i voti 
di un partito largamente minoritario voleva guidare per sempre l'intero
 Paese. Non a caso parlava di governi di legislatura (che stessero al 
governo "certamente" almeno per turni di 5 anni) o di "governo 
presidenziale", pensando di diventare presidente. Ma i governi erano 
comunque coalizioni di grandi partiti che godevano anche dell'appoggio 
esterno di alcune opposizioni. La democrazia non era in pericolo, semmai
 era evidente l'insofferenza di un leader carismatico nei confronti dei 
grandi partiti. Lo stesso tema fu affrontato da Spadolini nel 1982 in 
maniera geniale, anche se inattuabile. Anche lui leader carismatico, 
esponente di un partito abbondantemente minoritario, ma giuridicamente 
molto più preparato di Craxi, individuò il collante fra le coalizioni, 
non nell'egemonia del partito più numeroso, ma in una presunta forza 
istituzionale del Presidente del Consiglio. Di fatto, sostituiva la 
forza dei partiti con la forza del ruolo di Capo del Governo. Intendeva 
istituire il "regime del primo ministro" al posto del "regime dei 
partiti". "Perché -diceva- il
 governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, 
anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche per 
chi ancora non vota e voterà domani». Era una proposta al limite 
della liceità costituzionale e valeva finché ci si credeva. Ma lui era 
Spadolini e governò a modo suo, non per molto, ma senza modificare una 
sola virgola della Costituzione. Nel caso si fosse resa necessaria una 
riforma, Spadolini ebbe a dire: "Il governo ricercherà sempre con l'opposizione lo "idem sentire de Constitutione". Questa riforma è lontana anni luce dall'idem sentire di
 Spadolini e di tutti i Padri costituenti. Non vuole eliminare "il 
regime dei partiti", ma istituire il regime di un partito, anche se 
oggettivamente non maggioritario, come lo sono tutti i grandi partiti di
 oggi.
D. E' stato detto che la riforma è necessaria per realizzare "un
 processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo 
compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra 
Unione Europea, Stato e Autonomie territoriali".
R. Magari
 lo fosse, e magari fosse stato spiegato chiaramente cosa sarebbe 
necessario. E' stato invece raffazzonato un discorso che parla di 
razionalizzare "alla luce dei 
provvedimenti già presi in relazione allo spostamento del baricentro 
decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di 
integrazione europea e, in particolare, l'esigenza di adeguare 
l'ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica
 europea (da cui sono discesi, tra l'altro, l'introduzione del Semestre 
europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative 
stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della 
spesa); le sfide derivanti dall'internazionalizzazione delle economie e 
dal mutato contesto della competizione globale". Sono parole testuali della proposta, ma più che un proposito, lo sproloquio sembra una "captatio benevolentiae"
 nei confronti dell'Europa. Un'inutile piaggeria, che non ha più senso 
visto che l'integrazione europea è più lontana che mai, la governance europea
 è in crisi grazie anche agli atteggiamenti estemporanei del nostro 
governo (prima, durante e dopo Bratislava) e che nella cosiddetta 
riforma non c'è nulla che risponda alle sfide 
"dell'internazionalizzazione economica". Oggi in campo internazionale 
siamo ad un livello di guerra fredda molto vicino alla guerra calda tra 
blocchi contrapposti, come nel 1946, in Europa, in Asia e quindi in 
tutto il mondo. Gli equilibri stanno cambiando rapidamente e in modo 
pressoché incontrollato. Gli stessi Stati Uniti non sanno dove andare e 
domani forse scopriranno di non voler e non poter andare da nessuna 
parte. Oggi, in Italia siamo sicuramente in piena guerra fredda interna:
 da vent'anni siamo prigionieri di una dicotomia fra destra e sinistra 
che ancora parla di comunismo e fascismo. Grazie all'arroganza di 
partiti personalizzati il Paese è spaccato apparentemente in due, ma 
sostanzialmente in cento pezzi.
