Questa intervista è uscita su “La Repubblica” e farà parte
della puntata di Fischia il Vento in onda stasera alle 21,30 su Laeffe e
su repubblica.it
L’Italia sta attrezzandosi per fronteggiare la guerra che le si presenta alle porte? Vado alla Farnesina per chiederlo al nuovo ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, formatosi nella cultura del pacifismo e del disarmo, oggi rimessa drammaticamente in discussione dall’incendio che divampa lungo tutta la sponda sud del nostro mare. A cominciare dalla vicinissima Libia.
Ministro Gentiloni, prima o poi diventerà inevitabile un intervento in Libia per impedire che il terrorismo e la pirateria se ne impadroniscano definitivamente?
“Non dobbiamo ripetere l’errore di mettere gli stivali sul terreno prima di avere una soluzione politica da sostenere. Ma certo un intervento di peacekeeping, rigorosamente sotto l’egida delle Nazioni Unite, vedrebbe l’Italia impegnata in prima fila. Purché preceduto dall’avvio di un processo politico, un percorso negoziale verso nuove elezioni garantito da un governo di saggi. In assenza del quale, mostrare le divise rischia solo di peggiorare la situazione. Ci stiamo lavorando, con i paesi dell’area e con le Nazioni Unite”.
Bisogna rivedere la strategia del disimpegno occidentale nella lotta contro l’Isis? Per questo Obama ha rimosso il capo del Pentagono?
“Non conosciamo i motivi dell’avvicendamento di Hagel. In Iraq, gli Stati Uniti e la coalizione di cui facciamo parte stanno intervenendo per bloccare l’avanzata del Daesh. Evitiamo di chiamarlo Isis, Stato islamico, perché a fronteggiarsi sono anche due visioni dell’Islam e noi dobbiamo evitare di mettere tutti nello stesso sacco. E’ un impegno che ricade naturalmente anche sull’Italia, con i suoi ottomila chilometri di coste, ma tutta l’Europa è chiamata a farsi carico di affrontare questa minaccia. Non potremo più delegare gli americani, peraltro strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente”.
Dall’Iraq alla Siria, fino al Sinai e alla Libia, è uno scontro che ci vede in prima linea. Va preso alla lettera il fotomontaggio della bandiera nera del Daesh sulla cupola di San Pietro?
“Credo piuttosto che faccia parte di un’auto-rappresentazione finalizzata all’egemonia sull’Islam, un tentativo che dobbiamo contribuire a scongiurare. Ne fa parte il pericoloso fenomeno dei foreign-fighters, i miliziani europei che possono trasformarsi in una minaccia seria anche in casa nostra. Si tratta di unire le forze, come sta avvenendo a Kobane, dove la resistenza dei curdi non sarebbe possibile senza gli strikes aerei occidentali”.
Di questa grande alleanza può far parte anche l’Iran? L’Italia vede con favore il proseguimento dei negoziati con Teheran sul nucleare?
“E’ impensabile un assetto equilibrato della regione senza coinvolgere l’Iran, non solo per il comune interesse contro il Daesh ma anche per l’influenza che Teheran esercita sulle comunità sciite. Non è facile, come dimostra il negoziato sul nucleare. Ma la porta è rimasta aperta”.
E Israele, con la nuova legge sulla natura ebraica dello Stato proposta dal governo Netanyahu, sta aggravando la tensione?
“Non tocca a me giudicare ipotesi legislative che riguarderanno –vedremo con quale testo- la Knesset. Ma una cosa è certa: un quinto della popolazione israeliana è costituito da un’attiva comunità di cittadini di origine araba e questi devono godere di una incontrovertibile parità di diritti”.
L’Italia vende armi e sollecita investimenti finanziari dai paesi del Golfo, ricchissimi ma ambigui nella loro visione di un Islam totalitario…
“Per risponderle guarderei piuttosto all’Egitto, un grande paese certamente contraddittorio al proprio interno sul tema dei diritti umani. Eppure in questi mesi ha svolto una funzione di stabilizzazione e perfino di pacificazione”.
Quindi il contenimento della minaccia jihadista implica di nuovo l’appoggio occidentale ai dittatori, come avveniva prima delle rivolte del 2011?
