C’è un ideale per cui valga la
pena vivere, più potente di quello per cui i terroristi muoiono? Un
ideale per vivere è molto di più di uno per cui morire
Parigi,
15 novembre 2015. La folla sul sagrato di Notre Dame in occasione della
Messa dopo gli attentati terroristici del 13 novembre
Dopo la strage che ha sconvolto nuovamente il mondo lo scorso
13 novembre a Parigi,
risuona ancora una volta l’affermazione impressionante contenuta nel
comunicato di rivendicazione dell’attentato dell’11 marzo 2004 a Madrid,
attribuito al portavoce di Bin Laden: «Noi amiamo la morte più di
quanto voi amiate la vita». Già dopo la tragedia apocalittica delle
Torri Gemelle a New York l’Occidente era rimasto sconvolto dalla furia
ideologica dell’estremismo fondamentalista di matrice islamica, ma
Madrid e Londra prima, Parigi ora hanno oscurato l’idea pur giusta e
tranquillizzante di un’Europa centro del dialogo con tutti, luogo di
apertura sul Mediterraneo e nesso col Medio Oriente. Questa idea è messa
in discussione dal terrore, che è precisamente lo scopo del terrorismo:
riempire di incertezza e confusione l’urgenza di una reazione, che
protegga noi, le nostre città e il nostro mondo. Ma proprio il fatto che
tutti avvertiamo la necessità di difenderci deve farci riflettere su
cosa vogliamo veramente difendere e quale sia la difesa vincente sul
lungo periodo.
Che cos’è la paura che ci fa sentire insicuri, precari e sospettosi,
quando per strada, al bar, in treno e soprattutto in aeroporto vediamo e
sentiamo persone o gruppi diversi da noi chiacchierare in una lingua
che ci sembra arabo? Il nostro benessere, la nostra organizzazione
sociale, il nostro ordine non bastano a darci certezze, a contrastare
quella dedizione che i terroristi hanno per la morte, sì da sembrare
indomabilmente più forti di noi. C’è un ideale per cui valga la pena
vivere, più potente di quello per cui i terroristi muoiono?
Un ideale per vivere è molto di più di uno per cui morire. Nel primo
caso, la vita, pur con il suo carico di contraddizioni e sofferenze, è
positiva, luogo di significato, compimento e promessa di compimento. I
martiri cristiani hanno dato e purtroppo danno la vita, vivendo e
affermandola anche quando viene loro tolta violentemente. Nel secondo
caso, la vita propria e altrui è insignificante e vi si può rinunciare o
sopprimerla per un utopico progetto di paradiso terreno o
ultra-terreno. Si tratta di una declinazione più elementare delle
ideologie che hanno insanguinato il Novecento. Mentre siamo impegnati a
discutere di quale spazio dare a presunti nuovi diritti, indifferenti o
polemici con i valori e le verità della nostra tradizione, siamo
investiti da un treno in corsa, che travolge la nostra superficialità e
disattenzione.
Il buio della tragica ondata di nonsenso, di cui siamo vittime e
autori, deve trasformarsi in una spinta cogente a riflettere su chi
siamo e così cercare una sponda per un possibile cambiamento, per un
possibile sguardo nuovo sulle cose. C’è ancora qualcosa per cui
continuare a uscire di casa, andare al lavoro, metter su famiglia,
portare i figli a scuola, anche solo andare al cinema, a fare la spesa o
partire per un viaggio, curarsi per una malattia, assistere chi ha
bisogno, decidere di continuare a respirare stesi su un letto di
ospedale senza più poter muovere un muscolo se non le palpebre… insomma
vivere e convivere?
