Invece di riferirsi solo ai
magistrati, il ministro della Giustizia Orlando dia un’occhiata ai dati
raccolti dai grandi giuristi Di Federico e Sapignoli
Impegnato com’è da mesi nella sua difficile riforma della giustizia,
il guardasigilli Andrea Orlando dovrebbe sforzarsi di trovare un’oretta
per leggere un saggio a dir poco illuminante. Il libro è uscito nel
2014, ma è stato trattato dai mass media con la stessa ipocrita pruderie
che avrebbero potuto riservare a un testo oscenamente pornografico:
nemmeno una riga, buio assoluto, quasi una censura.
Eppure è un testo interessante, chiaro nelle analisi e
controcorrente. In più, ha la concretezza e la velocità proprie del
mondo cui si rivolge, quello degli avvocati penalisti. Vero, il titolo
del saggio è un po’ aridino: I diritti della difesa nel processo penale e
la riforma della giustizia (Cedam, 224 pagine, 22 euro). Ma non bisogna
mai fermarsi alla facciata. I suoi curatori, del resto, sono una
garanzia: il grande giurista bolognese Giuseppe Di Federico e il suo
collega Michele Sapignoli che, sponsorizzati dall’Unione delle camere
penali, hanno raccolto attraverso questionari le opinioni di un campione
di 1.265 avvocati penalisti.
Dalle loro risposte emerge il plastico fallimento della giustizia
italiana, visto dalla parte opposta rispetto a quella cui si rivolge
Orlando. Nel 72,9 per cento dei casi gli avvocati sostengono che in
tribunale il giudice accoglie «sempre o quasi sempre» una richiesta
d’intercettazione avanzata dal pubblico ministero, e un altro 26 per
cento dice che questo accade «di frequente». Affermano che il giudice è
«più sensibile alle sollecitazioni del pm rispetto a quelle del
difensore» nel 58 per cento dei processi «ordinari» e la quota sale al
71 nei procedimenti «rilevanti», cioè quelli più importanti e più
seguiti da giornali e tv.
Farebbe
davvero bene a leggerlo, Orlando, il ministro che continua a ipotizzare
aumenti di pena e riforme di settore in prevalenza ispirate dalla lobby
dei magistrati sindacalizzati. Scoprirebbe una faccia della giustizia
che i giornali ignorano. Quale faccia? L’iscrizione ritardata nel
registro degli indagati è una pratica lamentata dal 65,9 per cento degli
avvocati. Molti penalisti denunciano di essere non soltanto
intercettati mentre parlano con i loro clienti (e questo accade «sempre»
o «di frequente» nel 28,9 per cento dei casi, e «a volte» nel 43,2 per
cento), ma che l’intercettazione, pur se totalmente illegale, viene
perfino trascritta e utilizzata negli atti. Scoprirebbe anche, Orlando,
che il 92,1 per cento degli intervistati sostiene che, nell’esame in
aula dei testimoni, il giudice pone «domande suggestive»: una pratica
vietata dal codice di procedura penale a tutela del diritto di difesa.
Quanto alla prescrizione, l’orrido spreco della giustizia italiana,
si scopre che nel 40 per cento dei casi (e i dati sono ministeriali!)
matura già durante le indagini preliminari. Quindi ha una sola e unica
causa: la lentezza dei pm che di quelle indagini sono i titolari.
Meglio, i proprietari assoluti. Questo dimostra un’altra grande,
disastrosa verità: un apparato giudiziario burocratico, senza alcun
controllo e senza alcun coinvolgimento democratico, gestisce in maniera
autoritaria i carichi giudiziari. Altro che obbligatorietà dell’azione
penale. Bubbole. Le procure scelgono cosa fare avanzare e cosa chiudere
nei cassetti. E frenano parecchio: perché sì, avete letto bene, quattro
procedimenti penali su dieci vanno in prescrizione al loro inizio, prima
che inizi l’udienza preliminare.
Soluzioni? Il ministro e la magistratura sindacalizzata non vogliono
sentirne parlare. Ma la vera, grande riforma sarebbe quella che viene
inutilmente proposta da tanti anni: separare le carriere tra pm e
giudici. E separare anche il Consiglio superiore della magistratura: due
consigli che decidono sulle carriere in modo separato per giudici e
magistrati inquirenti. Altro che quella buffonata della “nuova”
responsabilità civile dei magistrati ...
Maurizio Tortorella - 29 marzo 2015
fonte: http://www.tempi.it
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