Dal 2008 al terzo trimestre del 2014 (30 settembre), hanno chiuso in Italia ben 2.265.499 imprese. Le nuove
aperture, stando al numero d’imprese registrate negli Albi delle Camere
di Commercio, non sono riuscite a compensare il numero di cessazioni,
tantoché il trend risulta fortemente negativo dal 2011 a oggi. Il picco
d’imprese registrate s’è avuto nel 2006, negli anni immediatamente
precedenti alla crisi, con ben 6.125.514, numero mai
piú registrato negli anni successivi. Il colpo inferto dalla crisi
economica del 2008 portò il numero d’imprese a 6.085.105 nel 2009, quasi
ai livelli del 2005, quando si contavano 6.073.024 imprese. La lieve
ripresa degli anni 2010 e 2011, tuttavia, non è riuscita a compensare le
perdite, né a tamponare l’emorragia che sta(va) rapidamente indebolendo
il tessuto imprenditoriale italiano. Difatti, se nel 2011 si registrò
un incoraggiante 6.110.074, negli anni a seguire il numero è andato
sempre diminuendo, fino a raggiungere i 6.049.220 del terzo trimestre del 2014.
Il trend delle imprese registrate, comunque, appare molto piú disastroso se si considerano le sole imprese artigiane. Dal 2009 al settembre 2013, erano 567.349 le imprese artigiane chiuse, e il dato è solo peggiorato nel
medesimo trimestre dell’anno corrente. Se, infatti, il totale delle
imprese registrate può dare un’immagine quasi rassicurante (si veda il
grafico precedente), il totale delle imprese artigiane registrate ha un
netto inabissamento: dalle 1.496.645 imprese artigiane registrate negli
Albi delle Camere di Commercio nel 2008, s’è passati alle 1.413.197 del
terzo trimestre 2013. Una perdita considerevole per l’economia italiana
e soprattutto per moltissime realtà economiche locali.
Nel novembre 2013, una nota del Centro Studi CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato) stimava una perdita di ~200.000 posti di lavoro conseguente alla chiusura d’83.000 imprese
artigiane, «come se avessero chiuso insieme gli stabilimenti italiani
di FIAT, Ferrovie dello Stato ed ENI». Un dato interessante, che
potrebbe rispecchiare la fiducia degli artigiani, è rappresentato dal
numero d’iscrizioni e cessazioni. Dal 2008, infatti, il numero di
cessazioni delle imprese artigiane è abbastanza stabile, pur con le sue
oscillazioni; il numero d’iscrizioni, invece, è in forte calo, tanto da
passare dalle 125.484 del 2008 alle 100.317 del 2012. I
comparti dell’artigianato piú colpiti risultano essere la meccanica
(−5,2%), l’industria del legno e i mobili (−4,7% e −4%) e
l’abbigliamento (−2,4%).
Al di là dei numeri, va
fatta un’importante considerazione. Fino agli anni della crisi, le
politiche economiche nazionali e locali sono state orientate al
mantenimento in vita di migliaia d’imprese che, in condizioni di libero
mercato, sarebbero fallite. Incentivi e finanziamenti hanno fatto sí che
venisse a mancare un turnover, anche e soprattutto nelle imprese
artigiane. Il delicato equilibrio s’è rotto quando la pressione fiscale,
il calo della domanda e l’aumento dei prezzi hanno rivelato il punto
debole dell’artigianato italiano: l’assenza d’innovazione, causata
soprattutto da un mercato poco concorrenziale e da una concezione d’impresa che rigetta l’espansione e la crescita.
La crisi economica ha dunque agito da
normalizzatore. Ha messo le imprese e gl’imprenditori in una condizione
di mercato piú dura, molto diversa da quella che il paternalistico
governo centrale aveva mantenuto fino ad allora. Molte imprese non hanno
retto allo stress e sono fallite.
Il guaio è che sono fallite tutte insieme.
In condizioni di mercato meno drogate dal governo centrale, un turnover
spontaneo avrebbe fatto emergere imprese solide ma anche imprenditori
pronti a fallire e capaci di rinvestire altrimenti il capitale. Non è un
caso se tra i pochi settori in crescita si sono piazzati «noleggi,
viaggi e supporto alle imprese» (+20,4% dal 2009 al 2013) e «servizi
d’informatica e comunicazione» (+14,7% dal 2009 al 2013). Questi
settori, avendo dovuto sopravvivere in un mercato che va al di là dei
confini nazionali, hanno sviluppato una struttura piú concorrenziale,
piú votata all’innovazione e perfino propensa alla cessazione spontanea o
a fusioni/collaborazioni con altre realtà piú grandi.
L’emorragia italiana andrebbe dunque vista come una reazione del mercato ad
agenti che avrebbero dovuto sparire molti anni fa ma rimasti in vita a
causa dell’interventismo del governo centrale. Ciò non significa, sia
chiaro, che si debba ignorare che ogni cessazione d’impresa corrisponde
al fallimento di progetti di vita e, spesso, alla crisi economica
d’intere famiglie. Né andrebbe dimenticato — e lo ripeteremo sempre —
che l’Italia è il Paese con la maggiore pressione fiscale sulle imprese
d’Europa.
3 nov 2014
fonte: http://thefielder.net
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