Nel corso di un ritiro spirituale tenuto agli studenti universitari
di Comunione e Liberazione nel 1994, don Giussani raccontò un episodio
riguardante madre Teresa di Calcutta. Un giornalista aveva intervistato
una giovanissima suora di madre Teresa, non ancora ventenne, e lei
disse: «Ricordo di aver raccolto un uomo dalla strada e di averlo
portato nella nostra casa». «E cosa disse quell’uomo?». «Non biascicò,
non bestemmiò, disse soltanto: “Ho vissuto sulla strada come un animale e
sto per morire come un angelo, amato e curato. (…) Sorella, sto per
tornare alla casa di Dio” e morì. Non ho mai visto un sorriso come
quello sulla faccia di quest’uomo.» Il giornalista replicò: «Perché
anche nei più grandi sacrifici sembra che non ci sia sforzo in voi, che
non ci sia fatica?». Allora intervenne madre Teresa: «È Gesù quello a
cui facciamo tutto. Noi amiamo e riconosciamo Gesù, oggi». E commentava
don Giussani: «Quel che c’era ieri o è oggi o non c’è più». È proprio
questo “oggi” che fa la differenza, il riconoscere quello sguardo sulla
propria vita oggi, non ieri o 2000 anni fa.
I messaggeri del nulla
Perché uno avverte immediatamente come bene un gesto come quello
descritto, a prescindere dalla propria posizione religiosa o ideologica?
Perché è profondamente umano e quindi vero per tutti. Risveglia
qualcosa che c’è nell’io, che magari uno neanche si ricorda di avere.
Corrisponde! L’argine alla disumanità dei tempi è un cuore che desidera
vivere per il bene, per quel bene che rende ragione del passato e desta
la speranza per il futuro. L’ideale della libertà sul quale sono stati
costruiti i nostri paesi, sfida qualsiasi violenza dentro e fuori i
confini e ha la sua origine nel fatto che ogni singolo essere umano,
qualunque sia la sua condizione fisica e morale, è rapporto con
l’infinito e quindi ha un destino di cui nessuno può essere padrone.
Dare la vita per il bene della singola persona, non per distruggere
l’altro in nome della morte. Chi difende il nulla, chi nega l’urgenza di
sostenerci a cercare un significato per il vivere, fa da sponda ai
messaggeri della morte. Perché i messaggeri della morte sono i
messaggeri del nulla.
In questa situazione dobbiamo riconoscere che l’unica possibile
ripartenza è un’educazione autentica, la liberazione dell’io dalla
schiavitù di un orizzonte piccolo per la propria esistenza. Solo con un
ideale grande c’è libertà, e quindi coraggio per affrontare la vita,
comunque essa si presenti. La risposta adeguata a tale esigenza non
comincia con un’iniziativa nostra, ma dalla accoglienza di quello che
magari inconsapevolmente aspettiamo. È Natale!
Il grande annuncio
Il Natale, con la lieta notizia di Dio che si fa uomo, ci richiama
ad accorgerci che l’umanità più grande di cui abbiamo bisogno si
realizza attraverso l’ingresso nel mondo di una verità concreta, tanto
inaspettata quanto visibile e frequentabile. Questo ideale ha un punto
di verifica oggettivo che chiunque può riconoscere, in qualunque parte
del mondo, qualunque sia il suo credo, religione, cultura, genere o
sesso: esso afferma il bene e ama il destino di ogni singola persona.
Esiste un bene a cui dare la vita più grande del male che la nega?
Finché non cominceremo a spendere la nostra vita per rispondere a questo
interrogativo, saremo sempre schiavi della paura, perché la vita è
appesa a un filo. Papa Francesco ci ricorda che l’unica giustizia che
può trionfare è il nome di Dio e si chiama Misericordia: «Solo l’amore
riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nel cuore e nella
storia».
In questi giorni come duemila anni fa risuona in tutti gli angoli
della Terra per bocca di quella cristianità che ha costruito l’Europa il
grande annuncio con cui si avvia il vangelo di san Giovanni: «Veniva
nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo». Ma l’uomo di
oggi, stremato dalle proprie ansie e ferito dalle delusioni, saprà
ancora riconoscerla e accoglierla? Quello che propone il Papa con
l’istituzione del Giubileo della Misericordia è la presenza di una
realtà storica, positiva per noi tutti, contro qualunque minaccia di
male, tanto del nemico da fuori quanto della nostra meschinità da
dentro. La Chiesa si rivolge a noi come luogo scelto per ospitare e far
conoscere l’avvenimento di Cristo che permane nella storia. Questa
scalcagnata compagnia umana nella quale continua ad essere presente il
Verbo fattosi carne è il metodo che ha voluto Cristo stesso. Questa è in
fondo la nostra sicurezza, nient’altro.
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