Il presidente della Bce e il capo del governo finiscono sotto il tiro dei tedeschi e della Commissione, sia pure con diverse motivazioni
- Come era stato abbondantemente previsto, la Banca centrale europea non ha ritoccato i tassi di interesse che resteranno così al minimo storico dello 0,05%. Mario Draghi, nel corso della abituale conferenza stampa che ha seguito la riunione del direttivo dell'istituto di Francoforte, ha tenuto a sottolinearne l'unità. Una precisazione necessaria dopo le insistenti voci di critiche aperte alla sua gestione da parte soprattutto di Jens Weidmann, governatore della Bundesbank. Vale a dire del vero uomo forte dell'economia europea e le cui prese di posizione riflettono quello che Angela Merkel non può dire apertamente. Non a caso Weidmann è stato consigliere economico della Cancelliera che successivamente l'ha voluto alla guida della Banca centrale tedesca. Il nocciolo delle critiche a Draghi, che finora è riuscito a far passare le sue posizioni a maggioranza, è in buona sostanza che l'acquisto di titoli di Stato (fino a 3 anni) da parte della Bce (che vanno ad aggiungersi a quelli a lungo termine, 10 anni, fatta dal Fondo salva Stati) rappresenta una ciambella di salvataggio gratuita offerta a quei Paesi, come l'Italia, che pure oberati da un debito pubblico mostruoso (il 135% del Prodotto interno lordo) non riescono a ridurlo. Un ragionamento che non fa una grinza quello dei crucchi se si rimane nell'ottica dell'euro e del rispetto dei paletti imposti dal Patto di Stabilità (e di crescita) che ne prevede in tempi lunghi la riduzione al 60%. Un traguardo a dir poco illusorio, irrealistico e irrealizzabile anche per la stessa Germania che è attualmente posizionata sull'80% circa. Mentre l'altro Paese “forte” dell'area euro, la Francia, si trova al 95%. Le misure finora adottate dalla Bce sono servite a poco, dicono da Berlino. Anche se Weidmann le ha avallate. Misure che, è bene sempre tenerlo presente, hanno favorito, e di molto, le banche tedesche che hanno incassato una barca di quattrini, grazie ai prestiti triennali al modico tasso di interesse dell'1% annuo. La crescita in Europa sta rallentando, ha ammesso l'ex vice presidente europeo di Goldman Sachs (un anglofono alla Bce è una contraddizione in termini) e sarà necessario rivedere al ribasso le previsioni di crescita per il 2015 e il 2016. Del resto, cosa ci si poteva aspettare? Le banche europee, comprese quelle tedesche, hanno preferito utilizzare i soldi presi a prestito dalla Bce non già per finanziare l'economia reale (imprese e famiglie) ma per comprare titoli di Stato. Questo ha contribuito a tenere basso lo spread tra i Bund tedeschi e i titoli dei Paesi “cicale” dell'area Sud (Btp italiani in testa) ma non poteva certamente favorire una ripresa. Per Draghi, che opera nell'ottica di perseguire il fine “istituzionale della Bce e cioè la stabilità dei prezzi, il risultato è in linea con il mandato ricevuto. Imprese e famiglie la vedono in maniera differente, ma che importa. Del resto Draghi ha anticipato che sono in arrivo altre “misure non convenzionali” e che su esse alla Bce sono “tutti d'accordo”. Dove “non convenzionali” significa altra liquidità messa in circolazione che finirà nei capaci forzieri delle banche europee che, invece di fare credito, continueranno a speculare e a ricostruire il patrimonio intaccato da speculazioni andate a male. Insomma, noi cittadini europei stiamo finanziando le banche. Tra Weidmann e Draghi si tratta allora di un gioco delle parti, all'interno del quale ognuno cerca di trarre i maggiori profitti per il proprio Paese. Per Draghi, purtroppo, non riusciamo a capire quale sia il Paese di riferimento. O forse, purtroppo, lo sappiamo fin troppo bene. Se l'ex Goldman Sachs traballa, anche Renzi non se la passa troppo bene.
- L'accusa rivolta alla burocrazia europea, in particolare alla Commissione, di essere “una banda di tecnocrati”, non è stata apprezzata dal neo presidente Jean Claude Juncker. Il politico lussemburghese non ha gradito per niente la tirata dell'ex sindaco di Firenze che da mesi cerca di far passare la sua richiesta di una maggiore flessibilità per i conti pubblici italiani dove, grazie a diversi equilibrismi contabili, il disavanzo è stato portato sotto il tetto canonico del 3%. Di portarlo entro il 2016 allo 0%, come l'Italia, e non solo essa, si era impegnata a fare, però non se ne parla proprio. E Renzi è il primo a saperlo. La recessione significa infatti meno entrate fiscali e contributive e questo si riflette inevitabilmente sul netto dei flussi di cassa. Finora avete chiacchierato, insistono Juncker e i suoi. I risultati non si sono visti. Il debito continua ad aumentare. Dovete fare un'altra manovra aggiuntiva da almeno 10 miliardi, dicono da Bruxelles. Da qui la minaccia di sanzioni rivolta all'Italia con l'apertura di una procedura di infrazione. Uno scenario prevedibile, visto lo stato comatoso dei conti pubblici, ma che Renzi non può sopportare che gli venga gettato in faccia proprio nel momento in cui, sul piano interno, si rafforzano le critiche proveniente dall'interno del PD e il primo sindacato italiano (la Cgil) è fermo nella propria ostilità. Le misure ultra-liberiste messe in campo dal governo sul mercato (sic) del lavoro avranno bisogno di più di un anno per fare vedere i propri effetti. Così, in questa fase, Renzi non può fare altro che sostenere la proposta lanciata in giugno da Juncker di un grande piano quinquennale di investimenti pubblici per 300 miliardi di euro, tale da funzionare come effetto moltiplicatore degli investimenti privati. Un piano in stile “keynesiano” che dovrebbe rappresentare l'atteso punto di svolta per l'economia europea ma che già si annuncia contrastato nella definizione delle priorità nelle opere pubbliche da realizzare. E dove farle. Per l'Italia, visti i tempi interminabili necessari in passato completare un lavoro pubblico, è lecito essere pessimisti sui vantaggi e sui risultati che ne potremo trarre.
di: Giuliano Augusto - 6 novembre 2014
fonte: http://www.rinascita.eu
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