Dai (pochi) dati raccolti da
Orlando emerge che i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati in
una cella sono in stragrande maggioranza in attesa di giudizio: presunti
innocenti
Fin dall’inizio, uno si domanda se la vera vergogna siano i
dati in sé, oppure il fatto che appena un tribunale su tre abbia deciso
di rispondere al ministero della Giustizia. Perché la richiesta del
ministro Andrea Orlando era sacrosanta: Orlando aveva chiesto agli
uffici giudiziari di tutta Italia di raccontare come abbia funzionato la
custodia cautelare nell’ultimo anno. Non era una curiosità peregrina.
Il ministro voleva sapere quali effetti avesse avuto la legge 47 del 16
aprile 2015, entrata in vigore lo scorso 8 maggio, che ha introdotto
significative modifiche al codice di procedura penale rendendo più
stringenti le regole che stabiliscono la custodia in carcere. Ed è la
stessa legge 47 che prevede l’analisi di funzionamento, perché il
governo deve presentare una relazione al Parlamento entro il 31 gennaio
di ogni anno. Ebbene, a Orlando hanno (vergognosamente) risposto appena
48 uffici giudiziari su 136: prevalentemente si tratta di tribunali
piccoli, l’unica eccezione la fa Napoli. E soltanto sette uffici
corrispondono a direzioni distrettuali antimafia. Passando
poi ai dati, la vergogna aumenta. Sulle 12.959 misure cautelari
personali disposte da questi 48 tribunali, la custodia cautelare in
carcere è stata decisa in 6.016 casi: il 46 per cento del totale. Gli
arresti domiciliari sono stati 3.704 (il 29 per cento dei casi),
l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria ha riguardato altri
1.430 casi, l’11 per cento. Gli avvocati penalisti, associati
nell’Unione delle camere penali, sono più che delusi: «Il risultato
dell’indagine – protesta Beniamino Migliucci, che dell’Ucp è presidente –
è così parziale da non consentire, anche per via della natura del tutto
casuale della selezione del campione, di conferire a quel dato un
significato in qualche modo rappresentativo della realtà».
Ma i penalisti correttamente lamentano che resta altissimo
(nonostante il commento favorevole del ministero) il ricorso alla
custodia cautelare in carcere. Del resto, che anche dopo le restrizioni
della legge 47 poco meno della metà del totale delle misure porti un
cittadino in cella è statistica letteralmente impensabile per gli altri
paesi europei: e questo avviene nonostante il legislatore abbia sempre
inteso l’adozione del carcere da parte del giudice come extrema ratio.
E il braccialetto elettronico?
A leggere le tabelle del ministero, inoltre, si comprende che tra le oltre 6 mila custodie cautelari disposte in carcere quelle determinate da una condanna definitiva sono state soltanto 845, una su cinque. Quindi i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati a occupare una cella sono in stragrande maggioranza imputati in attesa di giudizio: presunti innocenti. E sempre interpretando le tabelle si capisce che in un solo anno (con durate che non è dato conoscere) sono maturate le condizioni per quasi 200 ingiuste detenzioni presso il solo tribunale di Napoli.
A leggere le tabelle del ministero, inoltre, si comprende che tra le oltre 6 mila custodie cautelari disposte in carcere quelle determinate da una condanna definitiva sono state soltanto 845, una su cinque. Quindi i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati a occupare una cella sono in stragrande maggioranza imputati in attesa di giudizio: presunti innocenti. E sempre interpretando le tabelle si capisce che in un solo anno (con durate che non è dato conoscere) sono maturate le condizioni per quasi 200 ingiuste detenzioni presso il solo tribunale di Napoli.
In tutto questo, viene da domandarsi che fine abbia fatto
il mitico “braccialetto elettronico” di cui si favoleggia da decenni. In
base alle ultime statistiche, in Italia dovrebbero esisterne 2 mila, ma
non si sa se vengano tutti utilizzati, né come. Aveva fatto scalpore, a
metà del 2015, il caso di un detenuto: il giudice aveva ordinato di
farlo uscire di prigione e dargli gli arresti domiciliari, ma la carenza
di braccialetti lo aveva inesorabilmente respinto in cella. In
compenso, i braccialetti costano 11 milioni di euro l’anno (5.500 euro
l’uno), che vanno a sommarsi ai 110 milioni circa che dal 2001 al 2011
lo Stato aveva versato a Telecom, titolare del servizio, per la
“sperimentazione” su 114 braccialetti.