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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

19/11/16

De Luca più Crozza di Crozza


de luca


Mentre tutta la stampa ancora chiacchiera del caso Bindi-De Luca, e di quest’ultimo che cede e porge le sue scuse alla presidente della commissione antimafia, il Fatto quotidiano sfodera l’arma letale: una registrazione audio davvero incredibile, “rubata” a un De Luca in piena forma, più Crozza di Crozza.
E’ una riunione di trecento “intimi” del governatore, tutti amministratori campani, un incontro a porte chiuse che si è svolto, secondo il Fatto, il 15 novembre. Il governatore va subito al sodo: “In questo momento abbiamo un’interlocuzione privilegiata con il governo. Poi vi piace Renzi, non vi piace Renzi,a me non me ne fotte un cazzo (…). Abbiamo fatto una chiacchierata con Renzi. Gli abbiamo chiesto 270 milioni di euro per Bagnoli e ce li ha dati. Altri 50 e ce li ha dati. Mezzo miliardo per la Terra dei fuochi e ha detto sì: lui era terrorizzato per la reazione della Lega ma alla fine ce l’ha dato, nonostante la Ragioneria e De Vincenti. Abbiamo promesse di finanziamenti per Caserta, Pompei, Ercolano, Paestum. Sono arrivati fiumi di soldi”. E snocciola ancora: 2 miliardi e 700 milioni per il Patto per la Campania, altri 308 per Napoli, ancora 600 sempre per Napoli.
E allora, qual è il problema? Renzi è generoso, come è suo diritto, nei confronti di una regione del Sud, cosa c’è di strano? Che il governatore sia un suo sostenitore non è motivo sufficiente per pensare male. Ma il resto della registrazione spiega tutto: De Luca chiede ai suoi una mobilitazione straordinaria per il sì, illustrando il suo concetto di democrazia: “l’idea che ogni cittadino deve avere la sua rappresentanza è un’imbecillità”.

Un altro seguace di Napolitano, che ha affermato, dopo l’elezione di Trump, di nutrire ormai dubbi sul suffragio universale. I politici di sinistra pare che, se non sognano i bei tempi dei carrarmati sovietici, disprezzano cordialmente il popolo e pensano di “accattarselo” con le mancette elettorali. E qui arriva il meglio della registrazione, l’invito a muoversi scientificamente, per gruppi organizzati, battendo cassa (cioè voti a favore della riforma) presso imprese, sanità, e tutto quello su cui si riesce a mettere le mani, secondo il metodo più collaudato al Sud, le clientele. “Prendiamo Franco Alfieri, notoriamente clientelare”, spiega De Luca ai suoi seguaci. Alfieri è il chiacchierato sindaco di Agropoli. “Come sa fare lui la clientela lo sappiamo. Una clientela organizzata, scientifica, razionale come Cristo comanda.”

A questo punto De Luca si sdilinquisce, sospira di piacere: “Che cosa bella!” Poi, dopo l’elogio della clientela, così sincero e uscito dal cuore che commuove, si riprende e continua: “Ecco, l’impegno di Alfieri sarà di portare a votare la metà dei suoi concittadini, 4mila persone su 8mila. Li voglio vedere in blocco, armati, con le bandiere, andare alle urne a votare il . Franco, vedi tu come Madonna devi fare, offri una frittura di pesce, portali sulle barche, sugli yacht, fai come cazzo vuoi tu, ma non venire qui con un voto in meno di quelli che hai promesso”. Linguaggio un po’ rozzo ma concetti limpidi.

Direbbe Crozza: “Le ho portate io, le mance elettorali e le clientele in Campania!”


di Eugenia Roccella -  19 Novembre 2016
fonte: https://www.loccidentale.it





ITALIA: MACELLERIA DI BAMBINI E ADOLESCENTI PER ESPIANTO DI ORGANI



 
di Gianni Lannes
Va in onda l'orrore: ecco l'ultimo tabù tricolore. Traffico di organi umani minori, strappati a bimbi, fanciulli e ragazze, nonché omertà istituzionale a copertura della criminalità mafiosa. Nel belpaese, da anni, contrariamente alle rassicurazioni ufficiali, insospettabili mediciespiantano organi a bambini e adolescenti, in cliniche private del Settentrione. In questi ospedali dell’orrore situati nelle regioni del Nord Italia, chi ha bisogno di organi nuovi (fegato, reni, cornee, cuore) paga grandi cifre ed evita le liste di attesa. Sono migliaia e migliaia i minori spariti da noi ogni anno per alimentare questo commercio di carne umana. Perché il governo dell’ineletto Renzi tace? Perché l’Italia non ha ratificato la convenzione europea contro il traffico di organi umani? C’è un giudice almeno a Berlino o bisogna sperare in quello divino? In qualità di esseri umani, noi adulti, abbiamo il dovere morale, l'imperativo etico di far arrestare questo crimine contro un'umanità inerme.
 
fonte -  http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2016/11/italia-macelleria-di-bambini-e.html#links
-  http://veraitalia.blogspot.it/2016/11/italia-macelleria-di-bambini-e.html

18/11/16

Militari in piazza e latinos a casa loro


 


L’esercito in piazza a tutela dell’ordine pubblico è stato un vecchio cavallo di battaglia della destra che adesso, dopo i fatti di sangue di via Padova, ha trovato un nuovo cavalcatore nel neo-sindaco di sinistra di Milano, Giuseppe Sala.
Ma l’esercito in piazza contro la criminalità era un’idea fasulla prima e lo è ancora di più adesso, dopo che l’esperienza ha dimostrato come la presenza di soldati armati agli angoli delle strade serva solo a fornire una tranquillità illusoria ed irreale ai cittadini.
Sala, quindi, sbaglia quando pensa di risolvere con i militari il problema delle bande di “latinos” che infestano alcuni quartieri di Milano. E con lui sbagliano anche coloro i quali, seguendo la vecchia logica della sinistra secondo cui la mancata integrazione è solo colpa della società occidentale capitalistica e razzista, sostengono che solo con grandi interventi di tipo sociale sia possibile creare una realtà multietnica e multiculturale sicura e tranquilla. Per dare lavoro, case ed istruzione agli immigrati che non hanno nessuna delle tre condizioni basilari per una integrazione effettiva ci vogliono risorse al momento inesistenti ed anni ed anni di impegno continuo. Nel frattempo l’insicurezza collettiva cresce e la tendenza delle minoranze etniche disperate a delinquere diventa sempre più forte ed incontenibile.
E allora? L’unica risposta immediata capace di bilanciare l’accoglienza non gestita ed incontrollata è quella della restituzione ai rispettivi Paesi di provenienza degli accolti che delinquono. Questo significa imitare Donald Trump e la sua proposta di espellere gli immigrati clandestini che finiscono nei circuiti criminali? In apparenza è così, ma nella realtà è imitare una pratica già abbondantemente utilizzata durante la presidenza Usa di Barack Obama e che ha portato all’espulsione di oltre due milioni di clandestini condannati per reati comuni.
Se poi si vuole nascondere Obama e scaricare su Trump la responsabilità del progetto, si imiti pure Trump! Chiedere che gli immigrati colpevoli di reati vengano rimandati nei Paesi d’origine non è una misura razzista ma solo di buon senso. E se il buon senso arriva dal nuovo Presidente degli Stati Uniti, ben venga!

di Arturo Diaconale - 18 novembre 2016
fonte: http://www.opinione.it/editoriali/2016/11/18/diaconale_editoriale-18-11.aspx

17/11/16

Caro mondo, adesso veditela tu. Firmato Donald Trump, l’isolazionista


 
Per mantenere le promesse il presidente dovrà concentrarsi sui problemi interni. L’America dopo un secolo rinuncerà al ruolo di poliziotto globale? Ecco chi ci guadagnerebbe. E chi no


