La ricorrenza del 25 aprile e le pie banalità sulla «memoria condivisa»:
lasciamo le lacrimose omelie ai ciurmatori della peggiore demagogia
imperante semmai dedichiamo una riflessione alla possibilità di una
memoria condivisa
Se non vivessimo in un Paese la cui classe dirigente ha fatto della
furbizia da quattro soldi e dell'ipocrisia più spudorata il suo abito
mentale permanente, potremmo anche guardare ai sempre più frequenti
sermoni sulla necessità di addivenire a una «memoria condivisa» del 25
aprile in termini di un volonteroso, anche se patetico, sforzo di
riconciliazione. Ma nella Repubblica della menzogna eretta a sistema e
del calcolo politico sistematico, ove tutto è in vendita e tutto si
riduce al gioco delle fazioni per accaparrarsi quante più poltrone
possibile, «a pensare male - come diceva Andreotti - si fa certamente
un peccato, ma ci si azzecca quasi sempre» (parola di uno che se ne
intendeva, e se ne intende tuttora, parecchio).
Dunque: si invoca
una memoria condivisa, affinché il 25 aprile non sia più un giorno di
divisione, non sia più il segno clamoroso di un passato che non passa e
l'ostentazione della vittoria di una parte politica su un'altra parte
politica; ma un giorno di comprensione e, se possibile, di
riconciliazione.
Belle parole, senza dubbio.
Ma sono tutte balle.
Per la sinistra, le pie omelie sulla memoria condivisa sono il
tentativo di giungere a una pace ideologica di compromesso, dopo che il
crollo del muro di Berlino le ha dato la spiacevole sensazione di
essersi venuta a trovare dalla parte sbagliata della barricata; mentre
il vento del '68 -protrattosi per buona parte degli anni Settanta - le
aveva dato l'inebriante illusione di essere, per l'appunto, dalla parte
giusta (e prossima vincitrice), e che sarebbe bastato aspettare un altro
poco per raccogliere il frutto maturo della disgregazione della
borghesia.
Per la destra, si tratta di sdoganare definitivamente
il proprio passato fascista, anche nei libri di storia, dopo che già vi è
riuscita nelle due aule del Parlamento; anche se al prezzo - invero un
po' salato - di mostrarsi ogni giorno più realista del re, ad es. più
filo-sionista degli stessi americani, come quando l'onorevole Fini, con
lo zucchetto ebraico in testa, si è recato prima alla sinagoga di Roma,
poi a Gerusalemme, per deplorare la politica razziale del Fascio.
Per il centro - perché sia chiaro che il centro esiste tuttora, alla
faccia del preteso bipolarismo "alla anglosassone", e ancora decide le
sorti politiche del Paese, anche se è frazionato, per ragioni
strategiche, su entrambi i versanti in lotta (si fa per dire) - si
tratta di ricordare agli Italiani, popolo notoriamente dalla memoria
corta, che "loro lo avevano sempre detto" che fascismo e comunismo sono
due estremismi uguali e contrari; e che, quindi, dalla parte giusta
della Storia, erano sempre stati solo loro: gli esponenti e gli
ineffabili eredi della Democrazia Cristiana.
Tutti accomunati dalla stessa demagogia, dalla stessa furbizia e dalla stessa ipocrisia.
A nessuno importa un fico secco, in realtà, della pacificazione
nazionale, tanto è vero che non si lasciano sfuggire mai il minimo
pretesto per rinfocolare le diffidenze, le divisioni e gli odii; non c'è
fattaccio di cronaca (ad es. lo stupro di una donna italiana da parte
di qualche immigrato), non c'è emergenza, fatalità, frana, terremoto,
siccità o alluvione che non tornino buoni per andare a caccia di un
miserabile pugno di voti, dalle elezioni politiche a quelle
amministrative, aizzando animosità mai sopite e inimicizie mai
ricomposte, con diabolica astuzia e con una tenacia e perseveranza degne
davvero di miglior causa.
