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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

26/11/14

Come si finanzia lo Stato Islamico

Estorsioni, contrabbando, riscatti di ostaggi, ma soprattutto vendita del petrolio al mercato nero, finanziamenti esteri e razzie nelle banche. Quanto pesano queste voci nel bilancio dei jihadisti sunniti?

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Quando a giugno le armate di Abu Bakr Al Baghdadi conquistano Mosul, nella Iraq’s United Bank for Investment trovano un tesoro di 500 miliardi di dinari – oltre 450 milioni di dollari, un quarto del patrimonio totale – che permette loro di fare il salto di qualità. Ma, in parte, questa notizia è propaganda.
Athil al-Nujaifi, governatore della provincia di Ninive (dove si trova Mosul), ha confermato come i jihadisti sunniti abbiano razziato numerosi milioni da questa e da altre banche nell’area. Ma la grande banca finanziaria irachena fino a poche settimane fa sosteneva che quel mezzo miliardo di dollari ghermito dai miliziani dalla filiale di Mosul “non è mai stato rubato” e che la banca continua a operare normalmente.

Eppure, è un fatto che Mosul sia stata ampiamente saccheggiata di soldi, armi e mezzi prima di divenire la capitale irachena del Califfato, controllata direttamente dalle milizie del Califfo, che ha scelto proprio questa città per fare la sua prima e unica apparizione in pubblico.

Il caso della banca di Mosul

I soldi spariti dalle casse della United Bank facevano parte delle riserve liquide e auree dell’istituto di credito. Vanno esclusi invece i titoli quotati in borsa, i quali sono facili da controllare e da bloccare. Il bilancio dell’istituto bancario iracheno al 31 marzo di quest’anno mostrava che la banca centrale (di cui Mosul è solo una delle 21 filiali) aveva in pancia 227 miliardi di dinari investiti, 371 mld di depositi, 61,5 mld di provvigioni e solo 38 mld di riserve. Se i dati della United Bank sono corretti, la cifra reale di cui i miliziani hanno potuto usufruire realmente si aggira allora intorno ai 120 miliardi di dinari, pari a circa 85 milioni di dollari. Forse ancor meno. Sempre che le riserve si trovassero tutte a Mosul. In ogni caso, si tratta di una cifra ben lontana dai 450 milioni di dollari denunciati.

Prima della caduta di Mosul, sappiamo per certo che la reale disponibilità economica del Califfato era pari a 875 milioni di dollari. La notizia è giunta a noi attraverso i dati contabili scoperti nella pen-drive di un corriere dello Stato Islamico, intercettato dai servizi segreti iracheni. Dunque, mancherebbe all’appello un altro miliardo di dollari. Se ne deduce che il grosso dei finanziamenti allo Stato Islamico giunga da altre fonti. Quali?

Il finanziamento internazionale

Come noto, uno dei cinque pilastri dell’Islam su cui si basa la professione di fede di ogni buon musulmano, è la Zakat, traducibile come “elemosina” nel suo senso più nobile: è fatto obbligo per ogni musulmano dimostrare la propria benevolenza e misericordia verso i propri fratelli attraverso la donazione spontanea di una parte delle proprie ricchezze.

Un sistema che può travalicare la fede e può servire da finanziamento occulto per attività niente affatto connesse con le pratiche religiose o sociali, come ad esempio la jihad. Arabia Saudita e Qatar sono direttamente coinvolte in questo senso. Non si tratta solo di accuse, ma di considerazioni che provengono da numerose istituzioni, a cominciare dalla Casa Bianca.

Già nel 2001 gli Stati Uniti avevano creato unità specializzate nello screening dei flussi finanziari esteri, concentrando le indagini proprio sulla Penisola Araba, e facendo conseguentemente pressione sui governi di Arabia Saudita, Kuwait e Qatar per reprimere il finanziamento di gruppi estremisti. Che tuttavia non si è mai interrotto.
Questi tre governi hanno anzi affermato che parte delle donazioni, emerse come chiara fonte di finanziamento diretta ai combattenti in Siria dal 2011 in poi, sono giustificate dalla necessità di sostenere le forze ribelli in Siria contro il regime di Bashar Al Assad.
Enti di beneficenza e singoli uomini facoltosi del Golfo hanno dunque effettivamente donato, sia pur indirettamente, cifre enormi a enti o soggetti collegati tanto all’esercito Siriano Libero quanto a Jabhat al-Nusra, sia attraverso bonifici sia per tramite di emissari con valigette piene di contanti.