Vice president-elect Mike Pence, second from  left, Senate Majority Leader Mitch McConnell, of Kentucky, President-elect Donald Trump, giving a thumbs up, and Milania Trump walk to a meeting on Capitol Hill, Thursday, Nov. 10, 2016 in Washington. (AP Photo/Alex Brandon)


Se vuole mantenere le promesse di posti di lavoro, salari più dignitosi ed equità sociale fatte alle vittime americane della globalizzazione (operai e classe media) che col loro voto lo hanno portato alla Casa Bianca, Donald Trump dovrà introdurre misure di protezionismo commerciale. Il protezionismo implica, a livello geopolitico, l’isolazionismo. Per potere tornare ad essere grande nei termini sottintesi dallo slogan della campagna elettorale del candidato repubblicano, l’America deve rinunciare ad essere la «nazione indispensabile» (Madeleine Albright) e «l’ultima, la migliore speranza della terra» (Dick Cheney) per occuparsi umilmente dei suoi problemi interni. Non sono parole d’ordine inedite per un presidente americano.
Senza andare tanto in là nel tempo, G. W. Bush e Barack Obama vinsero le presidenziali rispettivamente del 2000 e del 2008 promettendo agli elettori di ridimensionare l’interventismo e le campagne militari dei loro predecessori. Si sa come è andata poi: sotto Bush jr. gli Stati Uniti hanno combattuto due guerre sanguinose e interminabili in Afghanistan e Iraq; Obama ha ritirato le truppe di terra dall’Iraq e parzialmente dall’Afghanistan e ha cercato di esternalizzare la gestione delle crisi agli alleati, ma infine ha inviato l’aviazione, i droni killer e i corpi speciali lungo un arco geografico che va dalla Libia al Pakistan. Per trovare presidenti che hanno praticato l’isolazionismo e il protezionismo con successo bisogna tornare agli anni Venti del secolo scorso, ai repubblicani Harding e Coolidge successori del democratico Harold Wilson che aveva deciso l’entrata dell’America nella Prima Guerra mondiale e fondato la Società delle Nazioni senza però riuscire a convincere il Congresso ad approvare l’adesione degli Stati Uniti alla medesima. Harding e Coolidge presiedettero a un’età dell’oro (in termini di redditi e occupazione) alimentata da isolazionismo, protezionismo, proibizionismo (del consumo di alcolici), limitazione dell’immigrazione che però andò a schiantarsi contro la grande crisi, messa in moto dal crollo della Borsa di New York nel 1929, e la successiva depressione. Dopo di allora, mai nessun presidente è riuscito a praticare coerenti politiche isolazioniste, meno che mai dopo la Seconda Guerra mondiale e l’ascesa degli Stati Uniti al ruolo di paese egemone (per 44 anni in condominio con l’Urss, poi in solitaria) sulla scena internazionale.
Per dare corpo al neo-isolazionismo che ha in mente, prima ancora che con i suoi avversari democratici Trump dovrà probabilmente scontrarsi con il Congresso a maggioranza repubblicana e forse non solo con quello. Istruttiva la vicenda delle posizioni contraddittorie del ticket presidenziale repubblicano nei riguardi della crisi siriana. Nel dibattito tv dei candidati vicepresidenti, Mike Pence (repubblicano) si è espresso come avrebbe potuto fare un portavoce di Hillary Clinton: ha proposto l’istituzione di una no-fly zone in Siria sorvegliata dall’aviazione americana, risposte di forza alle provocazioni russe e attacchi punitivi con approvazione Onu contro obiettivi militari del regime di Assad se i bombardamenti dei governativi sui quartieri di Aleppo in mano ai ribelli dovessero continuare. Cinque giorni dopo Trump lo ha smentito su tutta la linea. La linea di Trump grosso modo è: prima occupiamoci dell’Isis, solo sconfitta l’Isis ci occuperemo di trovare un successore ad Assad, possibilmente d’accordo coi russi.
Oltre al mainstream del partito repubblicano, a sabotare le aspirazioni neo-isolazioniste di Trump provvederanno la burocrazia della sua stessa amministrazione, la comunità dell’intelligence e gli apparati militari. Ci sarà sicuramente molta differenza fra quello che il nuovo presidente dice di voler fare, quello che vuole veramente fare, quello che potrà fare e quello che riuscirà a fare. Doverosamente premesso ciò, si intuisce che il disimpegno americano dal ruolo guida nel mondo come lo immagina Trump dovrebbe muoversi lungo due direttrici: la responsabilizzazione in termini finanziari e politici dei vecchi alleati, la mano tesa verso vecchi nemici per la definizione di accordi di stabilizzazione di aree di crisi.

L’arte di fare affari
Dovendo fare una lista degli Stati e quasi-Stati che trarranno vantaggio dall’ascesa alla presidenza del miliardario americano e di quelli che invece avranno difficoltà, metteremmo nel primo elenco la Russia, Israele, il governo di Damasco, la fazione libica di Bengasi, l’Egitto, i curdi e la Turchia; nel secondo elenco, decisamente più lungo, il Messico, la Cina ma anche i paesi dell’area che chiedono all’America di essere protetti dalla Cina e dalla Corea del Nord (e cioè Corea del Sud, Giappone e Australia), l’Iran ma anche l’Arabia Saudita, Cuba, i paesi baltici e scandinavi, l’Ucraina, i paesi della Nato con una spesa militare troppo modesta. Con tutti comunque procederà nello stesso modo, attingendo verosimilmente a quella che è la “bibbia” del trumpismo: il suo libro The Art of the Deal, cioè “l’arte di concludere un affare”. Trump è intenzionato a stringere nuovi accordi e a riscrivere accordi esistenti che secondo lui e gli elettori che lo hanno votato non rispondono agli interessi del cittadino americano, ma delle élite contro cui lui si è battuto.
In testa alla lista dei paesi con cui il nuovo presidente vorrebbe concludere quello che il Financial Times definisce un “grand bargain” c’è la Russia di Putin. Col presidente russo Trump sembra essere d’accordo sul fatto che la distensione, la sicurezza, la pace e quindi la cooperazione economica e gli scambi commerciali che ne conseguirebbero hanno bisogno della definizione delle rispettive sfere d’influenza degli Stati Uniti e della Russia, e poi della garanzia reciproca che saranno rispettate. Nuove Yalta in Europa orientale e in Medio Oriente permetterebbero di liberare risorse per le politiche interne americane, risparmiando sulle spese militari e sulle sovvenzioni di bilancio ai paesi attraverso i quali si combatte la nuova Guerra fredda per interposta persona: Ucraina, ribelli siriani, eccetera. I paesi europei dovrebbero essere lieti di questa prospettiva, che implicherebbe la cancellazione delle sanzioni reciproche con la Russia e minori esborsi verso i paesi del Partenariato orientale. Ma solo in parte, perché Trump ha ripetuto decine di volte che l’America manterrà i patti solo coi paesi europei membri della Nato che contribuiscono con una spesa militare pari ad almeno il 2 per cento del proprio Pil (impegno ribadito più volte in sede di summit Nato). Attualmente adempiono al criterio solo Regno Unito, Polonia, Grecia ed Estonia.