D. E' una questione che riguarda esclusivamente i partiti politici?
R. No,
 è dovuta anche all'avidità dei poteri economici, industriali e 
finanziari che sostengono i partiti per i propri interessi, i quali non 
necessariamente coincidono con l'interesse collettivo, meno che mai con 
il bene pubblico. Ma i partiti hanno un'aggravante: hanno interpretato 
l'articolo 49 della Costituzione come l'investitura di ciascuno di essi 
alla rilevanza costituzionale. Il segretario di un partito si sente - e 
di fatto è stato considerato dagli stessi presidenti della Repubblica - 
come un "organo costituzionale". In realtà l'articolo 49 stabilisce la 
libertà dei cittadini di associarsi in partiti, ma non assegna a essi 
altra funzione se non quella di permettere che i cittadini concorrano con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
 La rilevanza costituzionale è dei cittadini, non dei partiti. In realtà
 i tre partiti maggiori del panorama italiano non assicurano affatto il 
metodo democratico, ma quello monocratico o al massimo oligarchico, 
autoritario e personalizzato. Non danno alcuno spazio di dissenso al 
loro interno e sono da tempo impegnati in una delegittimazione reciproca
 che ha prodotto la sclerosi delle strutture interne e la completa 
sfiducia dei cittadini nella politica in generale.
D. Eppure questa riforma è passata con l'avallo del Parlamento.
R. Certo,
 ma non nella misura necessaria alla sua promulgazione. Tant'è che 
andiamo al Referendum proprio perché non è stato raggiunto l'accordo 
richiesto dalla stessa Costituzione. In compenso ci è stato detto che 
questa riforma ha rispettato tutti i parametri costituzionali e 
democratici. In realtà, l'iter di questa riforma, come quella bocciata 
nel 2006, è stato caratterizzato dalla prevalenza del metodo "a colpi di
 maggioranza", abbandonando l'equilibrio previsto dalla Costituzione tra
 leggi "consensuali" e "maggioritarie".  Si è invece rafforzata la 
presunta equivalenza fra principio democratico e principio 
maggioritario. Le modifiche alla Costituzione o alla forma di governo e 
della rappresentanza (come nel caso della legge elettorale) scaturiscono
 dalla convenienza della maggioranza di turno: nel periodo 2000-2015, 
ben nove (su dieci) leggi di revisione della Costituzione sono state 
approvate con i soli voti della maggioranza parlamentare, senza cercare 
larghe intese all'interno delle forze.
D. La nuova legge ha il sostegno di intellettuali, sindacalisti, forze economiche e finanziarie.
R. Non mi sorprende. Molti sono in buona fede perché attratti dal canto delle sirene sui
 risparmi e sulla limitazione dei politici o soltanto dalla voglia di 
punire il sistema o i partiti avversari. Alcuni poteri cosiddetti forti 
sono attratti dalla prospettiva di avere un governo a propria disposizione.
 Altri pensano alla pancia quotidiana e sostengono chi promette di più o
 elargisce elemosine elettorali. Qui il governo ha buon gioco perché è 
l'unico in grado di promettere, anche se sa benissimo di non poter 
mantenere. Ma è soltanto un escamotageche
 deve durare un mesetto ed è una sorta di competizione sleale perché gli
 oppositori, non essendo in campagna elettorale per la legislatura, non 
possono promettere niente altro che la fine del governo. Aumentando così
 l'incertezza di chi spera nei bonus e la diffidenza degli stranieri.
D. A detta dei fautori del Sì, non vengono alterate le Istituzioni democratiche. E' così?
R. Secondo
 la definizione socio-economica più moderna e coerente, lo scopo di una 
"Istituzione" (e il Senato è una Istituzione) è quello di garantire
 la corretta applicazione delle  norme stabilite tra l'individuo e 
la società o tra l'individuo e lo Stato, sottraendole  all'arbitrio 
individuale e all'arbitrio del potere in generale (Haidar 
J.I.-2012). Ebbene, questa riforma nega e offende le Istituzioni 
democratiche: nei fatti stravolge l'impianto istituzionale dello Stato 
aumentando l'arbitrio individuale, o di un gruppo, e l'arbitrio del 
potere in generale. Il mio non è un giudizio teorico o di principio. 
Come uomo, soldato e cittadino con oltre 46 anni di servizio nell'ambito
 di una istituzione fondamentale come le Forze Armate, deputate alla 
difesa della Patria, anche in guerra, non posso condividere una riforma 
che sottrae al Parlamento la decisione sulla più drammatica evenienza di
 uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma proposta indica infatti
 nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa maggioranza 
monocamerale, il responsabile di tale decisione.
