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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

05/11/14

FACCI : FORSE LO STATO NON HA UCCISO CUCCHI, MA CERTAMENTE LO HA LASCIATO MORIRE. E QUESTA E' UNA COLPA NON CANCELLABILE




Non ho seguito, lo confesso subito, la vicenda di Stefano Cucchi, non ho, a pelle, simpatia per la sorella Ilaria ma se fossi al posto suo forse farei cose simili alle sue, se non proprio le stesse.  
Sono ovviamente d'accordo quando leggo che una persona che finisce nelle mani dello Stato, non dovrebbe poi morire, specie poi circondata da tutte queste ombre (in realtà stavolta qui è un buio brutto). Purtroppo, la gente che oggi urla e inveisce per Cucchi, spesso è la stessa che se ne frega delle condizioni ordinariamente disumane del carcere, pensando che "se sono finiti lì, se lo saranno meritato". L'idea che mi sono fatto è che alla gente stanno sulle palle i giudici quando NON condannano. E se stavolta sotto processo è il sistema carcere che normalmente ignorano, che anzi gli va bene così com'è, ebbè il mantra non cambia. Come scrive il professor Fiandaca, per la maggior parte degli italiani, "anche mediamente colti",  Giustizia = Condanna. 
Qui però la cosa sembra più complicata, perché le critiche di Ilaria Cucchi mi sembrano rivolte più all'Accusa, e quindi ai PM che hanno svolto le indagini e poi formulato l'imputazione, che non ai giudici della Corte che ha assolto per mancanza di prove sufficienti nei confronti degli imputati. Il che non vuol dire che Stefano Cucchi "l'ho ucciso io", per ricordare il cartello che impazza sui social, ma che non c'è prova adeguata che i responsabili fossero i processati. Magari sono altri, e ancora più probabimente, come detto, è proprio l'accusa sbagliata. 
In realtà è un sistema, quello giudiziario in generale e penitenziario in particolare, che funziona male (eufemismo) e che stavolta non solo è andato in cortocircuito (non sarebbe la prima, non resterà purtroppo l'ultima), ma è diventato un caso. 
Ho letto il commento di Filippo Facci, che ha una particolare sensibilità per la materia giudiziaria, e ancor di più per il carcere (è un nemico assoluto del 41bis...strano non lo abbiano ancora imputato come fiancheggiatore mafioso) e lo trovo corretto, anche lodevolmente riflessivo, laddove lo stile del giornalista è in genere "d'attacco", fortemente polemico.
Lo suggerisco, veramente.


Filippo Facci su Stefano Cucchi: "Quella verità che non si vuole accettare"