Il cruccio dell’Arabia Saudita
Il riavvicinamento con la Russia implica un riavvicinamento con gli alleati di Mosca, ma non con tutti. Il primo capo di Stato arabo che ha fatto i complimenti a Trump per la sua elezione è stato l’egiziano Abd Al-Fattah al-Sisi. Da molto tempo l’Egitto post-Morsi si barcamena fra Arabia Saudita e Russia, paesi da sempre avversari sul piano delle alleanze geopolitiche: Riyadh ha pompato miliardi di dollari nell’economia egiziana, esausta per le agitazioni politiche del periodo 2011-2013 e per la fuga dei turisti a causa dei ripetuti attacchi terroristici, in funzione anti-Fratelli Musulmani, comune nemico del generale al-Sisi e della famiglia reale Saud.
L’uomo forte del Cairo ha incassato e ha resistito ai tentativi sauditi di trascinare militarmente l’Egitto nei mattatoi siriano e yemenita, nel mentre che sul fronte libico giocava un ruolo autonomo, appoggiando il generale Haftar di Bengasi contro le milizie islamiste e contro il governo di Tripoli. Quando gli Stati Uniti e l’Europa hanno spostato le loro fiches su Tripoli, Haftar ha invocato il sostegno russo, che è prontamente arrivato e che ha contribuito a stringere ancora di più i rapporti dell’Egitto con la Russia, mentre quelli del Cairo con l’Arabia Saudita si sono logorati nella stessa misura. Ora Washington potrebbe tornare a sostenere Haftar, in passato uomo della Cia, ritrovandosi allineata coi suoi sponsor egiziani e russi.
Non è questo l’unico cruccio dell’Arabia Saudita: Riyadh si accingeva a imporre all’Opec di tagliare la produzione di petrolio per far risalire il prezzo del greggio, ma dovrà pensarci due volte ora che è salito al potere un presidente che si è dato per obiettivo l’indipendenza energetica americana, da ottenere anche aumentando la produzione locale di shale oil oggi in crisi a causa del prezzo del barile troppo basso. Donald Trump taglierà le tasse sullo shale oil per riavviare la produzione, con gran danno dei paesi Opec.

Il vero scontro sarà con la Cina
Anche l’Iran ha poco da ridere, e non solo perché il prezzo del petrolio non salirà quanto sperava: Trump ha dichiarato che rivedrà l’accordo concluso da Barack Obama con Teheran sul nucleare, perché con esso gli Stati Uniti hanno concesso troppo e ottenuto troppo poco. Israele sentitamente ringrazia.
Sul piano degli accordi da rinegoziare, più preoccupati dell’Iran sono il Messico e la Cina. Non è un caso che il peso abbia perduto il 13 per cento del suo valore all’indomani del voto americano: il problema non sono tanto le minacce folkloristiche circa la costruzione di una muraglia di 3 mila chilometri lungo il confine fra i due stati per impedire gli attraversamenti di migranti clandestini o le minacce altrettanto irrealistiche di espellere 11 milioni di residenti stranieri latinoamericani irregolari; il problema è che Trump vuole denunciare il Nafta, il trattato di libera circolazione delle merci fra Stati Uniti, Messico e Canada, e lo farà quasi certamente, così come farà saltare il Partenariato Trans-Pacifico, il Trattato di libero scambio fra America e paesi dell’Asia e dell’Oceania fortemente voluto da Obama.
Ma il vero scontro di titani lo vedremo con la Cina: Trump ha definito l’ammissione di Pechino al Wto «il più grande furto di posti di lavoro della storia», e minaccia di istituire dazi a raffica sulle merci cinesi (in barba alle regole del Wto) se la Cina non accetterà di rinegoziare gli accordi commerciali. Riuscirà l’imprevisto vincitore delle presidenziali americane a piegare la volontà del più grande paese comunista del mondo? Dal punto di vista economico-finanziario, i due contendenti sanno già che carte giocare: a vantaggio degli Stati Uniti c’è il fatto che le esportazioni cinesi in America sono il triplo per valore di quelle americane in Cina (497,8 miliardi di dollari contro 161,6); a vantaggio di Pechino c’è il fatto che detiene 1.185 miliardi di dollari del debito pubblico statunitense (che ammonta in tutto a 19 mila miliardi).

Foto: Ansa/Ap

novembre 17, 2016 Rodolfo Casadei
fonte: http://www.tempi.it 

LA PERSECUZIONE INFINITA


 persecuzione



La Fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre ha presentato nella sede della Stampa estera la XIII edizione del Rapporto sulla libertà religiosa. Un dossier da cui emerge un quadro globale sempre più drammatico, non solo per i cristiani.
Il perché lo abbiamo chiesto al direttore di Acs Italia, Alessandro Monteduro.
“Per anni abbiamo avuto la percezione che la persecuzione religiosa fosse figlia di un’azione riconducibile allo Stato. Quanto avvenuto nel XX Secolo, con l’ateismo di stato, è lì a dimostrarlo. Oggi quello che accade in Corea del Nord è diretta conseguenza di quel pensiero politico: è lì che registriamo la situazione peggiore, non è tollerato alcun gruppo che non adori la famiglia “regnante”. Registriamo uccisioni, detenzioni, lavori forzati, anche se non abbiamo dati ufficiali. Possiamo raccontare alcuni episodi come quello di un reverendo condannato ai lavori forzati a vita perché accusato di sovversione per aver esercitato il suo ministero o quello di una donna condannata a morte con l’accusa di aver diffuso alcune Bibbie. Ma la novità (che non è uno scoop ma il racconto di quello che è accaduto nell’ultimo biennio in quei 23 Paesi nei quali e ai quali c’è maggior attenzione perché teatro delle persecuzioni più feroci) è che in 12 di questi Paesi la violenza contro le minoranze religiose è messa in atto da organizzazioni fondamentaliste iper-estremiste o ultra-radicali”. 

Per esempio?
“Prendiamo il caso del Nord della Nigeria, dove opera il gruppo terrorista di Boko Haram, che peraltro sconfina anche in Camerun. La Nigeria è una federazione di 36 Stati: in 12 di essi è stata introdotta la sharia e Boko Haram punta a imporla in tutto il Paese. Oppure la ben nota situazione di Iraq e Siria: qual è il fine dell’iperestremismo dell’Isis? Partendo da un credo religioso, e solo in apparenza è un paradosso, è cancellare qualsiasi altro gruppo non conforme al loro credo. Rispetto alle persecuzioni di matrice statale il risultato è sempre lo stesso ma abbiamo voluto mettere in evidenza le differenti modalità”.

Com’è complessivamente la situazione rispetto al passato?
“E’ indubbiamente peggiorata, proprio per la ferocia delle ramificazioni tentacolari di questo radicalismo. Possiamo dire che un Paese su 5 nel mondo ne è stato colpito: basti pensare a quello che è accaduto in Francia, in Belgio o in Turchia”.

Nessun segnale positivo?
“In alcune realtà c’è stato un lieve miglioramento e nel Rapporto l’abbiamo voluto evidenziare proprio per rappresentare la speranza di un cambiamento. Penso all’Egitto, dove una recente normativa rende meno complicata, meno burocraticizzata la costruzione di luoghi di preghiera. O al fatto che il presidente Al Sisi abbia partecipato alla Messa di Natale dei copti. Sono piccoli segnali, che non significano certo che la realtà è molto migliorata ma sono pur sempre qualcosa”.