“Assolutamente no, noi non dimentichiamo i diritti umani, e il laboratorio tunisino dimostra che un’alternativa è possibile. Tornando al pericolo che ci riguarda più da vicino, la crisi libica, certo non rimpiangiamo la caduta di Gheddafi. Abbatterlo era una causa sacrosanta. Ma poi?”.
Poi c’è il dilemma esistenziale della guerra alle porte. Il presidente Napolitano critica le “visioni ingenue”di rinuncia e di tagli allo “strumento militare”.
“E’ vero che abbiamo coltivato l’illusione di un mondo futuro tranquillo e pacificato. Ora sappiamo di non poter più delegare agli americani le nostre responsabilità. La Libia rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico… Non a caso manteniamo aperta a Tripoli la nostra ambasciata che fornisce un supporto logistico insostituibile al tentativo di mediazione delle Nazioni Unite”.
Ma esiste ancora la Libia o la dissoluzione dello Stato l’ha trasformata in un territorio assoggettato ai signori della guerra e alla pirateria?
“Se anche, semplificando, descrivessimo una Libia spaccata in due fra Cirenaica e Tripolitania, bisogna sapere che nessuna delle due parti è in grado di prevalere militarmente sull’altra. La Banca centrale libica continua a funzionare, paga gli stipendi ai dipendenti pubblici sull’intero territorio dello Stato, utilizzando i proventi del gas e del petrolio che anche la nostra Eni continua a versarle. Non ci rassegniamo alla dissoluzione della Libia. Saremo parte attiva nell’individuare una transizione politica unitaria cui subordiniamo, come le ho detto, l’eventualità allo studio di una presenza militare di peacekeeping”.
Come ai tempi della guerra di Spagna ci sono due opposte visioni del mondo che si fronteggiano?
“Preferirei dire che a fronteggiarsi sono due opposte visioni dell’Islam. Noi non possiamo rimanere neutrali di fronte a questo dramma, né tanto meno aggravarlo confondendo il Daesh con la Fratellanza musulmana, le moschee con l’Autorità nazionale palestinese, cioè facendo finta che sia tutto la stessa cosa”.
di Gad Bio - 26 nov 2014
fonte: http://www.gadlerner.it
L’Italia sta attrezzandosi per fronteggiare la guerra che le si presenta alle porte? Vado alla Farnesina per chiederlo al nuovo ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, formatosi nella cultura del pacifismo e del disarmo, oggi rimessa drammaticamente in discussione dall’incendio che divampa lungo tutta la sponda sud del nostro mare. A cominciare dalla vicinissima Libia.
Ministro Gentiloni, prima o poi diventerà inevitabile un intervento in Libia per impedire che il terrorismo e la pirateria se ne impadroniscano definitivamente?
“Non dobbiamo ripetere l’errore di mettere gli stivali sul terreno prima di avere una soluzione politica da sostenere. Ma certo un intervento di peacekeeping, rigorosamente sotto l’egida delle Nazioni Unite, vedrebbe l’Italia impegnata in prima fila. Purché preceduto dall’avvio di un processo politico, un percorso negoziale verso nuove elezioni garantito da un governo di saggi. In assenza del quale, mostrare le divise rischia solo di peggiorare la situazione. Ci stiamo lavorando, con i paesi dell’area e con le Nazioni Unite”.
Bisogna rivedere la strategia del disimpegno occidentale nella lotta contro l’Isis? Per questo Obama ha rimosso il capo del Pentagono?
“Non conosciamo i motivi dell’avvicendamento di Hagel. In Iraq, gli Stati Uniti e la coalizione di cui facciamo parte stanno intervenendo per bloccare l’avanzata del Daesh. Evitiamo di chiamarlo Isis, Stato islamico, perché a fronteggiarsi sono anche due visioni dell’Islam e noi dobbiamo evitare di mettere tutti nello stesso sacco. E’ un impegno che ricade naturalmente anche sull’Italia, con i suoi ottomila chilometri di coste, ma tutta l’Europa è chiamata a farsi carico di affrontare questa minaccia. Non potremo più delegare gli americani, peraltro strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente”.
Dall’Iraq alla Siria, fino al Sinai e alla Libia, è uno scontro che ci vede in prima linea. Va preso alla lettera il fotomontaggio della bandiera nera del Daesh sulla cupola di San Pietro?