Secondo una nota informativa del Brookings Doha Center (ente di ricerca politico-economico del Qatar, con sede anche a Washington), a maggio scorso la gran parte della raccolta fondi privati e di beneficenza per l’insurrezione in Siria era concentra nelle sole aree dove operano i jihadisti.
Fino alla fine dello scorso anno, dicono fonti inglesi ben informate, è stato possibile rintracciare i dettagli dei depositi bancari internazionali per le donazioni. Oggi questo metodo è stato sostituito da comunicazioni cellulari, contatti telefonici e account WhatsApp utilizzati per coordinare le donazioni e trasmettere indirizzi stradali dove raccogliere fisicamente il denaro.

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Petrolio e archeologia

Per capire come funziona l’economia dello Stato Islamico, non vanno dimenticati i profitti dei giacimenti petroliferi che ancora controllano in Siria orientale e nel Nord dell’Iraq. IS esporta circa 9mila barili di petrolio al giorno a prezzi che vanno dai 25 ai 45 dollari al barile. Il che porta nelle casse del Califfato quotidianamente una cifra compresa tra i 200 e i 400 mila dollari, attraverso la vendita del greggio al mercato nero, al governo turco e allo stesso regime siriano. Controllare le strade da Jarabulus a Kobane in Siria e l’autostrada che corre lungo la provincia di Anbar in Iraq, consentirà a IS di incrementare tali commerci, che avvengono per lo più su gomma, attraverso autocisterne.

Anche le razzie perpetrate a danno delle aree archeologiche garantiscono una straordinaria fonte di finanziamento (la Siria, afferma l’UNESCO, possiede oltre 10mila siti greci, romani, ottomani e di altre civiltà). Secondo l’intelligence britannica, solo i saccheggi presso il sito archeologico intorno ad Al Nabuk, tra le montagne Qalamoun a ovest di Damasco, hanno portato allo Stato Islamico guadagni per 36 milioni di dollari.

Inoltre, le immagini satellitari della città greco-romana di Apamea mostrano distintamente scavi e dissotterramenti incontrollati con i bulldozer, a riprova di quanto spaventoso sia il livello di razzie raggiunto da parte dei predoni che operano per conto dei jihadisti sunniti, e di quanto remunerativo sia questo business.

Le tasse

Infine, lo Stato Islamico ha creato anche un vero e proprio sistema di tassazione, tanto in Siria quanto in Iraq, che colpisce sia le piccole e medie imprese sia i cittadini musulmani e non, con relativi distinguo. Nella loro capitale irachena Mosul, ad esempio, oltre agli esercizi commerciali, le tasse vengono imposte anche alle compagnie telefoniche che dispongono di ripetitori nelle zone controllate da IS.

Nella capitale siriana Raqqa, invece, agli imprenditori si richiedono 20 dollari ogni due mesi in cambio di energia elettrica, acqua e sicurezza per la propria azienda. Un tributo che, in maniera lungimirante, è inferiore alle tasse (e alle tangenti) che prima erano dovute al governo di Assad. Ai cristiani, inoltre, è stata imposta la Jizya, la stessa tassa che il profeta Maometto richiedeva alle comunità non musulmane in cambio di protezione. Tutti i tributi vengono riscossi attraverso rappresentanti politici locali e gestiti dalla Banca di Credito di Raqqa, che oggi funziona come autorità fiscale almeno per la Siria e le cui ricevute portano il timbro con il logo dello Stato Islamico.

Discorso simile vale per gli stipendi ai funzionari pubblici e ai soldati, che si aggirano intorno ai 500 dollari al mese, per un totale di circa 60mila uomini. Fa 360 milioni l’anno che possono uscire dalle casse dello Stato Islamico, meno di un quarto delle ricchezze totali, il cui resto può dunque essere investito ancora a lungo nella loro “Guerra Santa”. Il Califfato, dunque, si sta comportando esattamente come uno Stato sovrano e ha dato vita a un sistema tradizionale di economia di guerra che, ahimè, funziona fin troppo bene. Se non si capisce questo, non si comprende appieno la sua forza e la sua pericolosità.

Luciano Tirinnanzi -

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