Sentenza definitiva della
Corte d’Appello. Sul caso di un sottufficiale morto di cancro dopo la
missione in Kosovo. Con “l'inequivoca certezza” del nesso di causalità
tra esposizione alla sostanza tossica e la malattia. L’avvocato
Tartaglia: “Dimostrato che i vertici militari conoscevano i pericoli e
non hanno fatto nulla per prevenirli”. Leggiero (Osservatorio militare)
chiede un incontro a Mattarella (che declina)
E’ una storia di silenzi, omissioni e verità nascoste. Ma anche di morte e sofferenza. La racconta la prima pronuncia della Corte d’Appello, definitiva dal 20 maggio, sui casi dei decessi legati all’uso dell’uranio impoverito in Kosovo. Ed è una sentenza dirompente. Non solo per l’entità del risarcimento record (quasi 1 milione 300 mila euro
oltre al danno da ritardato pagamento) accordato ai familiari di un
militare italiano ammalatosi e deceduto per un tumore contratto dopo
aver partecipato proprio a quella missione. Ma anche per le motivazioni con le quali il ministero della Difesa è stato condannato a pagare.
Innanzitutto, perché la decisione della I sezione civile della Corte
d’Appello di Roma conferma, come già accertato dal Tribunale, «in
termini di inequivoca certezza, il nesso di causalità tra l’esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale». Ma, sanziona, come già fatto dal giudice di primo grado, anche la condotta dei vertici delle Forze Armate per aver omesso di informare i soldati «circa lo specifico fattore di rischio connesso dell’esposizione all’uranio impoverito».
DIFESA A RISCHIO In pratica, come spiega al ilfattoquotidiano.it l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia,
che rappresentava in giudizio i familiari del sottufficiale morto dopo
aver prestato servizio in Kosovo tra il 2002 e il 2003, la sentenza «ha
accertato non solo che i vertici militari erano a conoscenza dei rischi derivanti dall’esposizione all’uranio impoverito, ma anche che non hanno fatto nulla per prevenirli».
E a niente sono valse, sul punto, le doglianze del ministero della
Difesa. Perché perdere la vita in guerra per una pallottola -è il senso
della sentenza- fa parte dei rischi del mestiere di un militare. Ma
altro conto è morire contraendo un tumore per l’esposizione a sostanze
tossiche ignorandone i possibili effetti che, invece, come sostiene la sentenza, erano noti ai vertici della difesa.
TUTTI IN PROCURA «Fino alla decisione della Corte d’Appello, anche sulla base delle conclusioni delle varie commissioni parlamentari che si sono occupate dei casi di tumore da esposizione all’uranio impoverito che hanno coinvolto diversi militari italiani, il nesso di causalità era confinato nel campo della probabilità – aggiunge l’avvocato Tartaglia –. Questa sentenza, invece, stabilisce il principio dell’inequivoca certezza, cioè che la causa della malattia contratta dal militare poi deceduto è proprio l’esposizione a questa sostanza». Aprendo, adesso che è passata in giudicato, scenari giudiziari imprevedibili. «Perché si tratta di una decisione – prosegue il legale – che potrebbe dar luogo a responsabilità penale per reati gravi
perseguibili anche d’ufficio». Insomma, non è da escludere che la
decisione del giudice civile e la condotta dei vertici militari
diventino materia d’interesse anche per la Procura della Repubblica.
SILENZI COLPOSI Sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado avevano ripercorso alcune tappe della vicenda legate alla missione in Kosovo poste poi a fondamento delle rispettive decisioni. L’utilizzo dei proiettili all’uranio impoverito (cosiddetti DU) «era stato confermato dal memorandum del Department of the Army – Office of Surgeon General» del 16 agosto 1993, «dalla Conferenza di Bagnoli del luglio 1995», dalla «relazione della commissione d’inchiesta del Senato approvata in data 13 febbraio 2006» e «dalla deposizione del dottor Armando Benedetti», esperto qualificato in radio protezione del Cisam
(il Centro interforze studi per le applicazioni militari) ascoltato
proprio dalla commissione parlamentare in merito all’utilizzo del DU in
Kosovo ed alla riscontrata presenza della sostanza nella catena
alimentare. Tutti elementi dai quali «poteva evincersi che il
ministero della Difesa fosse a conoscenza dell’esistenza dell’uranio
impoverito durante la missione di pace o quanto meno sul serio rischio
del suo utilizzo nell’area, nonché degli effetti del DU per la salute
umana». Insomma, secondo i giudici, sussistevano «tutti i requisiti per configurare una responsabilità del ministero della Difesa… per avere colposamente omesso di adottare tutte le opportune cautele atte a tutelare i propri militari dalle conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito».