D. Ma la guerra non è un'evenienza remota?
R. E'
 vero che sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno 
più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che 
ormai scendono in guerra per ogni cosa. Ma anche loro, pur chiamando 
'guerra' qualsiasi sforzo interno ed internazionale, pur individuando 
nemici in ogni interlocutore, pur usando gli strumenti di guerra come 
prima risorsa d'emergenza e pur avendo inventato la guerra preventiva 
che non previene, ma anzi anticipa la guerra, sono ben attenti ad 
evitare con cura qualsiasi dichiarazione formale di guerra. Oggi, 
specialmente da parte dei Paesi europei e della Nato, la guerra si fa 
senza dichiararla o semplicemente cambiandone il nome. E, comunque, 
neppure l'impegno della Nato nella difesa collettiva (articolo 5 del 
Trattato) costringe in modo automatico ad intervenire con le armi. Ogni 
Paese membro può (e deve) scegliere in che maniera contribuire alla 
difesa collettiva.
Tuttavia, se la norma 
che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto 
amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non lo è 
affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo
 caso, l'abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara 
manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a
 partire dall'atto più drammatico delle loro funzioni: la deliberazione 
sulla guerra. Il Parlamento riformato ha uno squilibrio a favore della 
Camera e questa, per effetto della legge elettorale maggioritaria e dei 
premi di maggioranza esagerati, ha uno squilibrio a favore del Governo. 
Di fatto, il nuovo Parlamento e lo stesso Governo cessano di essere 
organi legislativi rappresentativi di tutto il Paese e perdono la 
qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome del popolo 
italiano e quindi anche la facoltà di assumere ogni altra decisione che 
comporti analoghi sacrifici per tutta la popolazione e il trasferimento 
di risorse, poteri e funzioni da una istituzione all'altra.
D. Sono squilibri pericolosi ?
R. Nella
 sostanza sì. Se tali squilibri consentono di accelerare le decisioni 
del Governo in nome della cosiddetta governabilità, non è detto che 
favoriscano solo i provvedimenti giusti ed equanimi, adottati in nome e 
per conto del bene pubblico. Abbiamo continuamente esperienze di 
provvedimenti ad personam e a 
favore di gruppi di potere e di avventure che non hanno nulla a che 
vedere con il bene pubblico. Il Senato riformato  che non è più una 
Istituzione, perché non ha poteri equilibratori nell'ambito del 
Parlamento, è una costosa conferenza saltuaria di amministratori locali,
 la cui legittimazione nell'incarico "complementare" dipende 
dall'arbitrio di chi li ha  designati. Voto No all'eliminazione 
dell'equilibrio dei poteri e dei contrappesi istituzionali che di fatto 
conduce all'arbitrio del potere del partito di maggioranza del momento. 
Voto No al vilipendio delle istituzioni parlamentari (e non solo) 
esercitato da un partito che designa parlamentari e senatori non per 
esigenze di rappresentatività, ma per clientelismo e corruzione. Voto No
 perché non voglio essere rappresentato in Parlamento e nelle altre 
istituzioni nazionali ed europee da personaggi ignoranti, compromessi, 
immorali e pregiudicati. Abbiamo già vissuto il tempo del disprezzo nei 
confronti delle nostre Istituzioni  quando a occuparle venivano 
designati amici, clienti e compagni o compagne d'alcova. Me ne sono 
vergognato profondamente quando in campo internazionale, politico e 
militare, si lanciavano battutacce sui nostri governanti. Voto No perché
 ciò non si ripeta. E comunque non si ripeterà con il mio sostegno o la 
mia indifferenza.
