Con la messa da parte dell’applicazione circa la legge antiterrorismo nei riguardi di
Latorre e
Girone,
la Suprema Corte di Nuova Delhi ha ritenuto necessario accogliere il
ricorso delle autorità italiane che doveva evitare che la
National Investigation Agency,
cioè a dire quel corpo di polizia che si occupa di contrastare il
terrorismo, dovesse continuare le indagini e formulare le accuse ai due
marò.
È d’uopo porre in chiaro se il nostro Paese abbia intenzione di
difendersi nel processo ovvero dal processo. A oggi, ha unicamente
contestato la giurisdizione dell’India all’interno del processo,
rendendosi presente con i due ragazzi pugliesi alle udienze, sostenendo
di sovente la questione delle Istanze giudiziarie internazionali, senza
ottenere alcun esito positivo.
Nello stato attuale, le autorità italiane stanno valutando di puntare sull’internaziona-lizzazione della controversia.
In primis,
il rifiuto di non essere presente ai dibattimenti della Corte Suprema
indiana o ad altra Istanza giudiziaria dell’India, perché ciò potrebbe
indicare non solo ostacolare che
Girone e
Latorre si
presentino in tribunale, ma pure ordinare che i due fucilieri della
marina militare italiana non si presentino più alle autorità di polizia
indiane per la consueta firma settimanale (come avevo già sottolineato
in un mio precedente articolo, su questo sito).
Tale punto potrebbe cagionare la revoca della libertà di
movimento di cui godono i due militari italiani e, pertanto, restare
chiusi all’interno dei locali della sede diplomatica italiana,
considerati sicuri, dato che le autorità indiane non possono invaderne,
come accadde nel 1979, quando un gruppo di studenti iraniani occupò
l’ambasciata e la sezione consolare statunitense nella città di Teheran.
Dubito fortemente che il governo di Nuova Delhi possa lasciare
andar via i due ragazzi pugliesi alla volta del nostro Paese, sino a
quando non venga a delinearsi tale questione, come spesso ha domandato
l’Italia. Nel caso in cui l’India rifiuti di processarli,
l’internazionalizzazione ha due vie come l’
arbitrato internazionale o il
negoziato
di carattere diplomatico, da seguire nell’ambito multilaterale. Sia
l’India, che l’Italia dovrebbe determinare a chi spetti la
giurisdizione, senza entrare nel merito della questione, con l’evitare
se i due marò siano in modo chiaro i responsabili dell’uccisione dei due
pescatori indiani che si trovavano a bordo della piccola imbarcazione.
L’arbitrato è quello stabilito dall’
Annesso VII alla
Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare, che potrebbe
essere posto in moto dalle autorità di Roma attraverso un ricorso
unilaterale. Contemporaneamente, l’Italia potrebbe presentare la domanda
al Tribunale internazionale del diritto del mare (con sede ad Amburgo)
una misura temporanea, volta al ritorno in patria dei due marò in attesa
della decisione finale. Si menzioni che l’arbitrato internazionale o
Tribunale arbitrale è composto da un collegio di 5 giudici, 2 dei quali
sono dei due Stati in causa, cui spetta la nomina, i 3, invece, di altri
Stati.
L’
Annesso VII dell’UNCLOS stabilisce un iter procedurale in caso d’
impasse,
ivi l’intervento del presidente del Tribunale del diritto del mare.
Dato che l’appello è escluso, i due Stati in controversia potrebbero in
modo preliminare inserirlo. La Corte permanente internazionale arbitrale
(la sua sede è all’Aja) potrebbe mettere a disposizioni le proprie
strutture.
Com’è ben noto, le argomentazioni dell’Italia pongono in
evidenza due linee: il fatto che l’incidente sia accaduto nelle acque
internazionali e l’immunità funzionale dei due fucilieri della Marina
Militare Italiana. La prima linea è molto fragile, perché si è alla
presenza di un concorso di giurisdizione, sebbene i due pescatori morti
avessero la cittadinanza indiana ed è speciosa l’argomentazione, secondo
cui la giurisdizione spetti unicamente al nostro Paese.
Le argomentazioni italiane fanno essenzialmente perno su due
punti: il fatto che la sparatoria sia avvenuta in alto mare e l’immunità
funzionale dei due marò. La prima argomentazione è debole. Esiste un
concorso di giurisdizione poiché le vittime sono di nazionalità indiana
ed è speciosa l’argomentazione secondo cui la giurisdizione spetta
esclusivamente all’Italia, come sarebbe avvenuto se si fosse trattato di
collisione o altro incidente della navigazione.
La seconda argomentazione si fonda sul fatto che i due fucilieri italiani, anche se erano a bordo su
Enrica Lexie,
nave commerciale battente bandiera italiana, hanno agito per una
funzione di carattere pubblico e la loro azione va imputata direttamente
allo Stato italiano che ne risponderà in base ai canoni della
responsabilità internazionale. Il solo problema è che si tratta di una
norma cogente o jus cogens, non scritta, e che la vicenda dell’immunità
funzionale è ancora sotto la lente della Commissione del diritto
internazionale dell’ONU.
L’altro problema dell’arbitrato concerne il tempo, dove sino a
oggi sono stati azionati iter procedurali arbitrali nell’ambito
dell’UNCLOS, tanto è vero che gli arbitrati conclusi hanno avuto la
durata di 3 anni; altri non sono ancora giunti alla loro conclusione,
come ad esempio quello tra l’India e il Bangladesh del 2009.
Un’altra strada diversa dall’arbitrato, pur rimanendo
nell’ambito della internazionalizzazione e respingendo il processo
indiano, è la negoziazione in un quadro multilaterale, facendo leva
sugli Stati alleati e presentando la disputa nei fori multilaterali, a
iniziare dall’ONU, sollecitando anche l’intervento del Segretario
Generale. Oltre ad aver perseguito varie vie per la soluzione, è d’uopo
abbandonare il processo indiano e una strategia di tipo
tecnico-giuridico possa rappresentare un vero sostegno a favore del
negoziato di genere politico e diplomatico. Ritengo, ad esempio, durante
la discussione che si svolge ogni anno all’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite sui lavori della Commissione del diritto internazionale,
che vada affrontata il problema sull’immunità funzionale di cui sono
investiti gli organi di uno Stato, impegnati in missioni che hanno come
fine la lotta alla pirateria.
L’idea che potrei suggerire alle nostre autorità è quella di
dare vita a un accordo o convenzione internazionale sulla disciplina del
personale militare che sale a bordo di navi commerciali/mercantili, in
cui andrebbero incluse norme ad hoc a favore di soggetti che indossano
una divisa e armati, in modo da rendere una volta per tutte il loro
status, in virtù del diritto internazionale contemporaneo e renderlo
rinvigorito e adattato.
Ritengo, infine, che la soluzione diplomatica e il
coinvolgimento della comunità internazionale sia la migliore soluzione
rispetto all’arbitrato internazionale, giacché i tempi lunghi
porterebbero a un risultato incognito. Si tenga presente che gli atti
pirateschi non sono stati del tutto debellati, ma sono in diminuzione
dal momento in cui è stata data la possibilità alle navi mercantili di
avere personale armato a bordo. L’Italia deve far valere dell’immenso
contributo che sta dando per contrastare il fenomeno della pirateria e
che la comunità internazionale deve attivarsi per porre termine a
quest’amara situazione che dura ormai da due anni.
- Giuseppe Paccione
- Esperto di Diritto Internazionale e dell’UE
- Diritto diplomatico e consolare
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- fonte: http://scenarieconomici.it
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