SCAMBI AL VERTICE Ma nella vicenda c’è anche un risvolto extragiudiziario sollevato da Domenico Leggiero,
responsabile del comparto Difesa dell’Osservatorio militare del
personale delle forze armate. Riguarda gli scambi di informazione che ci
furono sul tema tra vertici militari e politici. E che interessa anche
l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, già vice presidente del Consiglio (dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999) del governo D’Alema e ministro della Difesa
(dal 22 dicembre 1999 all’11 giugno 2001) sempre con l’esecutivo
D’Alema e successivamente con quello Amato. Quando il militare deceduto,
della cui vicenda si occupa la sentenza della Corte d’Appello, prestava
servizio in Kosovo tra il 2002 e il 2003, l’attuale capo dello Stato
non rivestiva più alcuna carica di governo. «Ma da ministro», ricorda
Leggiero, «sulla questione delle munizioni arricchite con uranio
impoverito impiegate nella guerra dell’ex Jugoslavia era intervenuto più
volte dopo i primi casi di leucemia che avevano iniziato ad abbattersi
sui reduci delle missioni nei Balcani». Il 27 settembre 2000, Mattarella in effetti rispose in Parlamento
ad un’interrogazione relativa a due episodi di decessi verificatisi tra
i militari italiani. «Nel primo caso il giovane, vittima della
malattia, non era mai stato impiegato all’estero – spiegò l’allora
ministro della Difesa –. Nel secondo caso il giovane militare era stato
impiegato in Bosnia, a Sarajevo precisamente, dove non vi è mai stato uso di uranio impoverito». Circostanza poi rivelatasi non vera. Perché in Bosnia, zona di Sarajevo compresa, gli aerei americani scaricarono 10.800 proiettili all’uranio impoverito. E lo stesso Mattarella, tre mesi dopo, il 21 dicembre 2000, ne prese atto.
PROTEZIONE ASSICURATA Il 10 gennaio 2001, Mattarella intervenne di nuovo al Senato:
«Per quanto riguarda il Kosovo, come è noto da allora, la Nato, nel
maggio 1999, ha fatto sapere di aver utilizzato in quella regione
munizionamento all’uranio impoverito… L’ingresso delle nostre truppe in
Kosovo è avvenuto successivamente alla notizia pubblica – ripeto –
dell’uso di munizioni all’uranio impoverito… Di conseguenza, fin dall’ingresso dei nostri militari in Kosovo si sono potute adottare misure di protezione adeguate».
Messaggio rassicurante, ma che adesso non trova riscontro nella
sentenza della Corte d’Appello di Roma passata in giudicato. Secondo la
quale, anzi, il vertice militare ha «colposamente omesso» di adottare misure adeguate per tutelare i nostri soldati. Per
cui, domanda Leggiero: «I vertici militari non hanno informato il
ministro? Cosa molto probabile. Hanno sdrammatizzato la situazione
convinti di controllare le conseguenze della vicenda? Cosa probabile. O,
infine, i vertici militari hanno detto la verità al ministro, che
quindi sapeva? Cosa molto poco probabile».
INCONTRO DECLINATO Comunque siano andate le cose, Leggiero ha scritto una
lettera all’attuale capo dello Stato Mattarella per avere un
incontro e discutere della vicenda dell’uranio impoverito.
Richiesta però declinata da un suo collaboratore: «Sono
spiacente di doverle comunicare», recita la risposta dal Quirinale,
«che l’agenda presidenziale, per i prossimi mesi, è fitta di impegni
istituzionali».