E a nessuno di quei signori importa
della pacificazione nazionale, per il semplice fatto che non solo
l'ideologia, ma anche la politica sono entrambe morte e sepolte, e tutto
quello che resta, in un paesaggio di macerie popolato ormai soltanto
dagli orribili mostri della speculazione edilizia tirati su da
palazzinari impenitenti, è una corsa scomposta al potere per il potere,
agli affari per gli affari, al denaro per il denaro; il tutto condito
dalla pratica sistematica della corruzione, della cialtroneria, del
totale disprezzo non solo della legalità, ma anche del pudore.
A
chi volete che importi se, il 25 aprile del 1945, vinse la parte
"giusta" oppure quella "sbagliata"? Questioni da lasciare agli storici
di professione, questioni tanto sottili quanto astratte e lontane: quel
che conta sono gli affari o, come diceva il buon re Luigi Filippo
d'Orléans, quel che conta è arricchitevi!, e al diavolo tutto il resto.
Perciò, lasciamo le lacrimose omelie sulla memoria condivisa ai
ciurmatori della peggiore demagogia oggi imperante; e, semmai,
dedichiamo una riflessione alla possibilità di una memoria condivisa
come problema civile, culturale e morale del popolo italiano, lontano
dalle ignobili strumentalizzazioni dei politici di mestiere.
E,
per farlo, sgombriamo il campo dalle versioni di comodo della nostra
storia recente, ristabilendo alcune semplici, anche se sgradevoli,
verità.
Punto primo: il 25 aprile non c'è stata alcuna Liberazione.
Infatti, tutti gli storici seri ammettono che, senza la sconfitta
militare dell'Asse, la Resistenza non solo non avrebbe vinto, ma neppure
sarebbe incominciata. La resistenza è incominciata dopo l'8 settembre
1943, ossia dopo l'armistizio di Badoglio con gli Anglo-americani; e
quell'armistizio è stato il punto d'arrivo del complotto del 25-26
luglio precedente. Checché se ne dica, il fascismo è caduto per un
suicidio del suo gruppo dirigente e, in seconda battuta, per un colpo di
Stato della monarchia, d'accordo con la massoneria, la chiesa e i
grandi industriali (questi ultimi terrorizzati dal progetto di Mussolini
di nazionalizzare le loro aziende): le tre forze che, ancora oggi, più
contano nel Bel Paese.
Se gli eserciti anglo-americani -
autoqualificatisi "liberatori"- non avessero risalito per due anni la
Penisola, cospargendola di macerie, da Montecassino a Treviso e alla
martire Zara, fino a raggiungere, nell'aprile del 1945, la valle del Po,
non ci sarebbe stata nessuna Liberazione. E con ciò non intendiamo
negare valore morale all'azione di quanti, nella resistenza, si
batterono per nobili ideali di libertà e di giustizia, ma semplicemente
riportare le cose alle loro giuste proporzioni. Niente sbarco alleato in
Sicilia nel luglio 1943, niente complotto reazionario e monarchico
contro Mussolini; niente governo Badoglio, niente resistenza e niente
aiuti alleati alla resistenza; niente forzamento della Linea Gustav
prima, della Linea Gotica poi, niente Liberazione e niente festa del 25
aprile.
Questo è poco ma sicuro.
Punto secondo: i
vincitori - esterni e interni - avevano bisogno di una sanzione morale
che stabilisse, una volta per tutte, che essi avevano combattuto dalla
parte giusta, gli "altri" da quella sbagliata. I vincitori esterni
cercarono quella sanzione nei processi di Tokyo e di Norimberga e nella
commemorazione annuale del D-Day, ossia dello sbarco in Normandia. I
vincitori interni - vincitori in sottordine - la cercarono in una
solenne ricorrenza civile.
Così è nato il 25 aprile.
