Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
Nel pasticciaccio brutto di New Delhi le schiarite preludono a
temporali, e la pioggia a catinelle si avvicenda al sole, proprio come
nell’indian summer. La mossa a sorpresa, qualche settimana fa, di
presentare una «petition» alla Corte Suprema contestando il
disconoscimento dell’ immunità funzionale, rifiutando la giurisdizione
indiana e l’uso della polizia antiterrorismo Nia dal momento che proprio
la stessa Corte aveva decretato come inapplicabile il Sua Act, ovvero
la legge antiterrorismo, è stato ammesso all’esame.
Ma la decisione ci sarà solo tra quattro settimane, in una trentesima udienza. Il governo italiano, che terrà nei prossimi giorni una riunione del «comitato marò» e ieri ha fatto rientrare a Roma un abbottonatissimo Staffan De Mistura, vorrebbe gioire ma non può: il ricorso non è stato ancora accolto, quelle argomentazioni sono al momento solo italiane.
E proprio il toglier di mezzo la Nia, come tra Palazzo Chigi, Farnesina e Difesa non si nascondono, potrebbe far ripartire le indagini da zero. Magari ce ne sarebbe bisogno, visto che l’inchiesta indiana fa acqua da tutte le parti, ma non allungando i tempi. Il cuore della vicenda poi è proprio la giurisdizione che l’allora governo Monti, ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, magari subì, ma di certo non poté che accettare de facto, ottenendo garanzie solo sulla condizioni materiali di vita dei due fucilieri in attesa di giudizio, ed evitando loro il carcere indiano. E premurandosi di stipulare con Delhi un trattato in base al quale gli italiani condannati in quel paese possono scontare se condannati la pena in patria.
La procedura di «internazionalizzazione» del caso, ovvero la sensibilizzazione delle strutture multilaterali intrapresa già dal governo Letta, ministro degli Esteri Emma Bonino, non ha dato sinora i risultati sperati. Il premier Renzi ne ha parlato anche nell’incontro con Barack Obama ma, se è scontato l’appoggio di un solido e influente alleato, non si può non ricordare che anche e perfino gli Stati Uniti d’America hanno i loro problemi con l’India, e non da poco, dopo aver espluso una diplomatica di Delhi che stava per essere condannata per vessazioni alla propria colf.
L’unica e ultima strada percorribile resta quella dell’arbitrato internazionale. Il ministro Mogherini vi ha fatto riferimento, con cautela, in una recente intervista televisiva. La cautela si spiega ancora una volta con l’argomento dei tempi. Intanto, la procedura deve essere accettata dalla controparte, ovverosia dall’India che pure potrebbe vedere una via d’uscita dal labirinto in cui si è cacciata. Ma soprattutto la procedura prevede che per risolvere una controversia internazionale - e questa vede contrapposti due Stati - siano le stesse controparti a dover stabilire procedure, svolgimento e tempi dell’arbitrato. Una partita complessissima, dunque, e che rischia di avere tempi più lunghi perfino di una corte di giustizia indiana. Per questo il governo italiano ripete come un mantra: Girone e Latorre anzitutto tornino in Italia.
Ma la decisione ci sarà solo tra quattro settimane, in una trentesima udienza. Il governo italiano, che terrà nei prossimi giorni una riunione del «comitato marò» e ieri ha fatto rientrare a Roma un abbottonatissimo Staffan De Mistura, vorrebbe gioire ma non può: il ricorso non è stato ancora accolto, quelle argomentazioni sono al momento solo italiane.
E proprio il toglier di mezzo la Nia, come tra Palazzo Chigi, Farnesina e Difesa non si nascondono, potrebbe far ripartire le indagini da zero. Magari ce ne sarebbe bisogno, visto che l’inchiesta indiana fa acqua da tutte le parti, ma non allungando i tempi. Il cuore della vicenda poi è proprio la giurisdizione che l’allora governo Monti, ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, magari subì, ma di certo non poté che accettare de facto, ottenendo garanzie solo sulla condizioni materiali di vita dei due fucilieri in attesa di giudizio, ed evitando loro il carcere indiano. E premurandosi di stipulare con Delhi un trattato in base al quale gli italiani condannati in quel paese possono scontare se condannati la pena in patria.
La procedura di «internazionalizzazione» del caso, ovvero la sensibilizzazione delle strutture multilaterali intrapresa già dal governo Letta, ministro degli Esteri Emma Bonino, non ha dato sinora i risultati sperati. Il premier Renzi ne ha parlato anche nell’incontro con Barack Obama ma, se è scontato l’appoggio di un solido e influente alleato, non si può non ricordare che anche e perfino gli Stati Uniti d’America hanno i loro problemi con l’India, e non da poco, dopo aver espluso una diplomatica di Delhi che stava per essere condannata per vessazioni alla propria colf.
L’unica e ultima strada percorribile resta quella dell’arbitrato internazionale. Il ministro Mogherini vi ha fatto riferimento, con cautela, in una recente intervista televisiva. La cautela si spiega ancora una volta con l’argomento dei tempi. Intanto, la procedura deve essere accettata dalla controparte, ovverosia dall’India che pure potrebbe vedere una via d’uscita dal labirinto in cui si è cacciata. Ma soprattutto la procedura prevede che per risolvere una controversia internazionale - e questa vede contrapposti due Stati - siano le stesse controparti a dover stabilire procedure, svolgimento e tempi dell’arbitrato. Una partita complessissima, dunque, e che rischia di avere tempi più lunghi perfino di una corte di giustizia indiana. Per questo il governo italiano ripete come un mantra: Girone e Latorre anzitutto tornino in Italia.
Antonella Rampino - 29/03/2014
fonte: http://www.lastampa.it
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