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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

16/09/16

Fatta la riforma, gabbato il ministro. Restiamo il paese della carcerazione preventiva



Dai (pochi) dati raccolti da Orlando emerge che i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati in una cella sono in stragrande maggioranza in attesa di giudizio: presunti innocenti

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Fin dall’inizio, uno si domanda se la vera vergogna siano i dati in sé, oppure il fatto che appena un tribunale su tre abbia deciso di rispondere al ministero della Giustizia. Perché la richiesta del ministro Andrea Orlando era sacrosanta: Orlando aveva chiesto agli uffici giudiziari di tutta Italia di raccontare come abbia funzionato la custodia cautelare nell’ultimo anno. Non era una curiosità peregrina. Il ministro voleva sapere quali effetti avesse avuto la legge 47 del 16 aprile 2015, entrata in vigore lo scorso 8 maggio, che ha introdotto significative modifiche al codice di procedura penale rendendo più stringenti le regole che stabiliscono la custodia in carcere. Ed è la stessa legge 47 che prevede l’analisi di funzionamento, perché il governo deve presentare una relazione al Parlamento entro il 31 gennaio di ogni anno. Ebbene, a Orlando hanno (vergognosamente) risposto appena 48 uffici giudiziari su 136: prevalentemente si tratta di tribunali piccoli, l’unica eccezione la fa Napoli. E soltanto sette uffici corrispondono a direzioni distrettuali antimafia. Passando poi ai dati, la vergogna aumenta. Sulle 12.959 misure cautelari personali disposte da questi 48 tribunali, la custodia cautelare in carcere è stata decisa in 6.016 casi: il 46 per cento del totale. Gli arresti domiciliari sono stati 3.704 (il 29 per cento dei casi), l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria ha riguardato altri 1.430 casi, l’11 per cento. Gli avvocati penalisti, associati nell’Unione delle camere penali, sono più che delusi: «Il risultato dell’indagine – protesta Beniamino Migliucci, che dell’Ucp è presidente – è così parziale da non consentire, anche per via della natura del tutto casuale della selezione del campione, di conferire a quel dato un significato in qualche modo rappresentativo della realtà».
Ma i penalisti correttamente lamentano che resta altissimo (nonostante il commento favorevole del ministero) il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Del resto, che anche dopo le restrizioni della legge 47 poco meno della metà del totale delle misure porti un cittadino in cella è statistica letteralmente impensabile per gli altri paesi europei: e questo avviene nonostante il legislatore abbia sempre inteso l’adozione del carcere da parte del giudice come extrema ratio.

E il braccialetto elettronico?
A leggere le tabelle del ministero, inoltre, si comprende che tra le oltre 6 mila custodie cautelari disposte in carcere quelle determinate da una condanna definitiva sono state soltanto 845, una su cinque. Quindi i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati a occupare una cella sono in stragrande maggioranza imputati in attesa di giudizio: presunti innocenti. E sempre interpretando le tabelle si capisce che in un solo anno (con durate che non è dato conoscere) sono maturate le condizioni per quasi 200 ingiuste detenzioni presso il solo tribunale di Napoli.
In tutto questo, viene da domandarsi che fine abbia fatto il mitico “braccialetto elettronico” di cui si favoleggia da decenni. In base alle ultime statistiche, in Italia dovrebbero esisterne 2 mila, ma non si sa se vengano tutti utilizzati, né come. Aveva fatto scalpore, a metà del 2015, il caso di un detenuto: il giudice aveva ordinato di farlo uscire di prigione e dargli gli arresti domiciliari, ma la carenza di braccialetti lo aveva inesorabilmente respinto in cella. In compenso, i braccialetti costano 11 milioni di euro l’anno (5.500 euro l’uno), che vanno a sommarsi ai 110 milioni circa che dal 2001 al 2011 lo Stato aveva versato a Telecom, titolare del servizio, per la “sperimentazione” su 114 braccialetti.

settembre 16, 2016 Maurizio Tortorella
fonte: http://www.tempi.it 

Bayer-Monsanto, matrimonio al veleno


La chimica in agricoltura verso una agricoltura sempre più chimica, dai fertilizzanti ai semi geneticamente modificati. La tedesca Bayer compra la statunitense Monsanto per 66 miliardi di dollari. «Camposanto», è una dei titoli allarmati. Agricoltori e ambientalisti: «Biodiversità a rischio». Coldiretti: il monopolio planetario farà salire i prezzi. Greenpeace, allarme glifosato.