“Credo piuttosto che faccia parte di un’auto-rappresentazione finalizzata all’egemonia sull’Islam, un tentativo che dobbiamo contribuire a scongiurare. Ne fa parte il pericoloso fenomeno dei foreign-fighters, i miliziani europei che possono trasformarsi in una minaccia seria anche in casa nostra. Si tratta di unire le forze, come sta avvenendo a Kobane, dove la resistenza dei curdi non sarebbe possibile senza gli strikes aerei occidentali”.
Di questa grande alleanza può far parte anche l’Iran? L’Italia vede con favore il proseguimento dei negoziati con Teheran sul nucleare?
“E’ impensabile un assetto equilibrato della regione senza coinvolgere l’Iran, non solo per il comune interesse contro il Daesh ma anche per l’influenza che Teheran esercita sulle comunità sciite. Non è facile, come dimostra il negoziato sul nucleare. Ma la porta è rimasta aperta”.
E Israele, con la nuova legge sulla natura ebraica dello Stato proposta dal governo Netanyahu, sta aggravando la tensione?
“Non tocca a me giudicare ipotesi legislative che riguarderanno –vedremo con quale testo- la Knesset. Ma una cosa è certa: un quinto della popolazione israeliana è costituito da un’attiva comunità di cittadini di origine araba e questi devono godere di una incontrovertibile parità di diritti”.
L’Italia vende armi e sollecita investimenti finanziari dai paesi del Golfo, ricchissimi ma ambigui nella loro visione di un Islam totalitario…
“Per risponderle guarderei piuttosto all’Egitto, un grande paese certamente contraddittorio al proprio interno sul tema dei diritti umani. Eppure in questi mesi ha svolto una funzione di stabilizzazione e perfino di pacificazione”.
Quindi il contenimento della minaccia jihadista implica di nuovo l’appoggio occidentale ai dittatori, come avveniva prima delle rivolte del 2011?
“Assolutamente no, noi non dimentichiamo i diritti umani, e il laboratorio tunisino dimostra che un’alternativa è possibile. Tornando al pericolo che ci riguarda più da vicino, la crisi libica, certo non rimpiangiamo la caduta di Gheddafi. Abbatterlo era una causa sacrosanta. Ma poi?”.
Poi c’è il dilemma esistenziale della guerra alle porte. Il presidente Napolitano critica le “visioni ingenue”di rinuncia e di tagli allo “strumento militare”.
“E’ vero che abbiamo coltivato l’illusione di un mondo futuro tranquillo e pacificato. Ora sappiamo di non poter più delegare agli americani le nostre responsabilità. La Libia rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico… Non a caso manteniamo aperta a Tripoli la nostra ambasciata che fornisce un supporto logistico insostituibile al tentativo di mediazione delle Nazioni Unite”.
Ma esiste ancora la Libia o la dissoluzione dello Stato l’ha trasformata in un territorio assoggettato ai signori della guerra e alla pirateria?
“Se anche, semplificando, descrivessimo una Libia spaccata in due fra Cirenaica e Tripolitania, bisogna sapere che nessuna delle due parti è in grado di prevalere militarmente sull’altra. La Banca centrale libica continua a funzionare, paga gli stipendi ai dipendenti pubblici sull’intero territorio dello Stato, utilizzando i proventi del gas e del petrolio che anche la nostra Eni continua a versarle. Non ci rassegniamo alla dissoluzione della Libia. Saremo parte attiva nell’individuare una transizione politica unitaria cui subordiniamo, come le ho detto, l’eventualità allo studio di una presenza militare di peacekeeping”.
Come ai tempi della guerra di Spagna ci sono due opposte visioni del mondo che si fronteggiano?
“Preferirei dire che a fronteggiarsi sono due opposte visioni dell’Islam. Noi non possiamo rimanere neutrali di fronte a questo dramma, né tanto meno aggravarlo confondendo il Daesh con la Fratellanza musulmana, le moschee con l’Autorità nazionale palestinese, cioè facendo finta che sia tutto la stessa cosa”.
di Gad Bio - 26 nov 2014
fonte: http://www.gadlerner.it
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