E la situazione in Cina? Si parla di possibili accordi con il Vaticano…
“Non sono un attore politico e non sta a me giudicare l’attività diplomatica della S. Sede. Io mi limito a raccontare la realtà dei fatti, e non so se questo crea difficoltà al dialogo. Tuttavia le condizioni delle minoranze religiose in Cina versano in una condizione drammatica. Cito un solo esempio: nella provincia di Zhejiang una modifica regolamentare introdotta nel 2014 ha stabilito che le chiese non possano essere più alte di una certa quota e che a loro volta le croci non possano essere più alte di un decimo dell’altezza dell’edificio. Ebbene, solo per questo sono state rimosse, o meglio abbattute, 2000 tra chiese e croci”.
I numeri dicono che delle 196 nazioni esaminate nel Rapporto 38 sono quelle che versano nella situazione più difficile. Di queste, 23 subiscono le persecuzioni più efferate: 12 da parte dello Stato e 11 da gruppi militanti radicali. Gli altri 15 Paesi si collocano nell’area tra la discriminazione e la persecuzione. Sette sono, infine, i Paesi per i quali è difficile perfino immaginare una classificazione, e dunque quelli in cui la libertà religiosa è in maggiore pericolo: Arabia Saudita, Iraq, Siria, Afghanistan, Somalia, Nord Nigeria e Corea del Nord, autentica “maglia nera” di questa triste graduatoria.
La presentazione è stata introdotta dal presidente di Acs Italia, Alfredo Mantovano, secondo il quale “il Rapporto è uno strumento per sostenere le comunità perseguitate attraverso i progetti”. A moderare l’incontro il Direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio. Il “Rapporto ACS serve per dare “una sveglia” sul tema della persecuzione – ha detto – Ogni giorno, con il mio lavoro constato quanto le tragedie che si ripetono con ciclicità e insistenza nel mondo non vengono considerati notizie solo perché non hanno fine”.
E’ intervenuto anche il presidente internazionale di Acs, il cardinale Mauro Piacenza, il quale ha affermato che “la libertà religiosa deve essere tutelata in ogni ordinamento giuridico; in particolare, le moderne democrazie non debbono fondarsi sul relativismo, bensì sul rispetto della libertà religiosa, che deve essere riscoperta nel foro pubblico” perché “la libertà religiosa è la madre di tutte le libertà”, in quanto “affonda le radici nella stessa persona umana, costitutivamente aperta al mistero”.
Giuliano Amato, giudice della Corte Costituzione, ha affermato dal canto suo che mentre “permane la persecuzione di Stato, se ne aggiunge anche un’altra, con un fondamento più ampio”. Il dittatore nordcoreano è “un caso di follia che fa vittime, ma il vero problema è l’attuale fondamentalismo religioso – ha proseguito l’ex premier – E alla radice del fondamentalismo c’è la laicizzazione estrema che intende sradicare la religione, e che genera una reazione identitaria; comprimere la religione determina una distorsione del sentimento religioso.”. Amato ha concluso dichiarando che “si possono fare guai anche con la “laïcité francese”, perché può favorire la reazione fondamentalista”.
Toccante la testimonianza di monsignor Jacques Behnan Hindo, arcivescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi (Siria). “La sharia nega la libertà di coscienza” ha detto, ribadendo che “in Siria non c’è libertà per i cristiani” e questo soprattutto perché in quella nazione, storicamente terra di invasioni, “l’Islam è politico. Daesh non è solo anticristiano, è anti-tutti quelli che non sono Daesh. La Chiesa di Roma fa tutto ciò che può per aiutarci” ha proseguito il vescovo, che considera molto importante la prossima imposizione della berretta cardinalizia a monsignor Mario Zenari e la decisione del Papa di lasciarlo come nunzio apostolico in Siria.


Tutto a Monte dei Paschi! Risparmiatori di Mps in scacco: minacce sul salvataggio. Ora si rischia l’azzeramento dei titoli

 


mps



La si potrebbe buttare giù così: se non scegli l’opzione che  ti viene proposta rischi di schiantarti con la macchina; se la scegli, però, rischi di schiantarti cadendo dal decimo piano, anche se nessuno fa cenno a questo secondo pericolo. Nel ruolo di chi propone la prima opzione c’è il Mps, il disastrato istituto senese alla prova di un complicatissimo piano di salvataggio orchestrato dalla banca americana Jp Morgan, in coabitazione con Mediobanca. La traduzione finanziaria dell’esempio è più o meno la seguente. Se migliaia di risparmiatori non decideranno di convertire in azioni le loro obbligazioni subordinate, operazione funzionale all’aumento di capitale di Mps, rischiano di far sprofondare la banca nella tanto temuta procedura di bail in (come se fosse colpa loro). Il tutto con la conseguenza che il valore dei titoli in loro possesso risulterebbe azzerato.
Lo scenario – Messa così, nessuno dovrebbe esitare ad accettare l’offerta. Peccato però che Mps non dica che accettando la conversione le stesse migliaia di risparmiatori passerebbero dall’essere creditori della banca ad azionisti. Con tutti i rischi di capitale che ne conseguono, se si considera che solo nell’ultimo anno il titolo Mps ha ceduto in Borsa l’83%. Insomma, migliaia di obbligazionisti si trovano a dover affrontare un doppio rischio enorme, dovendo pure scegliere sotto la “minaccia” di Mps. Al centro della scena, del resto, c’è un’offerta a dir poco tagliente. La banca senese, guidata dal nuovo ad Marco Morelli, propone ai detentori di obbligazioni subordinate l’acquisto dei loro titoli con contestuale obbligo di reinvestire il ricavato in azioni. Il valore nominale di titoli in questione è di 4,28 miliardi, di cui 2,1 riferiti ai bond con scadenza 2018 sottoscritti dai piccoli risparmiatori. Questa conversione dei bond in azioni, in pratica, è un passaggio funzionale al perfezionamento dell’aumento di capitale da 5 miliardi, a sua volta funzionale alla cessione dei crediti deteriorati di Siena per 27,6 miliardi.
L’affondo – Così, per spingere alla conversione decine di migliaia di piccoli risparmiatori, Mps usa toni quasi minatori. Nella nota diffusa nella tarda serata di lunedì l’istituto premette che “le componenti dell’operazione sono collegate tra loro e pertanto il perfezionamento di ciascuna di esse rappresenta una condizione per il perfezionamento delle altre”. Un’elevata adesione “assume pertanto fondamentale importanza, ai fini dell’aumento di capitale”. E laddove Mps “non riuscisse a portare a termine l’aumento di capitale, non potrebbe completare il deconsolidamento del portafoglio npl”. Ovvero quella cessione di crediti deteriorati che è l’altra gamba del salvataggio. A quel punto, conclude la nota, scatterebbe l’applicazione del bail in, con “gli strumenti computati nei fondi propri della banca, tra cui i titoli, potrebbero essere soggetti a riduzione del relativo valore nominale”. Ieri Mps ha chiuso a -10%.

di Stefano Sansonetti
 
fonte: http://www.lanotiziagiornale.it

La crescita zerovirgola è un flop


crescita



Cose mai viste: l’Italia che fa la voce grossa con l’Europa. Ci voleva il fenomeno Trump per convincere Renzi che con le minacce fatte per bene l’indice di gradimento vola. E con una fava si prendono due piccioni. Il primo obiettivo, quello a cui oggi il premier tiene di più, è scuotere l’elettorato nazionale indeciso sul referendum. E un Presidente del Consiglio che tiene in scacco i burocrati di Bruxelles acchiappa senz’altro voti. Il secondo traguardo è mettere la Commissione Ue con le spalle al muro. Secondo una ricostruzione vista ieri su Repubblica il via libera alla flessibilità sui conti pubblici sarebbe cosa fatta.
Ma forse le cose non stanno esattamente così e la minaccia di veto diventa allora una pistola puntata alla tempia di chi non crede alle previsioni economiche fornite dal nostro Governo, da molti ritenute troppo ottimistiche. Ieri su questo fronte Renzi ha incassato una stima di crescita dello 0,8% quest’anno. Esattamente quanto prevedeva il Tesoro, dopo aver però tagliato la stessa previsione fissata in precedenza sull’1,4%. Numeri che continuano a ballare sullo zerovirgola. Con gli attuali tassi così bassi, un flop pazzesco.

di Gaetano Pedullà
 
fonte: http://www.lanotiziagiornale.it

Dal ministero di Alfano 730mila euro al pensatoio di Fassino e Letta per l’osservatorio sui migranti