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Lo chiamano «agrobusiness» ed è l’affare del nuovo millennio, agricoltura e chimica assieme a tanti soldi per fare ancora più soldi controllando la fame del mondo. Agricoltura sempre più chimica e artificiale, altro che bio, con una gamma che andrà dagli antibiotici ai semi geneticamente modificati, fino ai pesticidi. La tedesca Bayer compra la statunitense Monsanto per 66 miliardi di dollari. Una realtà che dovrebbe controllare il 24 per cento del mercato dei prodotti per la chimica e il 30% di quello delle sementi.

Di cosa parliamo
La Monsanto Company è un’azienda multinazionale di biotecnologie agrarie, con circa 18 000 dipendenti e un fatturato di circa 14.5 miliardi di dollari.
È nota nel settore della produzione di sementi transgeniche, ed è anche il maggior produttore mondiale di sementi convenzionali.
La Bayer è una azienda chimica e farmaceutica fondata in Germania nel 1863. L’azienda, una delle principali case farmaceutiche mondiali, produce pesticidi e l’aspirina.
Non solo il medicinale più diffuso al mondo, ma anche la proprietà del club calcistico di Leverkusen, il Bayer Leverkusen Fußball.

Cosa è accaduto
Dopo quattro mesi di trattative, il colosso americano ha accettato l’offerta di Bayer, che sborsa – in contanti – la cifra record di 66 miliardi di dollari. Per l’industria tedesca, è l’acquisizione più grande di sempre, e dall’operazione nascerà il leader globale di sementi e agrochimica. Un gigante a doppia trazione, europea e statunitense, figlio dell’ondata di acquisizioni in corso nell’agrochimica, dopo gli accordi di Dow Chemical e DuPont e quelli di Syngenta con ChemChina.

Timori Antitrust e agricoltori
Se la Borsa festeggia, nelle sedi dell’Antitrust americano aumentano i dubbi e, in Germania, le preoccupazioni. In caso di stop dell’autorità antitrust Usa, Bayer verserà una penale che può arrivare a 2 miliardi. La mega-fusione ha messo in allarme le associazioni degli agricoltori, che temono un aumento dei prezzi, e le organizzazioni ambientaliste. Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti, parla di «posizione di monopolio», mentre Slow Food attacca: «E’ un matrimonio da brividi».

Matrimonio tossico
È il matrimonio tra il grande produttore di pesticidi, la Bayer, accusati di essere i killer delle api, con il leader mondiale delle semenze Ogm, oltre ad essere il produttore del Roundup, il diserbante diventato il simbolo della agricoltura distruttiva. In ballo, la corsa ai brevetti e la battaglia delle biotecnologie. I brevetti riguardano anche le produzioni vitali per la sopravvivenza delle popolazioni, anche e soprattutto dei paesi più poveri. Mentre sulle coltivazioni ogm pesano enormi incognite sanitarie mai pianamente chiarite.

Redazione 15 settembre 2016  
fonte: http://www.remocontro.it

14/09/16

Alla faccia della previdenza


 


