Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
– Sei lapidi sottili, bianche e sbilenche, ficcate l’una accanto
all’altra nella terra arsa dal sole nel cimitero di Siracusa. E, sopra
le lapidi, da una parte un numero e dall’altra una scritta nera e mesta:
«Immigrato sconosciuto, deceduto nel Canale di Sicilia il 18-4-2015».
Questo è tutto quello che resta dell’“Operazione barcone della morte”:
il peschereccio affondato nella primavera di due anni fa 70 miglia a
nord di Tripoli con il suo carico imprecisato d’immigrati (c’è chi dice
fossero 700, chi 900) e recuperato a metà del 2016. Nei
piani di Matteo Renzi, quella del barcone della morte avrebbe dovuto
essere la sua iniziativa forse più clamorosa ed eroica. Già pochi giorni
dopo l’affondamento, l’ex presidente del Consiglio aveva ideato e
lanciato l’ambiziosissimo progetto di farne riaffiorare il relitto per
trasformarlo nel simbolo europeo del disastro migratorio; poi Renzi
aveva preteso che fossero individuate geneticamente le tante, povere
vittime per metterne le spoglie a disposizione dei parenti. Oggi le sei
lapidi di Siracusa incorniciano l’ultimo fallimento del segretario del
Partito democratico, mentre su quel che resta del barcone della morte
grava un mistero profondo come il mare. Non si sa dove sia finito il
peschereccio: chissà, forse è ancora nella base di Melilli, vicino ad
Augusta, dove nel luglio 2016 era stato portato con religioso impegno
dagli uomini della Marina militare dopo un immenso lavoro. Di certo il
barcone non è a Milano, dove in un primo momento pareva fosse destinato;
né si trova a Bruxelles, dove voleva esporlo il segretario-premier. Non
si sa nemmeno dove siano finiti i corpi dei poveri migranti, né del
resto ancora oggi si sa bene quanti fossero. Di certo sei di loro sono
sotto la terra del camposanto di Siracusa e altri sono stati distribuiti
nei cimiteri della Sicilia e della Calabria: tutti sono stati
inevitabilmente sepolti in tombe anonime, forse addirittura in fosse
comuni. Ma se davvero è così, a che cosa è servito prelevare da quei
cadaveri il Dna?
L’unica certezza che resta, oggi, è che il disastro dell’aprile 2015 è
stato il peggiore tra i tanti avvenuti nel Mediterraneo da quando è
partita la disperata corsa dei migranti dall’Africa all’Europa. E per
dirla con Carlo Giovanardi, il senatore di Idea che per oltre un anno è
stato il grande critico dell’Operazione barcone della morte, inizia
legittimamente a farsi strada il sospetto che su quei morti si sia
esercitata soltanto una cinica propaganda politica: «È stato un costoso
spot, tutto qui», sentenzia, ruvido, l’ex ministro berlusconiano.
Oggi nessun grande giornale pare accorgersi del fallimento, forse per
non contraddire la grancassa battuta lungo tutto il 2016. Sembrano
essersi volatilizzati artisti, sindaci, politici: eppure, per lunghi
mesi, tante voci si erano alzate per plaudire all’iniziativa del
recupero e per lanciare proposte sul da farsi con il relitto color
azzurro e vinaccia, rugginoso e scassato. Il regista messicano Alejandro
Iñárritu, vincitore di quattro premi Oscar, voleva coinvolgere
addirittura papa Francesco per piazzare il barcone in piazza del Duomo, a
Milano. Il sindaco della città, Giuseppe Sala, avrebbe preferito farne
un museo: «Sarebbe un luogo di visita e di educazione, e un grandissimo
messaggio». Ora tacciono tutti, chissà perché.
Il costo del ripescaggio
Renzi, come sempre, era stato il più assertivo. In
un’intervista al Corriere della Sera, tre mesi prima della sonora
sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale, il premier aveva
dichiarato baldanzoso di voler innalzare il barcone davanti alla nuova
sede del Consiglio d’Europa a Bruxelles: «Così, tutte le volte che c’è
una riunione – aveva spiegato, polemico – invece che guardare solo i
divani nuovi si guarderà l’immagine di quel barcone e dello scandalo di
una migrazione».
Per tirare su lo scafo con il suo carico di affogati nella stiva,
nella primavera del 2016 la Marina militare aveva spedito quattro navi e
un piccolo esercito di tecnici. Ma la manovra era apparsa subito
difficilissima. Il relitto in legno da un anno giaceva a 370 metri di
profondità, incagliato e ormai infradiciato. Un primo tentativo di
riemersione era andato male, e il peschereccio si era nuovamente
inabissato. Era stata allora coinvolta un’azienda privata, la stessa che
nel 2013 aveva risollevato la Costa Concordia incagliata all’Isola del
Giglio, che con tecnologie raffinate era riuscita nell’impresa. Il costo
totale, a quel punto, era già di 10,5 milioni di euro.
Trascinato su un grosso pontone mobile fino alla base militare di
Melilli, collocato sotto un tendone refrigerato che in teoria avrebbe
dovuto evitare la decomposizione dei cadaveri, il barcone della morte
era finalmente pronto per l’operazione recupero dei corpi. La loro
estrazione dalla stiva è iniziata nel luglio 2016, ma è stata così
sconvolgente e disperante che molti dei 150 uomini coinvolti, tra Vigili
del fuoco e Croce rossa, hanno dovuto ricorrere ad assistenza
psicologica.