Filippo Facci

C’è da rimanere un po’ straniti. In teoria sul caso Cucchi non dovrebbe ripartire nessuna nuova indagine, a meno che emergano delle novità che farebbero riaprire qualsiasi processo come prevede l’istituto della revisione. E a meno che il procuratore di Roma segue dalla prima Giuseppe Pignatone, con una procedura sicuramente non aliena alla pressione mediatica, non decida di andare a scovarsi personalmente le novità: rileggendo le carte del processo così da inventarsene un altro, un Cucchi-bis. Ma questo potrebbe avvenire solo a carico di altri soggetti, per esempio i carabinieri che nel 2009 arrestarono Cucchi e lo portarono in tribunale per l’udienza di convalida. Loro, in effetti, non furono neppure mai indagati, diversamente da alcuni agenti di polizia penitenziaria prosciolti due volte. Ora la procura potrebbe dirottarsi sui carabinieri - a grande richiesta - ma difficilmente sarà una revisione «a tutto campo», come titolava il Corriere online di ieri: non c’è più campo, infatti.
Rimanere perplessi comunque è il minimo. Nella mattinata di ieri era sembrato che i giornali avessero titolato il falso nel tentativo d’intercettare un’indignazione comprensibilmente diffusa: «L’inchiesta può ripartire» (Corriere della Sera) o ancora «Riapriremo le indagini» (Il Fatto Quotidiano) anche se l’inchiesta e il processo in realtà sono chiusi: manca la Cassazione, ma dovrebbe essere solo un controllo di legittimità, ovvio. La sensazione, soprattutto a margine della spaventosa pressione mediatica che sta riguardando il caso Cucchi, è che questo Paese ancora una volta stia tentando di sfuggire a un caposaldo dello stato di diritto: cioè che la verità e la verità giudiziaria possono non coincidere.
Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza che ha mandato assolti i medici che dovevano curare Stefano Cucchi, ma conosciamo le carte del processo d’Appello perché sono identiche a quelle del primo grado: gli imputati, del resto, sono stati assolti sulla base degli stessi elementi in base ai quali dapprima erano stati condannati. Sicché, in primo luogo, ci sarebbe da chiedersi per quale ragione un giudice avrebbe dovuto forzare delle assoluzioni così impopolari, se non ne fosse stato convinto in punto di diritto. La risposta, a guardar le carte, rischia di essere molto impopolare e dolorosa: perché di prove a carico di singoli - nella sentenza di primo grado - purtroppo non se ne vedono.
Ma in questo Paese è ancora molto difficile distinguere tra ciò che sembra evidente e ciò che risulta provabile. Esiste la verità: ma non esiste necessariamente una conseguente verità giudiziaria che sia dimostrabile nel corso di un processo. 
La verità sostanziale del caso Cucchi la conosciamo tutti: c’è un colpevole che si chiama Stato, perché uno Stato che prende in consegna un cittadino e poi se lo ritrova morto per incuria, beh, è uno stato colpevole e da Terzo mondo. Colpevole, di conseguenza, è oggettivamente l’intera filiera che ha riguardato la vicenda di Stefano Cucchi: si parte dal carabiniere che nel verbale d’arresto non trascrive i dati di Cucchi ma, per sbaglio, trascrive quelli di un albanese senza fissa dimora, e impedisce così che il detenuto possa fruire degli arresti domiciliari; ci sono i carabinieri che secondo la perizia possono aver picchiato Stefano Cucchi nei sotterranei del tribunale, o che, sempre secondo le perizie, possono anche non averlo fatto, perché il ragazzo era già malmesso di suo ed era già stato più volte al pronto soccorso per via della vita che conduceva da spacciatore acclarato; c’è, poi, il giudice che in ogni caso non si accorse di nulla nonostante le ecchimosi e le tumefazioni che il ragazzo già presentava; c’è il medico di Regina Coeli secondo il quale il detenuto era improbabilmente «caduto dalle scale», come del resto gli aveva raccontato Stefano stesso; e c’è naturalmente tutto il personale medico che cedette con sciatteria alle riluttanze di Cucchi, il quale rifiutava le cure (faceva lo sciopero della fame e respingeva le flebo, anche se era ipoglicemico) talché i medici neppure si accorsero che quella specie di scheletro vivente, che all’arresto pesava 43 chili nonostante fosse alto 1 e 76, in punto di morte era ormai ridotto a 37 chili. Fanno parte della filiera anche i regolamenti stupidi e le burocrazie ottuse: quelle che hanno impedito all’avvocato della famiglia di arrivare per tempo - Cucchi ne ebbe uno d’ufficio - e quelle che impedirono alla famiglia di vedere Stefano sino al lunedì della sua morte.
Tutto questo, e altro, compone l’imperdonabile colpa di uno Stato che forse non ha ucciso Cucchi, ma l’ha accompagnato indifferente a morire. Cambia poco, per una famiglia e, nel nostro piccolo, per la nostra rabbia. Cambia poco anche se lo Stato ha già riconosciuto la sua colpa: la struttura ospedaliera che ha lasciato morire Stefano ha già risarcito la famiglia con un milione e 340mila euro, e altre cause probabilmente seguiranno. Giustamente. Ma la responsabilità penale è un’altra cosa. Quello che è mancato, nel processo, è un singolo atto compiuto o non compiuto che abbia verosimilmente causato la morte di Stefano Cucchi. Sono mancate le responsabilità personali che permettessero a un giudice di dire «tu sei un omicida» a una guardia, a un giudice, a un medico o a un infermiere: al di là di ogni ragionevole dubbio, come si dice. Ma la rabbia e il dolore, dei dubbi, non sanno che farsene.
4 nov 2014
fonte: http://ultimocamerlengo.blogspot.it/ 

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