D. Riflessioni come le sue hanno avuto la possibilità di raggiungere i cittadini?
R. Se
 lo hanno fatto non è certo per merito del Governo o della comunicazione
 pubblica. Ci avevano detto di voler rispettare le regole democratiche 
anche nella comunicazione. In realtà le voci di coloro che, come me, 
hanno servito lo Stato e difeso le istituzioni democratiche con 
disciplina e onore, e quelle di coloro che, come tantissimi,  hanno 
lavorato per l'Italia rappresentandone l'eccellenza culturale, 
tecnologica, economica, istituzionale e di solidarietà sono state 
soffocate dal vocio della propaganda di Stato. Ben prima della decisione
 di ricorrere al Referendum il Governo intero ha occupato tutti gli 
spazi di comunicazione, tramutando il legittimo sostegno a una propria 
proposta in bagarre affaristica e
 campagna ideologica a dispetto e scapito dell'equilibrio e dell'unità 
nazionale. Con il ricorso al referendum, la consultazione si è 
trasformata in una sfida tra sì e no, a prescindere da cosa 
significassero. C'è stata la conta degli amici e dei nemici, dei clienti
 riconoscenti e dei candidati a posti e poltrone accondiscendenti. La 
giusta perorazione della causa riformistica è stata volutamente 
personalizzata, fino a farla diventare una scommessa sulla stessa 
sopravvivenza del Governo. Come tutte le scommesse è stato un gioco, un 
azzardo, un bluff, un rischio e 
un ricatto sostenuti da una mobilitazione mediatica senza precedenti. 
Ogni canale di discussione moderata e costruttiva è stato occupato da 
comizi e spettacoli celebranti una grande festa della Dis-Unità. Gli 
spazi d'informazione pubblica (una risorsa di e per tutti) sono stati 
spesi (anche in senso economico) solo a favore del marketing 
governativo, in Italia e all'estero.
D. Come definirebbe la sua posizione, conservatrice o progressista?
R. Direi
 molto progressista. Esprimo il mio No a questa riforma  con spirito 
costruttivo, perché  non voglio che il mio Paese rimanga intrappolato in
 un sistema che assegna i poteri dello Stato a una maggioranza risicata e
 faziosa, frutto dell'allontanamento dei cittadini dalla politica, senza
 nessun organo di controllo e bilanciamento dei poteri. Mi è stato fatto
 osservare che in tutti i Paesi del mondo "va al comando" il partito di 
maggioranza relativa, e che l'evanescenza delle opposizioni non dipende 
dalla legge elettorale. E' vero, e infatti non ho mai apprezzato il 
concetto di un partito "al comando". I partiti dovrebbero essere al 
servizio della comunità, esattamente come le istituzioni, i governi e le
 amministrazioni pubbliche.
Ma anche dove i partiti 
godono di ampia maggioranza ci sono differenze sostanziali.  Ho vissuto 
abbastanza a lungo nei due paesi a sistemi opposti per capirne gli 
effetti: la democrazia americana e il regime del partito comunista 
cinese. La democrazia americana non è tale perché votano i cittadini, 
che fra l'altro non votano per eleggere l'uomo al comando, ma perché 
esistono istituzioni in grado di limitare gli abusi del potere. Il 
Congresso, a prescindere dalla maggioranza del momento, è il più feroce 
censore del potere esecutivo. La magistratura suprema segue a ruota, ma 
una serie di comitati parlamentari hanno poteri che possono indirizzare e
 raddrizzare la politica del governo. Inoltre, spesso sono gli stessi 
partiti, i media, le lobby e i comitati di cittadini a limitare i 
propri leader.
In Cina c'è un partito 
che occupa tutto e impone la propria politica a tutti. Si avvale di 
strutture legislative permanenti per gli affari correnti e di 
un'assemblea annuale dei rappresentanti del popolo per approvare le 
grandi leggi: si vota per alzata di mano su ogni proposta e si torna a 
lavorare. C'è anche una sorta di senato: è la Conferenza Consultiva che 
raggruppa i rappresentanti dei partiti, varie etnie, associazioni 
popolari, amministratori locali e personalità indipendenti. Non ha alcun
 potere effettivo ed è diretta dallo stesso Partito Comunista, che 
comunque la utilizza come foglia di fico per spacciare una parvenza di 
democrazia. In Cina il vero equilibrio fra i poteri e la garanzia di una
 dialettica politica si realizzano all'interno del partito stesso che è 
tutt'altro che monolitico o cristallizzato. L'ostentata ammirazione per 
il sistema americano da parte del nostro Governo è smentita proprio 
dalla riforma: il sistema che vuole instaurare con la riforma è 
lontanissimo da quello americano e vicinissimo al sistema cinese. Con 
due  differenze: da noi il partito di regime non assicura alcuna 
dialettica equilibratrice interna e i rappresentanti alla Camera 
bivaccano in permanenza a Roma.