Fassino



Diciotto progetti in totale, per un costo complessivo di 5,5 milioni di euro. Il tutto col chiaro fine da una parte di promuovere il “confronto tra le politiche per l’integrazione sviluppare in Italia e in altri Stati membri” e dall’altra di incentivare la “qualificazione dei servizi pubblici a supporto dei cittadini di Paesi terzi”. Insomma, anche così il Viminale cerca di affrontare (e nei limiti risolvere) il problema migranti, intervenendo fattivamente per un fronte e confrontandosi con le politiche altrui sull’altro. Tutto lecito, ci mancherebbe. Tanto che tra i 18 progetti ammessi al finanziamento ne spuntano alcuni encomiabili proposti da Regioni (dal Piemonte alla Campania), Comuni (da Palermo a Isola Capo Rizzuto) e Università (da Roma Tre a quella del Molise fino all’ateneo del Salento). Il secondo dei progetti più finanziati dal Viminale mira a creare un osservatorio sulla “inclusione finanziaria dei migranti”. Un programma di tutto rispetto, dato che costerà al ministero di Angelino Alfano qualcosa come 733mila euro.
A proporlo, però, non è un ateneo, né una Regione, ma un centro studi che conosce molto bene il mondo politico. Parliamo del Cespi, il Centro Studi di Politica Internazionale. Tutto legittimo, per carità. Se non fosse che nel comitato direttivo del pensatoio troviamo non pochi esponenti del mondo politico di primo piano. Qualche esempio? Presto detto: presidente del pensatoio è Piero Fassino. E nel comitato di presidenza spiccano l’ex premier Enrico Letta, il sottosegretario agli Esteri Sandro Gozi, il viceministro della Farnesina Mario Giro. Finita qui? Certo che no. Nel direttivo spuntano altri nomi altisonanti: dall’ex sottosegretario ai tempi di Romano Prodi, Donato Di Santo, fino a Stefano Gori, storico capo del cerimoniale al Quirinale durante i mandati di Pertini, Cossiga, Scalfaro, senza dimenticare Piero Scarpellini, a lungo fedelissimo di Romano Prodi.
Legami d’oro – Insomma, al di là degli indiscussi meriti del centro studi, la presenza di tanti esponenti vicini a questo (e a passati) Governi, non passa inosservata. E non è un caso che, nel corso degli anni, il Cespi ha sempre attinto ai fondi pubblici. Pochi sanno, ad esempio, che il think-tank diretto da Fassino risulta anche “ente internazionalistico” e, come tale, gode dei finanziamenti messi a disposizione dalla Farnesina (per inciso: nel Cespi, come visto prima, siedono diversi uomini del ministero): 123mila euro complessivi nel triennio 2016-2018. Ma non basta. Stando alla relazione depositata a fine 2015 e relativa all’anno 2014, il Cespi riesce ad attirare anche altri fondi. Nel corso di quell’anno il pensatoio ricevette 236mila da enti pubblici, 36mila euro dalla Regione Piemonte, 198mila euro da privati. Ma tra i tanti finanziatori, incuriosisce lo stanziamento di 20mila euro circa disposto dalla Compagnia San Paolo di Torino. Un particolare non da poco considerando che fino a qualche mese fa a nominare due membri del Consiglio Generale della Compagnia di San Paolo era proprio l’amministrazione facete capo a Piero Fassino. Casualità e nulla più.

di Carmine Gazzanni
 
fonte:http://www.lanotiziagiornale.it

REFERENDUM COSTITUZIONALE - "Se è un costituzionalista a dire No "



Intervista a Paolo Maddalena, vice presidente emerito della Corte Costituzionale, sui punti centrali della legge Renzi-Boschi e sulle conseguenze nefaste nel Paese


Se è un costituzionalista a dire No


Ansia e inquietudine per l’esito referendario del 4 Dicembre. Ma anche desiderio, ormai, che quella data si avvicini in fretta. Sventato il rinvio, siamo pronti a dare il nostro NO, incompreso o osteggiato da chi non ha letto scientemente la riforma costituzionale, da chi non ne è informato o da chi ha interessi privati. Checché ne dica il Pinocchio fiorentino, abilissimo a ribaltare la realtà dei fatti e a svendere la democrazia e i diritti come fossero aspirapolveri.
Inquieta, ma non sorprende, la sua recente arringa alla Leopolda. Un discorso rabbioso, scorretto, diretto anche ai suoi che l’hanno tradito in casa. Colpisce duro il Premier, a destra e a manca, tentando così di portare a casa la palma della vittoria. Il timore di una sconfitta è personalistico. La débacle cadrebbe sull’uomo, che esprime il potere dei signori della finanza mondiale, come un’affilata lama che lo taglierebbe fuori dalle simpatie di un’Europa riformista e liberista. Non manca, nel suo delirante discorso autoreferenziale, di definire chi voterà No “un’accozzaglia di gente”.
É la classica performance del potente che inizia ad avere paura. Paura di perdere consensi, paura che non siano riconosciute le ragioni della riforma, paura di perdere un potere acquisito svendendo ai Trattati europei e ai poteri finanziari il Paese che governa indegnamente, togliendo e tagliando diritti e fondi, prono com’è all’Europa. Se perderà vuole andare subito a elezioni “Non mi faccio rosolare” dice durante la kermesse piddina. E per fortuna che ha a cuore il Paese. Quanto di deforme c’è nella riforma costituzionale lo conferma Paolo Maddalena, giurista, magistrato, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale

Professor Maddalena, siamo vicinissimi al voto referendario. In ultima analisi, ci può ribadire anzitutto i motivi dell’incostituzionalità di questa riforma? Non avrebbe dovuto essere stata bocciata sul nascere dalla Corte costituzionale, a causa dell’eccessivo intervento di modifica che tocca ben 47 articoli con tematiche diverse. E perché ciò non è avvenuto?
Questa riforma, come ha affermato di recente la ministra Boschi, costituisce un tassello dell’intera politica del Governo Renzi. In sostanza essa serve per dare una legittimazione costituzionale alle varie leggi varate dal Parlamento a favore delle multinazionali e delle banche e contro gli interessi degli Italiani: lo Sblocca Italia, il Jobs Act, la riforma della Scuola e la riforma della Pubblica Amministrazione.
In realtà questa revisione costituzionale, che cambia un terzo della Costituzione vigente, eccede i limiti propri della revisione e richiederebbe un’approvazione da parte di un’assemblea costituente. La cosa più grave è che questa revisione modifica implicitamente lo stesso articolo 138 cost. posto dai Costituenti a garanzia delle modifiche costituzionali.
Mentre detto articolo prevede che la revisione costituzionale debba essere approvata da due Camere di pari rango per due volte ad una distanza non inferiore ai tre mesi, con la modifica costituzionale approvata dal Parlamento una delle due Camere, il Senato, ha un rango inferiore alla Camera dei Deputati, essendo composto non più da Senatori eletti, ma da consigliere regionali e sindaci nominati dai Consigli Regionali. E, d’altro canto, in virtù del ballottaggio la maggioranza dei deputati può essere eletta anche soltanto dal 20% dei votanti e cioè da circa il 10% degli aventi diritto al voto. Ciò consente al Governo e al Parlamento di modificare anche la parte prima della Costituzione, che riguarda i diritti fondamentali, con la rappresentanza di una parte minima del popolo italiano. É proprio quanto vuole la JP Morgan come si legge nel documento dalla stessa pubblicato il 25 maggio 2013.
In proposito è da rilevare che questa incostituzionalità non poteva essere fatta valere dalla Corte Costituzionale in via preventiva, poiché in questa sede, ai sensi dell’art.75 cost. la Corte è tenuta a verificare che la revisione non riguardi leggi tributarie, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Il dato che la revisione riguardi tematiche diverse doveva esser fatta valere dall’ufficio per il referendum presso la Corte di Cassazione e, visto che ciò non è avvenuto, dal Tar Lazio.

Quali fra gli 11 principi fondamentali irriformabili per legge, sono messi in discussione dalla riforma Renzi-Boschi?
Come sopra detto la revisione potenzialmente vìola l’intera Costituzione, compresi gli undici principi fondamentali.
Andando nello specifico, la riforma su quali articoli incide più pesantemente? Verrebbe da pensare all’abolizione del Senato. In realtà leggendo il nuovo articolo 70 si intuisce che il Senato non verrà totalmente eliminato. Sembra un pasticcio incomprensibile
La riforma incide pesantemente sul principio di rappresentanza trasformando il Senato in un organo di nominati e limitando le autonomie locali. D’altro canto, i Senatori essendo eletti dai Consigli regionali dovrebbero rispondere soltanto a questi, mentre al contrario partecipano alla formazione di leggi per tutto il popolo italiano esercitando tale funzione senza vincoli di mandato e, per giunta, con immunità. Si tratta di uno stravolgimento della democrazia parlamentare.
Come avrebbe dovuto, invece, essere riformato il Senato, per consentire l’integrità della dignità parlamentare. In fondo anche Pietro Ingrao era favorevole al monocameralismo, ma di certo non come quello proposto dalla riforma
Non c’era alcuna necessità di riformare il Senato. Chi ritiene necessario il monocameralismo deve comunque tener presente che esso comporta un sistema elettorale assolutamente proporzionale, cosa che non avviene nella situazione attuale.