Ovvio
che, per realizzare una simile operazione, bisognava avvalorare la
Vulgata secondo la quale tutti i buoni erano stati da una parte, e tutti
i cattivi dall'altra; e che il bene, alla fine, aveva trionfato sul
male, anzi sul Male Assoluto
Perciò, proibito parlare di episodi
come il massacro di Porzûs; proibito parlare degli infoibamenti da
parte dei titini; proibito parlare della strategia politica dei
bombardamenti aerei alleati, e, in particolare, della totale distruzione
di Zara; proibito parlare dei massacri di fascisti avvenuti dopo il 25
aprile 1945; proibito parlare del dramma dei 350.000 profughi della
Venezia Giulia, costretti a fuggire senza nulla poter portare con sé.
Proibito anche domandarsi se azioni partigiane come quella di Via
Rasella, fatte in modo da esporre la popolazione civile alle inevitabili
rappresaglie tedesche, fossero realmente giustificate, sia sotto il
profilo militare, sia sotto quello morale.
Punto terzo:
all'interno della resistenza convissero, si sovrapposero e, a volte, si
scontrarono (anche fisicamente) anime, strategie e finalità talmente
differenziate, che la comune scelta di campo antifascista non basta
certo a far parlare di un unico fenomeno resistenziale. E il nucleo più
forte e combattivo di essa, ossia il Partito Comunista Italiano, cercava
essenzialmente un regolamento di conti col fascismo, dopo le vicende
del 1919-25: non per instaurare un regime democratico, ma per fare quel
che i bolscevichi avevano fatto in Russia nel 1917, e che esso medesimo
aveva sperato di fare nel "biennio rosso".
Se fosse dipeso
soltanto dalla volontà di Togliatti, e se i carri amati dell'Armata
Rossa fossero arrivati a Trieste, Milano e Torino prima di quelli
anglo-americani, l'Italia sarebbe semplicemente passata da una dittatura
a un'altra. E, a proposito di Trieste, gli abitanti di quella città -
occupata e terrorizzata per 40 giorni dalle soldatesche comuniste di
Tito - sanno bene di che cosa stiamo parlando; Trieste che solo nel
1954, e a prezzo della perdita di altre terre sicuramente italiane, ha
potuto tornare alla madrepatria.
Questo, dal punto di vista storico.
Resta da vedere se si possa immaginare una «condivisione della memoria» del 25 aprile sotto il profilo morale.
Ora, se quella del 1943-45 fu - come ormai tutti gli storici onesti
riconoscono - una vera e propria guerra civile; e se gli eserciti
anglo-americani non erano dei "liberatori", ma semplicemente degli
occupanti (come tanti altri che li avevano preceduti nella storia
italiana, e tutti chiamati da qualche fazione in lotta contro i propri
avversari interni), ebbene, allora è evidente che non ci potrà mai
essere una memoria condivisa, perché le guerre civili non nascono dal
nulla e perché gli eserciti di occupazione - e non di liberazione - sono
tutti, sempre, espressione dei "cattivi" e non dei "buoni": ossia di
interessi stranieri che mirano a mettere in ginocchio, materialmente e
moralmente, e il più a lungo possibile, il Paese occupato.
Tanto è
vero che, nella conferenza di pace di Parigi del 1947, l'Italia è stata
trattata dai suoi generosi "alleati" né più, né meno che come un Paese
nemico e sconfitto: e, come rappresentanti di un Paese nemico e
sconfitto, i nostri delegati hanno dovuto firmare i trattati che vennero
loro imposti, senza alcuna possibilità di discuterne i contenuti.
Viene in mente una frase significativa, pronunciata a Udine,
nell'immediato dopoguerra, dal famoso predicatore padre Lombardi
(animatore del movimento Mondo Nuovo), davanti a una enorme folla di
pubblico, uomini e donne esausti dalle sofferenze della seconda guerra
mondiale: «Li abbiamo chiamati liberatori; li abbiamo chiamati amici;
erano, tutti, nemici».
Tutti nemici; tutti cattivi: si dirà che questo è qualunquismo.
Molto bene,
E allora, vogliamo ricordare che Churchill volle la guerra, molto più
di Hitler, perché non gli andava giù il fatto di aver dovuto rinunciare a
bombardare la Germania dal cielo nel 1919, essendo finito troppo presto
il primo conflitto mondiale; e che poté sfogare tale sadico istinto nel
1944-45, quando ridusse in cenere, una dopo l'altra, le città tedesche,
a partire dalle più indifese e prive di valore strategico, come Dresda?
