Gli sforzi diplomatici dell’occidente sinora non
sono serviti a frenare l’avanzata delle milizie islamiste a Tripoli e
Bengasi. Per l’Italia potrebbe essere l’ultima occasione per marcare la
propria presenza nell’area del Mediterraneo
Prima la conferenza internazionale di Madrid tra i rappresentanti dei Paesi del Mediterraneo e del Nord Africa del 17 settembre. Poi, tra il 29 settembre e l’11 ottobre, i negoziati separati tra i rappresentanti dei due parlamenti di Tobruk e Tripoli, organizzati a Ghadames e Tripoli con la supervisione della missione UNSMIL (United Nations Support Mission in Libya). Infine, la dichiarazione congiunta attraverso cui il 18 ottobre Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti hanno chiesto la cessazione delle ostilità, minacciando di applicare sanzioni individuali contro chiunque “tenti di sabotare il processo di riconciliazione nazionale”.
Riavvolto il nastro delle trattative e dei proclami, non è rimasto granché degli sforzi dell’Occidente se non la consapevolezza che per evitare il fallimento dello Stato libico serviranno operazioni militari più incisive. Altro che diplomazia. Settimane fa, prima che la Corte Suprema libica invalidasse le elezioni legislative del 25 giugno sciogliendo il parlamento e il governo laico scelto dal popolo, se ne era reso conto anche l’ex premier Abdullah Al Thinni, il quale dopo le titubanze degli ultimi mesi, per fermare l’avanzata delle milizie islamiste a Bengasi e Tripoli si era visto costretto a metà ottobre a concedere carta bianca a un alleato scomodo come il generale Khalifa Haftar, pur dubitando della sua lealtà.
A parlare in Libia è dunque ancora il linguaggio delle armi, mai realmente deposte dalla guerra civile che nel 2011 ha portato all’uccisione del Colonnello Gheddafi. L’immagine della Libia odierna mostra che i tempi per la democrazia non sono affatto maturi, e forse non lo saranno ancora per molto. Lo dicono le profonde spaccature politiche e l’instabilità istituzionale, con doppi parlamenti e doppi governi a contendersi il potere per mesi: uno legittimamente eletto alle elezioni del 25 giugno scorso, a maggioranza laica e guidato da Al Thinni, confinato a Tobruk, vicino al confine egiziano, prima di essere esautorato; l’altro nella capitale Tripoli, espressione delle fazioni islamiste e il cui premier è Omar al-Hassi.
A questa frammentazione politica corrisponde una fragilità militare manifesta, per rimediare alla quale sinora non sono bastati né la campagna antiterrorismo “Operazione Dignità” lanciata a maggio da Haftar, né i raid aerei condotti dai caccia delle aviazioni di Egitto ed Emirati Arabi Uniti sulle postazioni degli islamisti.
Mentre i morti aumentano e i focolai di tensione si estendono dalla Cirenaica alla Tripolitania con la complicità ormai certa di governi e finanziatori esteri (leggi Sudan e Qatar), la missione volta a sradicare dalla Libia il terrorismo di matrice islamista diventa sempre più proibitiva. Ansar Al Sharia a Bengasi e la coalizione Alba Libica a Tripoli hanno ormai stretto in una morsa il governo, forti del patto di alleanza con lo Stato Islamico annunciato a inizio ottobre a Derna. Lo stesso Califfo siro-iracheno Al Baghdadi ha fatto sentire la sua vicinanza agli jihadisti, invitando centinaia di miliziani da Tunisia e Algeria a raggiungere il Paese e ottenendo l’appoggio di un numero consistente di uomini delle tribù berbere che controllano la regione meridionale del Fezzan.
Perché l’Italia deve intervenire in Libia
Sono almeno due i motivi che dovrebbero spingere le potenze euro-atlantiche a non abbandonare questa causa. Il primo rimanda agli interessi energetici e al controllo di larga parte dei giacimenti e dei terminal degli idrocarburi presenti in territorio libico. Il secondo – che riguarda principalmente l’Unione Europea – riconduce all’annoso problema dei migranti che dall’Africa subsahariana risalgono fino alle coste libiche per poi affrontare la traversata del Mediterraneo.
Stati Uniti, Francia e Regno Unito, registi della caduta del Colonnello, hanno deciso di voltare le spalle a Tripoli e dirottare i loro interessi strategici nella grande guerra contro lo Stato Islamico. L’Italia si è accodata, ma è ancora in tempo per colmare questo vuoto.
Lo ha detto chiaramente il premier Matteo Renzi, lo ha sottolineato l’Alto rappresentante UE Federica Mogherini e, il primo novembre, lo ha annunciato anche il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, durante una visita al Cairo, dove ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi e il ministro della Difesa, Sedki Sobhi. Al momento, la missione militare italiana in Libia – rimodulata nell’ottobre del 2013 – prevede il monitoraggio e l’organizzazione delle attività addestrative delle forze armate libiche. In totale, sono stati formati 1.345 militare ed è stata supportata la fase di screening del primo contingente libico (254 militari) arrivato in Italia nel gennaio del 2014. Nell’immediato futuro, l’impegno del nostro Paese potrebbe però aumentare in maniera sensibile. “Siamo disponibili a dare una mano a costituire delle forze armate in grado di tenere in sicurezza la Libia – ha affermato dal Cairo il ministro Pinotti – a condizione di avere un interlocutore credibile. Certamente, ci sarà bisogno di fornire anche delle armi”.
Oggi invece è stata la volta del nuovo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. “Non dobbiamo ripetere l’errore di mettere gli stivali sul terreno prima di avere una soluzione politica da sostenere – ha affermato a Repubblica -. Ma certo un intervento di peacekeeping, rigorosamente sotto l’egida ONU, vedrebbe l’Italia impegnata in prima fila. Purché preceduto dall’avvio di un percorso negoziale verso nuove elezioni garantito da un governo di saggi. In assenza del quale mostrare le divise rischia solo di peggiorare la situazione. Ci stiamo lavorando, con i Paesi dell’area e con le Nazioni Unite. Di certo non ci rassegniamo alla dissoluzione della Libia”.
Il momento dell’Italia potrebbe dunque arrivare a breve. La Libia, in ogni caso, non può aspettare ancora a lungo.
di Rocco Bellanton - 26 nov 2014
http://www.lookoutnews.it
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