La modifica per abbreviare l’iter legis, saltando la navetta, appare più che altro una corsia preferenziale per i ddl governativi, rendendo il Parlamento subalterno. A esser malpensanti o a essere obiettivi è stata confezionata per dare più potere al governo. Qual è il suo pensiero?
É falso pensare che la modifica del Senato possa abbreviare i tempi per l’approvazione delle leggi. Basti pensare che in caso di disaccordo tra Camera e Senato la soluzione deve essere trovata dai loro Presidenti e se essi non si mettono d’accordo occorre ricorrere alla Corte Costituzionale, allungando i tempi di almeno un anno.

Renzi, oltre alla carta della semplificazione, per fare approvare la sua riforma si sta giocando anche la carta del risparmio e delle regalie ai cittadini attraverso i bonus alle fasce deboli. Non le sembra una modalità infida e ingannevole, oltretutto legalizzata e diffusa dagli enormi spazi televisivi concessi alla campagna per il Si?
Certamente si tratta di pubblicità ingannevole e si può anche parlare di voto di scambio.

Lei che ne pensa del cambiamento, prospettato come un miracolo italiano e tanto decantato dal Premier?
Non si tratta di cambiare, ma di mantenere una politica di asservimento ai poteri finanziari che dura da oltre 40 anni e che sta trovando la sua conclusione in questa riforma costituzionale e nell’approvazione del trattato transatlantico TTIP e del CETA.

Cosa ne pensa degli interventi oltralpe e oltreoceano, provenienti dagli Usa e dalla J.P. Morgan che stanno potenziando il contenitore del Sì?
Gli interventi d’oltralpe e oltreoceano mirano a distruggere la sovranità del popolo italiano ed a sottoporlo alla sovranità dei mercati, proprio secondo il pensiero neoliberista.

Se vincerà il Sì ci sarà ancora possibilità di salvare la democrazia e i nostri diritti o sarà la fine dello stato di diritto?
La vittoria del Sì distruggerà la democrazia ed instaurerà un regime oligarchico, se non dittatoriale.

L’Europa è nostra nemica o più precisamente è nemica della Costituzione repubblicana, fondata sulla democrazia e sui diritti. Invece del riformismo voluto da Renzi per adeguarsi ai diktat europei, non sarebbe bene uscirne, per riacquistare con il tempo la sovranità popolare, monetaria e l’autonomia di mercato?
Sarebbe bene uscire dall’Euro, ma restare in Europa. Infatti con gli attuali manovratori europei abbiamo perso tutte le nostre industrie e gran parte dei demani e dei territori, abbiamo ridotto la spesa pubblica, abbiamo creato migliaia e migliaia di disoccupati e non abbiamo nessuna possibilità di svolgere una politica economica agricola e industriale. Una moneta unica, come dice Latouche, è la volpe nel pollaio. L’Unione Europea presuppone una parità tra gli Stati membri e non il predominio della Germania. Si tenga presente che l’art.11 cost. dice che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”.

Dall’inquietante ultima arringa di Renzi alla Leopolda cosa se ne può evincere? Renzi cosa teme, oltre a perdere la sua battaglia per promuovere la riforma? Qual è la sua posta in gioco in questo referendum, c’è dell’altro? Si può pensare ad un vincolo con la J.P. Morgan in cui i suoi interessi sono in gioco?
Tutte le leggi del Governo Renzi e la stessa riforma costituzionale seguono le direttive impartite dalla finanza internazionale. Il fatto che Renzi si sia lasciato andare ad insulti affermando che i Comitati del No sono un’accozzaglia di gente, dimostra che non ha altri argomenti e che si sente mancare il terreno sotto i piedi

Infine lei pensa che la nostra Costituzione oggi debba essere modificata, se sì in quali parti, o finalmente applicata?
A mio avviso la nostra Costituzione, ponendo al centro la tutela della persona umana ha un carattere, come suol dirsi, “atemporale”. 

di Alba Vastano - 12 novembre 2016
fonte: https://www.lacittafutura.it

16/11/16

Matteo Renzi insulta i sostenitori del “No”



 



Non posso dire: “Non era mai successo”. Ma posso dire che raramente era successo che il Presidente del Consiglio lanciasse insulti così beceri alle opposizioni. Badate bene: non insulti a questo o quel politico avversario, bensì a tutti quelli, politici e no, che avversano lecitamente e virilmente il “disegno deformatore” della sovranità popolare e della democrazia parlamentare che il presidente Renzi, “pro domo sua”, tenta d’imporre ai riluttanti Italiani.
Egli, urlando come un pazzo alla platea dei suoi sostenitori, ci ha definiti “accozzaglia”. Questo infame insulto, che squalifica chi lo ha lanciato, non chi lo ha ricevuto, dimostra il livello di paura che attanaglia il nostro piccolo primo ministro. Secondo “Il principio di Peter”, “la carriera fa salire la gente fino al proprio livello di incompetenza”. Secondo il mio adattamento di tale principio, la carica fortunosamente conquistata ha fatto salire Renzi al proprio livello di maleducazione politica. Possibile che un fiorentino, seppure del contado, non conosca appieno il significato delle parole che usa? Bisogna allora ricordarglielo, prendendolo dal Vocabolario della lingua italiana della Treccani. Accozzaglia: “Turba confusa di persone spregevoli o massa discordante di cose”. Poiché gli oppositori riuniti nel No alla riforma costituzionale non sono “cose”, ne risulta che formano, secondo il volgare e ingiurioso epiteto di Renzi, una “turba confusa di persone spregevoli”. Non so a voi, ma a me questa storia rattrista, non indigna. Vedere il capo del mio governo, perché infatti il governo della Repubblica è anche mio sebbene lo avversi; vedere il primo ministro agitarsi scomposto, con il volto teso, e digrignare i denti contro i suoi oppositori mi ha fatto pena assai. E in questa pena il tarlo della paura si è fatto strada.

È questo l’uomo che sta cercando d’imporre una riforma costituzionale ed elettorale che gli consegnerebbe il bastone del comando, con o senza la maggioranza degli elettori? È questo l’uomo di cui dovremmo fidarci approvandogli una riforma costituzionale ed elettorale che concentra nella sola Camera il potere legislativo ed il controllo parlamentare? È questo l’uomo a cui la legge elettorale assegna la potestà di nominare i deputati che gli daranno la fiducia contro l’opposizione frammentata in minoranze fragili? Mi rattrista profondamente un capo di governo che vuole vincere, ma non sa convincere; apparire forte politicamente, ma mostrandosi debole moralmente; infondere coraggio, incutendo paura; preconizzare un grande futuro, esorcizzando le previsioni e le ragioni avverse. Tuttavia, riesco a sollevarmi dallo stato di tristezza persuadendomi che il presidente Renzi è il Mago Otelma della politica, tanto quanto la ministra Boschi ne è la Wanna Marchi. Sono due impostori politici: l’uno prevede che, se vince il sì, l’albero degli zecchini d’oro comincerà a dare frutti nel Campo dei Miracoli; l’altra spaccia la sua riforma come una panacea contro i peggiori mali che ci affliggono. Al signor Renzi debbo precisare che il Campo dei Miracoli sta a due passi dalla città di Acchiappacitrulli. Alla signorina Boschi devo ricordare che chi propina il sale come farmaco contro il cancro non guarisce ma truffa.