Vogliamo ricordare, poi, che Roosevelt volle la guerra, molto più del
Tripartito, perché il tanto decantato New Deal (leggenda dura a morire)
era stato, in realtà, un clamoroso fallimento, e solo una guerra di
proporzioni mondiali - come già era accaduto venti anni prima, con
Woodrow Wilson - avrebbe potuto ridare fiato all'economia americana?
E vogliamo, infine, ricordare che il macellaio Stalin, artefice della
morte di forse 8 milioni di cittadini sovietici negli anni Trenta - con
la collettivizzazione forzata delle campagne e con le Grandi Purghe -
era amico e alleato di Hitler dall'agosto 1939; e che, forte di quella
alleanza, attaccò e invase la Polonia, i Paesi Baltici, la Romania, la
Finlandia, senza che le democrazie occidentali trovassero nulla da
ridire o da eccepire; mentre, per la sola invasione della Polonia, esse
dichiararono guerra alla Germania nel giro di quarantott'ore?
Questo, sul piano etico-politico generale.
Sul piano della coscienza morale individuale, il discorso della
«memoria condivisa» è ancora più impraticabile, per non dire assurdo.
Lo ripetiamo: quella del 1943-45 fu una guerra civile.
Come si può pretendere una condivisione della memoria da parte di
coloro che ebbero i genitori o i nonni uccisi, non di rado crudelmente e
fuori di ogni contesto di legalità (come nel caso dei massacri avvenuti
dopo la fine "ufficiale" della seconda guerra mondiale), sia dall'una
che dall'altra parte?
E come negare che da entrambe le parti vi
furono sublimi episodi di eroismo e nobili motivazioni; così come, da
entrambe le parti, feroci regolamenti di conti, malvagità gratuite e
basse ragioni di tornaconto personale?
Per favore: un po' di onestà intellettuale.
Nessuna delle due parti può pretendere il monopolio della giustizia.
Spetta agli storici spiegare come accadde che tanti italiani, pur amanti
del proprio Paese, abbiano fatto una scelta opposta e si siano
combattuti spietatamente a vicenda; ma questa è la verità dei fatti.
Dura, contraddittoria, amara: senza sconti per nessuno.
L'unica
cosa che gli Italiani, oggi, potrebbero e dovrebbero condividere, non è
«la memoria», espressione generica e dolciastra che tradisce una
intollerabile ipocrisia di fondo, ma il riconoscimento della coerenza e
della dignità di quanti, da una parte e dall'altra, credettero di
servire la propria patria e anche valori universali come l'onore, la
fedeltà, il cameratismo (da una parte), la libertà, la giustizia, la
volontà di giungere alla pace (dall'altra).
Non si può chiedere
di più, umanamente, a quanti hanno perduto amici e parenti in una guerra
fratricida, contrassegnata - per definizione - da atti che poco avevano
a che fare con i nobili ideali proclamati a parole.
Ecco,
questa potrebbe essere la memoria condivisa: non - per dirla con Hegel -
una grande notte, dove tutte le vacche appaiono nere; ma il rifiuto
delle ragioni dell'odio, della faziosità politica camuffata da amor di
Patria, della violenza abbellita da una retorica pomposa.
Solo
così, forse, i morti potranno trovare pace. E solo così noi potremo
udire ancora la loro voce - come scrive il poeta Ungaretti in Non
gridate più - e «sperare di non perire».
Altrimenti, lasciamoli in pace, quei morti.
Cercare di strumentalizzarli ancora, e sia pure in una nuova forma, a
oltre sessant'anni di distanza, è l'operazione più lugubre e squallida
che si possa immaginare.
Francesco Lamendola
Già pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 27/04/2008
Del 21 Gennaio 2018
fonte:
http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/storia-del-fascismo/1097-la-memoria-condivisa