Per evitare il fallimento dello Stato libico e
salvare gli affari delle imprese italiane il nostro governo deve
assumere un ruolo di primo piano nel Mediterraneo. L’intervista al
presidente della Camera di Commercio Italo-Libica Gianfranco Damiano
Un non-Stato senza un governo né un parlamento, con un
esercito lacerato al suo interno e intere città in mano ai gruppi
terroristici islamici. È questo il quadro della Libia delineato il 2
dicembre dall’inviato speciale Bernardino Leon in audizione alla
Commissione Esteri del Parlamento europeo. L’immagine che affiora dalle
sue parole è quella di una nazione sull’orlo del fallimento. E i recenti
fatti di Derna, dove la lotta intestina tra milizie jihadiste ha
portato al potere il locale Consiglio della Shura affiliato allo Stato
Islamico, lo dimostrano.
Di fronte a questa crisi, abbandonare la Libia a se stessa non può
essere una soluzione per l’Occidente, per la sicurezza dell’area del
Mediterraneo e, ovviamente, per l’Italia. “Non dimentichiamoci che
questo Paese non è lontano ma vicino 300 chilometri alle nostre coste”,
spiega Gianfranco Damiano (nella foto in basso), presidente della Camera di Commercio Italo-Libica, ente che da 16 anni fa da ponte tra la Libia e le imprese italiane.
Quali sono le perdite subite dai nostri imprenditori dall’inizio della guerra civile in Libia?
Dalla caduta di Gheddafi la situazione è andata peggiorando e da una
media di 200-250 aziende iscritte alla nostra Camera di commercio
quest’anno si è passati a solo un centinaio. Viviamo un forte disagio,
le interrelazioni governative sono limitate, mancano punti di
riferimento certi e da parte degli interlocutori libici non c’è la
possibilità di fissare una road map per far ripartire l’economia del
Paese. Questo stato di cose pesa sui grandi player come Eni, Iveco,
Fiati e Telecom, ma soprattutto su quelle piccole e medie imprese che in
Libia operano principalmente nei settori dell’energia,
dell’agroalimentare, della meccanica e della metalmeccanica, del
manifatturiero e dell’abbigliamento. Nonostante tutto qualcosa comunque
si sta muovendo.
La Libia può ancora contare sul suo petrolio?
La produzione libica sta calando seguendo il trend negativo del
mercato globale. I prezzi sono scesi fino a 70 dollari al barile dai 110
di pochi mesi fa. Occorre però fare chiarezza su questa questione. Se
molti pozzi petroliferi in Libia sono fermi non è solo per lo stallo
politico e per l’incapacità delle forze di sicurezza di difenderli. Ai
tempi di Gheddafi tutte le attività che ruotavano attorno ai giacimenti,
come per esempio le manutenzioni, venivano affidate automaticamente a
determinate ditte. Dopo la rivoluzione si sono iniziate a vedere le
prime gare per l’assegnazione degli appalti, e ciò inevitabilmente ha
lasciato scontento qualcuno. Il problema è che mentre in Occidente si
protesta civilmente, qui si passa direttamente ai kalashnikov.
In questo caos come riescono a muoversi le imprese italiane rimaste in Libia?
Rispetto al passato ovviamente i rischi sono aumentati. Molte aziende
hanno uffici nel deserto in prossimità dei pozzi petroliferi,in zona
militarmente protette. Altre invece sono concentrate a Tripoli e
Bengasi, segno che in Libia si può continuare a lavorare. Per gli
imprenditori l’importante è mantenere un low profile, dare
nell’occhio il meno possibile, cambiare albergo e abitudini. Ma
soprattutto è fondamentale mantenere buoni rapporti con i libici. Tra
noi e loro c’è stima reciproca, abbiamo un rapporto privilegiato ma non
lo stiamo sfruttando a dovere per farci valere sugli altri.
L’Italia come può riprendersi il ruolo che le spetta?
Alcuni mesi fa sul Sole 24 Ore il sottosegretario alla
presidenza del Consiglio dei Ministri (con delega ai servizi segreti,
ndr) Marco Minniti disse che avevamo sei mesi di tempo per rimettere
sulla strada corretta la Libia. I nostri servizi di intelligence
evidentemente hanno un quadro chiaro della situazione, come dimostra
anche la recente liberazione dei due ostaggi italiani (Marco Vallisa e
Gianluca Salviato, ndr). Il problema è che la politica non si muove di
conseguenza.
È realistico parlare dell’invio di truppe da parte dell’Italia?
Non possiamo parlare di invio di truppe perché non c’è interposizione
tra due eserciti, né confini precisi da proteggere. Questa crisi non si
può governare con le armi fornendo aiuti a una o all’altra fazione.
Siamo l’unico Paese dell’area UE a mantenere la nostra ambasciata aperta
e abbiamo sufficienti relazioni da una parte e dall’altra per arrivare a
una soluzione diplomatica. L’interesse comune per il Mediterraneo è che
la Libia non si spacchi, sia per una questione di sicurezza che per il
contenimento dei flussi migratori. E non lo vogliono gli stessi libici.
Vale anche per gli islamisti che sostengono il governo parallelo di Tripoli?
Anche in questo caso è bene fare chiarezza. Si pensa che gli
islamisti siano persone con cui non si può dialogare o fare affari. Non è
assolutamente vero, e ciò vale anche per i rappresentanti dell’ex
Congresso Generale Nazionale di Tripoli. Non pensiamo ai libici come a
gente che per mestiere fa il cameriere o il muratore. I libici sono
mediamente benestanti, ci sono molti imprenditori e commercianti,
persone che prima della rivoluzione viaggiavano all’estero molto più di
noi grazie ai proventi del petrolio e del gas che venivano distribuiti
sotto la dittatura. Poi la guerra ha cambiato tutto.
Fino a che punto può spingersi in Libia la deriva del terrorismo islamico?
Derna e tutta l’area nord-orientale della Libia è sempre stata al
centro delle tensioni islamiste. I libici però non hanno nessuna
intenzione di farsi trascinare in questa spirale. Queste bande stanno
riuscendo a guadagnare terreno e a fare razzie perché non ci sono né la
polizia né l’esercito. Chi può si difende, gli altri sono costretti a
sottostare. Ma il terrorismo non può attecchire in Libia perché non c’è
una base povera su cui fare leva. Non parliamo degli arabi o dei berberi
della regione del Fezzan, ma di gente che in media ha ricchezze e
proprietà da salvaguardare.
Questa deriva può essere respinta dall’ex generale Khalifa Haftar?
Haftar è tornato in Libia pensando di essere accolto in modo festoso.
I suoi rapporti con la CIA non lo hanno però avvantaggiato. In questi
mesi ha tentato di fare tutto da solo. Ma i libici credono che dietro di
lui ci siano gli americani e per questo non lo stanno sostenendo in
massa.
Come se ne esce allora?
Quello che manca per risolvere questa crisi è un soggetto terzo che
deve essere l’Italia. Spetta ai nostri politici capire che il tempo a
disposizione è sempre di meno e che questa questione non può più essere
retrocessa in secondo ordine.
di Rocco Bellantone - 4 dic 2014
fonte: http://www.lookoutnews.it
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