di Pietro Di Muccio de Quattro - 15 novembre 2016

14/11/16

Trump non conoscerà l’Europa ma Juncker non conosce l’America




A proposito del neo-eletto presidente USA Donald Trump, il presidente della Commissione Europea, il lussemburghese Jean Paul Juncker, ha dichiarato: “I think we will waste two years before Mr Trump tours the world he does not know.”
Sono rimasto esterrefatto ed atterrito nel sentire queste parole!!!  Non per il fatto che (secondo Juncker) la più importante superpotenza mondiale sarà a breve nelle mani di un pericoloso incapace, ma nel constatare quanto poco il Presidente della Commissione Europea sappia di tale superpotenza, dei suoi meccanismi politici interni e della sua politica estera.
A scanso di equivoci e per fugare ogni possibile dubbio, premetto che se fossi stato statunitense (quindi sforzandomi di vedere la questione da un’ottica americana) credo che avrei votato per la Clinton. Pur ritenendo discutibili sia la sua performance in qualità di Segretario di Stato (anche se la colpa era a mio avviso più dell’indecisione del suo presidente che sua) sia i suoi “legami” con il mondo islamico, l’avrei però probabilmente votata per le politiche economiche e (alcune) politiche sociali che propugnava e … ebbene  sì, lo ammetto, anche per una questione di stile personale.

 

Messo, quindi in chiaro che non sono un “trumpiano” né della prima ora (erano pochi in realtà) né del “post -8 novembre” (il recente incremento esponenziale dei sostenitori esteri del vincitore mi ricorda quello del numero dei nostri partigiani alla vigilia della liberazione), passiamo alla sostanza dell’affermazione.
È vero! Ha perfettamente ragione Juncker quando dice che occorrerà aspettare due anni prima che il neo- presidente USA faccia il giro dei vari interlocutori mondiali degli USA (purtroppo, per noi, ben più numerosi di quelli dell’UE) e decida che politica fare nei confronti dell’Europa (che non è certo tra le sue priorità).
Verissimo! Peraltro, mi chiedo, non è sempre stato così con i Presidenti USA? Il primo anno del primo mandato presidenziale è sempre stato dominato da totale incertezza in politica estera.

 

A Obama è stato attribuito il Nobel per la Pace “sulla fiducia”, quasi come forma di incoraggiamento, prima che potesse fare alcunché e lascio agli esperti esprimersi in merito alle possibilità che avrebbe avuto di un tale riconoscimento una volta valutati i risultati dei suoi due mandati presidenziali.
Si tratta, peraltro, di una cosa naturale, se si esamina quale sia stato il cursus honorum che i Presidenti USA hanno seguito per giungere alla Casa Bianca. Si vedrà che la maggioranza dei Commander in Chief a stelle e strisce degli ultimi decenni proveniva da esperienze politiche esclusivamente domestiche.
Barack Obama (2009-2016), avvocato specializzato nella difesa dei diritti civili e “community organizer” a Chicago, era stato dal 1997 al 2004 nel Senato dello stato dell’Illinois (stato con poco meno di 13 milioni di abitanti). Senato che ovviamente non tratta problematiche internazionali.  Successivamente, per soli 4 anni (dal 2004 al 2008) è stato membro del Senato Federale a Washington. In verità, non mi sembra un grande back-ground internazionale.

 

Prima di lui, George W. Bush (2001-2008), proveniente dal mondo dell’industria petrolifera (nel CdA della Harken Energy Corporation) e del baseball (comproprietario dei “Texas Rangers”), prima di assumere la presidenza ebbe come unica esperienza politica “personale “ (anche se ovviamente l’esperienza del padre e del nonno potrebbero avergli insegnato qualcosa) quella sicuramente importante di Governatore del Texas dal 1994 al 2000.
Esperienza politica di elevato spessore, considerando anche la rilevanza economica e demografica (quasi 28 milioni di abitanti) di tale stato, ma con nessuna responsabilità di politica estera e di relazioni internazionali!

 

Bill Clinton (1993-2000), professore di legge all’università dell’Arkansas e in seguito Attorney General per l’Arkansas, sarà per ben 12 anni Governatore di quello Stato prima di divenire Presidente.
Si è trattato sicuramente di una notevole esperienza di governo di Stato federato seppure con una popolazione totale di meno di 3 milioni di abitanti, più o meno quanti ne ha il comune di Roma, ma molti meno della nuova città metropolitana governata da Virginia Raggi.
Anche in questo caso, però, senza alcuna responsabilità di politica estera e di relazioni internazionali!
George H. Bush (1989- 92) fu sicuramente un’eccezione. Non solo perché giunse o alla presidenza dopo due mandati da vice presidente che gli dettero la possibilità di installarsi alla Casa Bianca  on una conoscenza eccezionale di tutte le problematiche mondiali e dei singoli interlocutori che contavano, ma anche in relazione alla sua precedente lunga carriera politica (eletto alla Camera dei Rappresentanti  già nel 1966, poi Ambasciatore degli USA all’ONU dal ’71 al ’73 e, persino, Direttore della CIA, sia pure per un solo anno, nel ’76). Ma si trattò, appunto, di un’eccezione!

 

Anche Ronald Reagan (1981-88) giunse alla Casa Bianca con esperienze politiche maturate a livello esclusivamente domestico, come presidente della Screen Actors Guild (il sindacato degli attori USA) e, soprattutto, come Governatore della California per due mandati consecutivi (dal 1967).
Pur essendo la California (ben 38 milioni di abitanti) uno stato politicamente ed economicamente importantissimo e complesso, ancora una volta si trattava di esperienze prive di dimensione internazionale. Se andassimo indietro nel tempo la situazione sostanzialmente non cambierebbe.

 

Gli ultimi presidenti statunitensi molto spesso provenivano da esperienze politiche maturate come governatori di stati federati, con responsabilità che possono essere anche molto importanti, ma non nei confronti del mondo esterno.
In questo contesto, Hillary Clinton sarebbe stata un’eccezione (se fosse stata eletta), come lo sono stati, sicuramente, Eisenhower (per i suoi trascorsi militari e di Comandante NATO) e Nixon, che ne era stato il vice per otto anni ed il già citato Bush senior. Ma si tratta di casi relativamente isolati.

 

Le campagne elettorali negli USA (come in molti altri Paesi) si concentrano su tematiche socio-economiche interne più che sulle relazioni internazionali, che all’americano medio non interessano più di tanto.
Quindi, normalmente, i Presidenti USA quando giungono alla Casa Bianca per la prima volta non sono stati esposti ad esperienze nel settore delle relazioni internazionali analoghe a quelle che, ad esempio, potrebbe aver maturato un capo di governo europeo, che spesso (ma non sempre!) ha avuto precedenti esperienze ministeriali.

 

Sarebbe meglio che così non fosse? Forse sì (a mio avviso, certamente), ma sappiamo che è stato quasi sempre così. C’è regolarmente un periodo di incertezza nelle relazioni internazionali degli USA quando installa un nuovo Presidente (è stato così sia con Bush Junior che con Obama). Non si capisce, pertanto, la sorpresa di Juncker.
Peraltro, nel caso specifico, mi sembra difficile da credere che il “tycoon” Trump , fondatore di un impero finanziario che opera su scala globale non conosca il mondo o lo conosca meno, ad esempio, di un Governatore dell’Arkansas!
È vero che un politico in servizio permanente effettivo, come Juncker, potrebbe non considerare valida questa esperienza imprenditoriale. Peraltro, è con gli USA di Trump che la Ue (come anche l’Italia) dovrà sapersi interfacciare e dovrà (purtroppo) accettare di buon grado di non essere tra le priorità della nuova presidenza.

 

Peraltro, l’UE non era una priorità neanche per la Presidenza Obama. Presidenza che nel settore economico ha inseguito il sogno di un “ipotetico G2” USA – Cina e che in quello della sicurezza è stata caratterizzata a un continuo tergiversare e da un’indecisione che hanno danneggiato, tra gli altri, anche i Paesi europei.
Indecisione e susseguirsi di mezze misure adottate in relazione all’Afghanistan, al contrasto al terrorismo di matrice islamica, alle crisi che travagliano il mondo arabo, ecc.  Tentennamenti che potrebbero ricordare quella di alcun principi europei (penso all’Amleto shakespeariano e al Carlo Alberto nostrano, ad esempio).