Il «groviglio» dei corpi
Dotati di attrezzature inadeguate (tute in tela, talvolta di
carta, e mascherine improvvisate), i volontari sono penetrati nel
relitto e in un mostruoso girone dantesco: tronchi, arti, ossa e teschi e
liquami in putrefazione, esseri umani ridotti in uno stato abominevole e
non più distinguibili l’uno dall’altro. Libero Costantino Saporito,
sindacalista dei Vigili del fuoco, ha descritto così quell’inferno:
«C’erano centinaia di corpi rimasti più di un anno sul fondo marino e
chiusi in una stiva che poteva contenerne al massimo 40. Donne, bambini,
neonati, anziani: tutti erano uniti in un unico, impressionante
groviglio». Paolo Quattropani, l’ispettore dei Vigili del fuoco che ha
coordinato le squadre che si sono calate nella stiva, ha aggiunto: «Non
immaginavamo ci fossero tutti quei corpi. Erano tantissimi, intrecciati
tra di loro, masse informi. Abbiamo potuto riconoscere le donne solo
grazie ai collant che indossavano. Un orrore».
Per settimane i resti dei migranti, così tra loro fusi e confusi,
sono stati estratti dalla stiva e suddivisi pietosamente (ma in buona
misura anche casualmente) in un numero imprecisato di sacchi neri:
all’inizio si è parlato di 458 body bag, poi di 476, infine di 675.
Mentre ancora quel lavoro impossibile avanzava, nel luglio di un anno fa
il governo Renzi aveva deciso di sottoporre quei resti indistinti
all’esame del Dna, per «definire nazionalità e identità di ciascuno». Il
14 luglio 2016 il prefetto di Siracusa, Armando Gradone, aveva
annunciato che l’operazione, coordinata dalla patologa forense Cristina
Cattaneo, sarebbe stata affidata a 13 diverse università e che sarebbe
costata circa 9,5 milioni di euro.
Una fila di tombe rimaste anonime
Cattaneo, tra i migliori tecnici della materia e passata agli
onori delle cronache per avere isolato il Dna di Massimo Bossetti nel
caso dell’omicidio di Yara Gambirasio, aveva spiegato che con quella
cifra sarebbe stato creato anche un nuovo archivio di dati genetici,
affidato alla gestione del commissario per le persone scomparse:
«Nascerà una banca dati dei migranti non identificati», aveva detto.
L’obiettivo, teorico e ambizioso, era estrarre materiale utile per
rispondere alle richieste eventualmente provenienti dai paesi d’origine
dei migranti, partendo proprio dai 700-900 del barcone della morte. Se
il familiare di una persona scomparsa nel Mediterraneo chiederà notizie
del suo congiunto, la banca dati potrebbe forse fornirle. A oggi, però,
non è dato sapere che cosa sia accaduto nemmeno per quanto riguarda i
cadaveri del barcone: non si sa quante siano state finora le richieste
in questo senso, né se siano mai arrivate. Né si può valutare quanto sia
verosimile che quelle richieste possano pervenire da paesi in guerra, o
nei quali una moderna genetica praticamente non esiste.
L’ultimo capitolo di questa storiaccia è poi il più misterioso e
sconfortante. Perché un consigliere comunale di Siracusa, Salvo
Sorbello, ha scoperto che alcuni dei morti del barcone sono stati
seppelliti in modo anonimo. È stato proprio Sorbello a scattare la foto
delle sei lapidi sbilenche nell’assolato cimitero della sua città che
compare in queste pagine, e sempre Sorbello è riuscito a scoprire,
investigando su e giù per gli uffici comunali, che quei corpi sono stati
seppelliti il 3 febbraio 2016, cioè cinque mesi prima che nella base di
Melilli partisse l’operazione Dna. Possibile? «Ma allora a che cosa è
servito tutto questo lavoro?», si domanda. «E che cosa si poteva fare
con gli oltre 20 milioni di euro, spesi inutilmente dal governo Renzi?».
CRONOLOGIA della tragedia e «dello scandalo»
18 aprile 2015
Un peschereccio somalo affonda a 70 chilometri dalla costa
libica. A bordo c’è un numero imprecisato d’immigrati in viaggio verso
l’Italia, da 700 a 900. I superstiti sono solo 28.
Ottobre-novembre 2015
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi lancia l’operazione di
recupero del “barcone della morte” per dare sepoltura ai morti e per
fare del relitto un simbolo del dramma dell’immigrazione.
27 aprile 2016
La Marina militare avvia l’operazione recupero del barcone,
adagiato sul fondo a 370 metri, ma il primo tentativo fallisce. Alle
quattro navi militari viene affiancata un’azienda privata. Il costo
dell’impresa sale a circa 12 milioni di euro.
1 luglio 2016
Il “barcone della morte” arriva nella base di Augusta
(Siracusa), presso il Pontile Melilli. L’indomani iniziano le
drammatiche operazioni recupero delle spoglie dei migranti. Dalla stiva
verranno estratte 458 body bag, contenenti resti umani; 36 sacche di
liquami; 7 sacchi con indumenti ed effetti personali.
14 luglio 2016
Il prefetto di Siracusa, Armando Gradone, annuncia che dei
corpi estratti dalla nave sarà individuato il Dna per metterlo a
disposizione dei familiari delle vittime. L’operazione Dna, affidata a
esperti di varie università, prevede un costo di altri 9,5 milioni di
euro.
29 luglio 2016
II sindaco di Milano, Giuseppe Sala, lancia l’idea di esporre il relitto del peschereccio al museo del Cimitero maggiore.
18 settembre 2016
Renzi propone di mettere il “barcone della morte” davanti alla
nuova sede del Consiglio d’Europa a Bruxelles: «Almeno, tutte le volte
che c’è una riunione, invece che guardare solo i divani nuovi, si
guarderà l’immagine di quel barcone e dello scandalo di una migrazione».