Che l’Ape (Anticipo pensionistico) fosse l’ennesima presa in giro per non modificare la Legge Fornero e spingere gli aspiranti più a rinunciare che aderire, si era capito subito. Si è inventato uno di quei sistemi assurdi all’italiana, complicato, cervellotico e costoso, che alla fine sarà accettato dalla minor parte della platea interessata. Era questo lo scopo del Governo, che come spesso succede da anni a questa parte, l’incapacità dei sindacati nostrani non è riuscita a modificare. Cgil, Uil, Cisl, infatti, dopo roboanti dichiarazioni di guerra, hanno finito con l’accettare quasi tutto, lasciando intatto un impianto nato più per dare lavoro e guadagno alle banche e alle assicurazioni, che per ripristinare le ingiustizie della Legge Fornero.
Perché sia chiaro, se c’è stata una legge sulla previdenza, negli ultimi decenni più ingiusta che sbagliata, è stata proprio la Legge Fornero. Nel 2011, infatti, sotto ricatto dell’Europa e alle prese con un sistema previdenziale insostenibile, per fare cassa e risparmiare, la ministra del Governo Monti escogitò la genialità di allungare “tout court” l’età pensionabile.
Insomma, un’idea sensazionale da Premio Nobel, con tutta probabilità se si fosse stabilito che l’età minima dovesse diventare settantadue/settantatré anni saremmo andati ancora meglio nel tornaconto dell’Inps e delle casse pubbliche. Eppure nel 2011 i geni di quel governo sapevano bene che l’insostenibilità dei conti previdenziali nasceva da lontano e si alimentava di un’enormità di intollerabili ingiustizie, diventate privilegi. Le stesse che oggi il sottosegretario Tommaso Nannicini, proponendo l’Ape, dichiara di non poter toccare per evitare di combinare danni. Parliamo di pensioni d’oro, di vitalizi vergognosi, come di chissà quante invalidità fasulle, accompagni non dovuti, doppie e triple erogazioni previdenziali.
Su queste voci, che gridano scandalo al cospetto dell’equità, si continua ipocritamente a far finta di nulla e a non fare niente per porvi rimedio. Eppure parliamo di miliardi di costi, che risparmiati consentirebbero una redistribuzione tale da rimediare alle tante assurdità della nostra previdenza (alla faccia della parola). Perché da noi, se c’è una cosa chiara, è che tutto siamo stati fuorché previdenti. Sta tutta qua l’insopportabilità della Legge Fornero, che nessuno ha il coraggio di toccare pur di non mettere in campo un’operazione di giustizia e verità sull’intero sistema previdenziale degli ultimi decenni. Si parla tanto di lotta all’evasione eppure un controllo su ogni pensione di invalidità, una per una dalla prima all’ultima, non viene fatto e si aspetta che qualche furbetto cada nella rete per rimediare. Altrettanto sui cosiddetti contributi agricoli, intorno ai quali si continuano a compiere saccheggi di ogni tipo e sugli accompagni, erogati in troppi casi con eccessiva facilità.
Il capitolo poi delle pensioni d’oro e dei vitalizi è qualcosa di talmente scandaloso che in nessun Paese serio sarebbe stato possibile di fare. Ecco perché al posto della Legge Fornero, oppure almeno assieme a questa, sarebbe stata necessaria su tali temi una operazione di riordino, ricalcolo e verifica a tappeto, sulla base dell’equità e della giustizia sociale. Solo così ci si può presentare di fronte ai pensionati che prendono poche centinaia di euro, a quelli che pur avendo maturato i tempi sono costretti a aspettare anni, a quelli che hanno perso il lavoro e stanno nella terra di nessuno. Per questo l’Ape è l’ennesima presa in giro, un pannicello caldo, un contentino lontano anni luce da quel che sarebbe indispensabile fare dentro i conti del sistema previdenziale, per recuperare le risorse che mancano. Diritto acquisito è una parola senza senso, se il diritto è non solo ingiusto ma socialmente iniquo diventa privilegio e bisogna avere il coraggio d’intervenire.

di Elide Rossi e Alfredo Mosca - 14 settembre 2016
fonte: http://www.opinione.it

Ottimismo renziano alla panna montata


 
 