 

D’altronde, il programma politico di Obama non era concentrato sul ruolo geopolitico degli USA, bensì sulla soluzione dei problemi sociali ed economici interni, ai quali giustamente ha tentato di dedicarsi, percependo come noiose interruzioni tutte le volte che doveva occuparsi di crisi internazionali (si vedano, al riguardo, le dichiarazioni di Stanley McChrystal del giugno 2010 che portarono alla sua immediata rimozione dal comando di ISAF).
ome evidenziato da molti commentatori, la presidenza Trump potrebbe anche essere foriera di  non trascurabili possibilità per l’Europa.

 

In campo economico se gli USA adotteranno una politica più protezionistica, in campo geo-politico stemperando i toni del confronto con la Russia di Putin, costringendoci a rivedere e aggiornare la NATO e a considerare quali competenze in materia di difesa e sicurezza potrebbero essere attribuite ad un’eventuale “associazione” di Paesi che dovrebbe necessariamente essere più ristretta e coesa dell’odierna UE.
Ovviamente se noi europei sapremo capire il nuovo contesto e sfruttarlo con visione strategica. Questo, però è un discorso molto più ampio che richiederebbe ulteriori approfondimenti.
Torniamo, invece alle dichiarazioni del Presidente della Commissione EU. Potrà essere vero che Trump non conosca “il mondo” (o che, come sembrava intendere Juncker, lo conosca ancora meno dei suoi predecessori quando sono entrati in carica). Lo vedremo nei prossimi mesi. Di certo, però, già ora sappiamo che “il mondo” non sembra conoscerlo Juncker e questo, come europeo, mi preoccupa molto più!

Foto: Casa Bianca, AP, CNBC, Euronews e Reuters.

di Antonio Li Gobbi - 14 novembre 2016

Antonio Li Gobbi

Antonio Li Gobbi

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

13/11/16

VITTORIA TRUMP ..... " Ma studiatevi il voto, fighetti radical-chic! "

 

silent 


BILE E PING-PONG
Schiumano ancora rabbia e livore da una parte all’altra dell’Oceano. La loro bile rimbalza come una pallina di ping-pong. Li vedi attoniti o furiosi, li leggi confusi e incazzati. Non sanno darsi una ragione, loro che pretendono di avere sempre ragione.
Annientati non da Trump ma dalla loro stessa arroganza; dalla stupidità travestita da sapienza; dalla convinzione di essere, di diritto, sempre dalla parte giusta della storia; e quando la storia li smentisce, è la storia a stare dalla parte sbagliata.
Avete capito di chi parlo: di loro, sempre loro, i fighetti radical-chic, gli elitari liberal come si auto-definiscono in America.
Secondo molti intellettuali di quelli che contano, l’America che ha votato Trump è “quella cafona, tracotante e ignorante che non legge giornali né libri” (Saviano); è quella “deprimente, bigotta, ignorante e maniaca delle armi (Michele Serra) è quella del nonno di Gramellini che oggi “come tanti elettori di Trump, non si vergognerebbe affatto di avere studiato poco”.
Ma se loro che hanno studiato e non sono ignoranti, avessero studiato il voto capirebbero più delle ignoranti banalità che scrivono. Proviamo a farlo noi per loro.

GLI IGNORANTI DI TRUMP
È vero, gli elettori americani con titolo di studio basso hanno preferito Donald Trump di 8 punti rispetto alla Clinton; mentre tra quelli con laurea la Clinton ha superato Trump di 9 punti. Il problema è che nel 2008 quegli stessi elettori “ignoranti” per la metà votarono Obama e nessuno si permise di dire che Obama aveva preso il voto degli “ignoranti”.
L’ipocrisia del fighetto radical-chic è questa: se non sei istruito e voti a sinistra sei un cittadino in cerca di riscatto sociale; se cinque anni dopo sei ancora non istruito ma, schifato dalla sinistra, decidi di votare a destra diventi “un ignorante, cafone”.

dati 

TRUMP IL RAZZISTA!
Secondo la vulgata Trump era il candidato razzista per eccellenza; così è stato dipinto dai media americani ed europei. Per questo uno si sarebbe aspettato che il voto delle minoranze minacciate dal ritorno del Ku Klux Klan andasse tutto per la Clinton, tanto più che l’elettorato nero e quello ispanico sono storicamente appannaggio dei Democratici.
Eppure non è andata così; tutte le analisi dicono che Trump ha preso tra i neri più voti di qualsiasi candidato repubblicano precedente.
Quindi il fatto che la Clinton abbia guadagnato l’80% dell’elettorato “black”, è in realtà una sconfitta rispetto ai voti presi non solo da Obama (primo Presidente nero della storia) ma persino da Al Gore nel 2000 contro Bush.
Il voto “bianco” di Trump è praticamente uguale a quello preso dal Gop nel 2008.
Al contrario il voto ispanico migliora nettamente rispetto ai voti che i repubblicani raccolsero ai tempi di Romney. Cosa che “sorprende” persino il clintoniano Washington Post, considerando le polemiche innescate contro l’immigrazione clandestina messicana.


fedi 

TRUMP IL BIGOTTO ISLAMOFOBO!
Se si confrontano i voti tra i fedeli delle diverse religioni presenti in America (analisi preliminare di Pew Research) la sorpresa è ancora più grande.
Tra i Protestanti e gli Evangelici il voto raccolto da Trump è lo stesso raccolto dagli altri candidati repubblicani (con un leggero aumento rispetto a Mc Cain nel 2008).
Ma Trump ha aumentato nettamente il voto tra i Cattolici (52% rispetto al 48% di Romney e il 45% di Mc Cain) arrivando alle percentuali di Bush quando il voto cattolico americano si spostò nettamente a destra.
Ha perso voti tra gli ebrei (la potente lobby americana si è schierata compatta con la Clinton), ma, incredibile, Trump è il candidato repubblicano ad aver preso più voti tra i fedeli delle “Altre religioni” (Islam, Buddhismo e Induismo). Strano per uno che viene dipinto come islamofobo ed espressione del bigotto mondo WASP.

TRUMP IL SESSISTA
Volgare misogino per i media, Trump il sessista ha raccolto il voto delle donne in linea con i suoi predecessori repubblicani ed in scia con il tradizionale voto americano. Il 52% delle donne ha sostenuto la Clinton contro il 42% che ha sostenuto Trump; più o meno lo stesso vantaggio democratico che si è manifestato nel 2012 e nel 2008.
Il problema semmai è il contrario: perché le donne non hanno votato in massa quella che poteva essere il primo Presidente americano donna? Fallimento della retorica di genere con cui la sinistra ha inondato i media.

FIGHETTI E PIAGNONI
Noi non sappiamo come sarà l’America di Trump; magari un fallimento, come è stata quella di Obama incensata per anni dai soliti fighetti di cui sopra. Magari Trump scenderà a patti con quel sistema che ha detto di voler combattere e quindi saremo da capo a dodici.
Ma il voto a Donald Trump è qualcosa di molto più complesso; i fighetti radical-chic, a nanna nelle loro culle dondolanti circondati dai carillon dell’autocompiacimento, dimostrano di non capire nulla non solo dell’America ma di come sta cambiando l’Occidente; poi quando il rumore del mondo li sveglia, iniziano ad inondare di strazianti “nghe nghe” giornali e televisioni e la trasformazione da fighetto radical-chic a piagnone snob si compie definitivamente.
Non un titolo di studio ma l’ostinazione a non riconoscere la realtà è il vero tratto dell’ignorante. Vero Saviano, Serra e Gramellini?

di Gianpaolo Rossi - 12 novembre 2016