Roma, 27 dicembre 2014 - «L’Italia evita le vie maestre del diritto e sceglie invece i sentieri della giungla. Questa è la mia sintesi sulla questione dei marò». Giulio Terzi di Sant’Agata, già ambasciatore a Washington, ha lasciato la carica di ministro degli Esteri il 26 marzo dell’anno scorso quando si decise di rimandare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in India. L’ex titolare della Farnesina ripete ancora oggi che quella decisione fu presa sulla spinta di interessi economici. «Lo disse chiaramente il presidente del consiglio Mario Monti nel suo intervento del 27 marzo. Cambiammo una posizione enunciata a tutto il mondo con i comunicati dell’11 e del 18 marzo 2013. Furono infatti gli indiani a violare gli affidavit. La Corte Suprema di Nuova Delhi aveva detto che i due paesi dovevano avviare consultazioni sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto Marittimo, in sigla Unclos, articolo 100. Noi eravamo disponibili. L’India disse che non se ne discuteva neppure».
Invece?
«Il 21 marzo la posizione del governo italiano fu ribaltata nel giro di poche ore».
Come mai non sono state coinvolte le Nazioni Unite?
«Ho informato il segretario generale del Palazzo di Vetro Ban Ki moon a Londra a margine della conferenza sulla Somalia, 8 o 9 giorni dopo il sequestro dei nostri fucilieri. Fu una trappola nella quale caddero la squadra navale e il comando operativo interforze che autorizzarono la Lexie ad andare a Kochi. Fui informato dalla difesa solo 5 o 6 ore dopo».
Come mai?
«Non si è mai capito il motivo del ritardo».
In ogni caso quale fu la risposta di Ban Ki moon a Londra?
«Mi disse: la questione deve essere risolta secondo il diritto internazionale. Me lo ha ripetuto almeno venti volte».
Quindi l’arbitrato internazionale, che l’Italia invece ha lasciato cadere.
«Torniamo all’Unclos, prevede una procedura di 30 giorni per avere misure cautelari, ossia l’affidamento dei marò a un Paese terzo, fino alla decisione della corte di Amburgo sul merito, in due o tre mesi. Su questa base a metà marzo avevamo deciso di trattenere Latorre e Girone in Italia. Invece poi per un anno e mezzo non si è fatto nulla».
Perché?
«Per non smentire l’operato di Monti. La cosa si è trascinata fino al governo di Renzi. È un motivo politico. Il progetto di internazionalizzazione è finito. L’unica volta nella quale Renzi dice di aver parlato dei marò è stato al G 20 di Brisbane in un corridoio con Modi durante una pausa caffè, senza un incontro bilaterale. Avremmo una potenzialità enorme di risolvere il pasticcio».
Come?
«Sollevando la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La lotta alla pirateria è all’ordine del giorno almeno ogni due o tre mesi. In ogni caso l’Italia potrebbe chiedere una discussione dopo un’azione preparatoria con i paesi nostri amici, gli Usa per esempio. Come si fa la lotta alla pirateria senza l’immunità funzionale ai militari che vi partecipano?».
Altre vie?
«Mi risulta che durante il governo Letta sia stata sondata a Ginevra la ex alta Commissaria dell’Onu Navi Pillay. Mi consta che la porta fosse aperta, ma non è stato fatto nulla. Infine c’era un terza possibilità».
Quale?
«L’8 luglio scorso il presidente della Croce Rossa Internazionale Peter Maurer ha inviato una lettera alla presidenza del consiglio e ai ministeri interessati sul caso dei fucilieri di marina. Citava considerazioni umanitarie. Offriva i suoi buoni uffici. Non c’è stata nessuna risposta. Latorre è stato male, si sa di sofferenze psicologiche di Girone. Pensi con quale maggior peso sarebbe sollevata la questione».
Si torna agli interessi.
«Vorrei che qualcuno dichiarasse pubblicamente i motivi per i quali un anno e mezzo fa c’è stata quella decisione».
di LORENZO BIANCHI
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