 
Andare in pensione anticipata accendendo un mutuo ventennale ed incassando mensilmente una cifra inferiore a quella preventivata non è una soluzione miracolistica, ma è una piccola toppa sul buco di ingiustizia provocato dalle Legge Fornero. Viene, però, presentata come una panacea di tutti i mali del sistema pensionistico insieme ai dati che annunciano un aumento di occupati talmente intenso da sembrare dimostrare che il problema della disoccupazione sia stato finalmente risolto nel nostro Paese. Di esempi di questo tipo se ne possono fare a dozzine. Beppe Grillo ed i suoi fedeli sostengono che sono la prova provata dall’asservimento totale dell’informazione italiana al governo di Matteo Renzi. Ma per chi non deve cavalcare la protesta e si limita ad osservare la realtà con occhi smaliziati, si tratta di uno degli aspetti della campagna elettorale per il referendum sulla riforma costituzionale. Quello che vede l’Esecutivo impegnato a far circolare nel Paese una marea di buone ma false notizie nella convinzione che l’ottimismo di maniera sparso a piene mani convinca gli elettori a votare “Sì” al referendum per conservare a Palazzo Chigi l’artefice di tanto benessere, di tanta abbondanza e di tante soluzioni illuminate degli annosi problemi italiani.
Grillo non ha affatto torto quando denuncia la connivenza della grande informazione nella realizzazione di questo gigantesco processo illusionistico. Ma la questione più interessante non è di scoprire l’acqua calda del giornalismo asservito, ma di capire se questa panna montata di buone notizie serva o meno allo scopo di convincere gli italiani che con il “Sì” al referendum si salva il governo dei miracoli e ci si garantisce un altro scampolo di vita beata.
Se si vivesse ai tempi dell’inizio della crisi è probabile che la panna montata otterrebbe lo scopo prefisso. La crisi, però, va avanti da troppi anni. Ed in tutto questo tempo anche gli italiani più ottimisti o creduloni avvertono lo stridore provocato dal confronto tra la fabbrica delle illusioni e la realtà in cui vive la società nazionale.
Creare un clima artificioso di speranze irrealizzabili è facile avendo al proprio servizio la stragrande maggioranza di una informazione conformista ed ottusa. Ma è anche molto rischioso. Quando il castello dell’ottimismo artificioso crolla, nulla rimane più in piedi. Solo la rabbia di chi non perdona chi lo ha brutalmente imbrogliato.

di Arturo Diaconale - 14 settembre 2016

fonte: http://www.opinione.it

11/09/16

Quousque tandem, Matteo Renzi?


  


Ascoltando i raccapriccianti annunci di nuove spese espressi nel salotto di Bruno Vespa dal Presidente del Consiglio, viene quasi spontaneo parafrasare il grande Cicerone. Quousque tandem abutere, Matteo Renzi patientia nostra?
Altro che statista che pensa alle nuove generazioni! Qui ci troviamo di fronte ad un personaggetto, come direbbe Crozza/De Luca, che sta letteralmente sfasciando i conti pubblici, insieme al quel residuo di credibilità che è rimasta all’Italietta delle cicale, con l’unico scopo di restare in sella, superando il clamoroso autogol di una riforma costituzionale a dir poco pasticciata. Una riforma la quale, anziché abolire tout court il bicameralismo perfetto, ha partorito un senaticchio dalle competenze molto confuse e, assai probabilmente, furbescamente disegnato su una presunta egemonia locale del Partito Democratico.
Sta di fatto che per sostenere questa folle operazione politica, sulla quale si giocano i destini politici del Premier, ma anche no, il genio sempre più incompreso che governa il Paese ha ampiamento superato i limiti della decenza. L’economia italiana è praticamente inchiodata, come confermano gli ultimi dati Istat su consumi e produzione industriale di luglio, ciononostante Renzi promette di far piovere sui tre più rilevanti settori della spesa pubblica - pensioni, sanità e pubblico impiego - una valanga di mance elettorali.
Secondo i primi calcoli, questa ennesima picconata inferta al bilancio dello Stato, paradossalmente inserita nella cosiddetta Legge di stabilità, sarà coperta bene che vada da almeno un punto di Pil di disavanzo. In soldoni, ulteriori 16 miliardi di deficit che andranno ad ingrossare un debito pubblico il quale, senza San Mario Draghi, sarebbe esploso da un bel pezzo. E la cosa particolarmente grave, al netto degli annunci governativi, è che si tratta in gran parte di spesa corrente, il cui unico pregio, per così dire, è quello di portare voti al pifferaio magico di turno. E hai voglia a circondarsi di espertoni di questo o quel settore, di illustri accademici pieni di titoli e riconoscimenti che riempiono di contenuti le kermesse leopoldesche del citato genio toscano.
Governare come fa Renzi appare di una semplicità disarmante. Basta trasformare il Tesoro in una sorta di bancomat illimitato e il gioco è fatto. D’altro canto, perché affaticarsi in una lunga e defatigante battaglia politica, basata su un vecchiume dialettico che rischia di far perdere tempo e, soprattutto, consensi? Il Premier che va sempre di fretta ha trovato la ricetta giusta. Si compra i voti con la spesa pubblica e festa finita, come dicono in Toscana. Il resto è solo astio e invidia dei soliti gufi che si ostinano a non comprendere la grandezza del personaggetto al timone.

di Claudio Romiti - 10 settembre 2016
fonte: http://www.opinione.it