D. E l'intervento popolare tramite il Referendum?
R. E'
 importante ma non sarà determinante finché la partecipazione non sarà 
veramente significativa. Non si può ricorrere sempre ai referendum per 
colmare le incapacità della politica, anche perché gli stessi referendum
 costituzionali, che dovrebbero essere i più importanti, dimostrano la 
disaffezione popolare nei confronti della politica e s'indeboliscono 
nella capacità effettiva di rappresentare la Nazione. Alla prima 
consultazione referendaria sulla Costituzione della nostra storia, il 7 
ottobre 2001,  si recò a votare solo il 34,1 % degli aventi diritto e i 
voti validamente espressi furono per il 64,2 % favorevoli alla modifica 
costituzionale: erano appena il 21% degli aventi diritto. Alla seconda, 
quella del 25-26 giugno 2006, votò il 52,30% degli aventi diritto e la 
legge voluta da Berlusconi fu respinta dal  61,32% dei votanti: appena 
il 32% degli aventi diritto.
D. Come riassumerebbe le sue motivazioni?
R. Voto
 No ad una riforma che spacca il paese e prelude ad una frattura ancora 
più ampia e pericolosa fatta di disprezzo per le Istituzioni, rigetto 
delle opposizioni, soppressione delle minoranze  e ghettizzazione delle 
intelligenze non allineate: tutti segni storicamente premonitori di 
dittatura e  guerra civile.
Voto No perché il 
sistema proposto è già in atto e non funziona, anzi mortifica le 
istituzioni e minaccia la democrazia. Soltanto con il No  si può pensare
 di rettificare questo stato di fatto e avviare la stagione delle 
riforme equilibrate ed efficaci.
Voto No perché il 
governo, qualunque esso sia, e le istituzioni nazionali a partire dal 5 
dicembre si dedichino a risolvere i problemi strutturali  che gravano 
sulla nostra nazione, i problemi della ripresa economica, di 
compattazione sociale e di disaffezione politica e formuli  finalmente 
un progetto per riunire i cittadini italiani e le forze politiche 
attorno ad una Costituzione rinnovata ma condivisa.
Voto No oggi per avere domani (e non dopodomani) la possibilità di vedere una riforma seria e corretta.
Voto No perché mi si 
chiede di esprimermi con un monosillabo su un insieme di elementi 
disomogenei, appartenenti a materie molto diverse e  dagli effetti 
indecifrabili se non indagati dal punto di vista tecnico-giuridico. 
Invece di approfondire e sviscerare tali aspetti, mi si chiede di votare
 senza considerarli, quasi a voler nascondere il fatto che proprio tra 
essi  si annidano tutti gli elementi distruttivi e destabilizzanti della
 riforma. Mi si chiede un voto di fiducia cieca, ideologico, che non 
lascia a me, e a nessun cittadino libero di ragionare con la propria 
testa, altra alternativa che il No.
D. Secondo lei, è questa l'ultima occasione per fare le riforme?
R. Il
 No è l'ultima occasione per  stroncare sul nascere i propositi 
inaugurali di una stagione di continue ulteriori modifiche alla 
Costituzione, rese via via più facili e incontrollate da questa stessa 
riforma, tendenti a stravolgere completamente l'assetto istituzionale 
del nostro Stato. In questo senso, non mente chi dice che il 4 dicembre 
non è un traguardo finale, ma uno striscione di partenza.
 Tuttavia, soltanto con il No parte l'Italia Unita, di tutte le fedi e 
convinzioni, per riaffermare la Democrazia, la Giustizia e la Libertà 
volute da tutti gli Italiani che per esse hanno sofferto privazioni, 
vessazioni, torture e che per esse hanno versato il proprio sangue in 
guerra e in pace. In caso contrario, con il Sì,  parte la vera corsa al 
potere assoluto di una maggioranza di palazzo. Anche questa è stata una 
delle cause storiche delle dittature, delle guerre civili, dei colpi di 
stato, delle rivoluzioni.
 .
(*) Fabio Mini, generale di Corpo d'Armata, è stato capo di Stato 
maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, a partire dal gennaio 
2001, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani. 
Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante delle Operazioni 
di pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo nell'ambito 
della missione KFOR (Kosovo Force).
Fonte: 
http://www.libertaegiustizia.it/2016/11/12/referendumgenerale-fabio-mini-no-a-riforma-che-sottrae-al-parlamento-decisione-su-dichiarazione-di-guerra/
http://megachip.globalist.it