Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono tornate in Italia nella notte, libere e vive. Le loro famiglie scoppiano di gioia. Le informazioni dal momento del loro rapimento ad Abizmu, in Siria, il 31 luglio 2014, erano state date col contagocce e da fonti non sempre attendibili. La Farnesina stessa ha imposto alla stampa il più rigoroso silenzio per non compromettere la situazione. Di fatto, il periodo che va dal 31 luglio scorso fino alla giornata di ieri, 15 gennaio 2015, dal rapimento alla liberazione, è stata una lunga e silenziosa parentesi, interrotta solo dal videomessaggio del 31 dicembre, in cui le due ragazze, velate e irriconoscibili, imploravano di essere salvate.
Oltre al sollievo per la notizia, per aver appreso
che due giovani italiane sono vive e non sono più nelle mani dei
sequestratori, sono ancora molte le domande che restano senza risposta.
Perché Greta e Vanessa sono finite nelle mani dei rapitori?
Su questo punto si sono sviluppate tante teorie molto fantasiose e
alcuni dati su cui sorgono meno dubbi. Le due cooperanti erano fra le
fondatrici dell’associazione di volontariato Horryaty, nata all’inizio
del 2014 per portare aiuti medici alla popolazione siriana. Lungi
dall’essere un’associazione apolitica o imparziale, Horryaty era
dichiaratamente vicina alla causa del Consiglio Nazionale Siriano, la
resistenza a Bashar al Assad, la cui bandiera era esposta sia nelle
manifestazioni dal vivo che sui siti Internet dell’organizzazione. Come
tutte le organizzazioni vicine agli oppositori di Assad, sono entrate in
Siria da Nord, dal confine della Turchia. Greta e Vanessa non sono
andate in Siria alla cieca, ma hanno condotto un primo sopralluogo in
marzo. Nella loro spedizione di luglio sono state accompagnate da
Daniele Raineri, giornalista de Il Foglio veterano della guerra siriana, su cui ha realizzato numerosi reportage, anche per la Tv La7.
Considerando queste premesse, è molto più ardua l’ipotesi di un
rapimento per ingenuità, molto più probabile quella del rapimento
deliberato: una banda di sequestratori avrebbe dunque puntato
direttamente a loro (o a Raineri, o a entrambi i bersagli), conoscendo
in anticipo il loro arrivo.
Nel silenzio dei canali informativi ufficiali, i
media alternativi, su Internet, si sono sfogati formulando una serie di
congetture. In particolar modo è finito sotto la lente di ingrandimento
un cartello, scritto in arabo, che Greta e Vanessa esibivano in una
delle loro manifestazioni, in cui ringraziano il gruppo di resistenza
siriana Liwa Shuhada. Questo gruppo armato, stando alle fonti pubbliche
di analisti, opera nella provincia di Idlib, dove le due italiane sono
state rapite, ed è parte del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), la parte
dei ribelli siriani dichiaratamente estranea alla jihad internazionale
(non l’Isis, né Al Qaeda, dunque). Alcune fonti su Internet, comunque,
hanno descritto Liwa Shuhada come una formazione armata affiliata ad Al
Nusrah, la costola siriana di Al Qaeda, responsabile del rapimento.
Queste informazioni, tuttavia, sono da prendere con le molle, perché nel
corso di una guerra civile la propaganda funziona a pieno ritmo e,
secondo i media pro-Assad tutte le formazioni della resistenza (incluso
l’intero Cns) sono da considerarsi costole di Al Qaeda o dell’Isis,
mentre nella realtà dei fatti lottano fra loro infliggendosi migliaia di
perdite. E’ comunque da escludere, vista la natura di Horryaty, fra i
cui sponsor ci sono le Acli/Ipsia di Varese, vi siano simpatie per il
terrorismo islamico. O per il terrorismo in senso lato. In settembre,
fra le varie ricostruzioni ufficiose sulla vicenda, il quotidiano
libanese Al Akhbar sosteneva che le due ragazze, assieme al giornalista de Il Foglio,
fossero state attirate con un inganno nella casa del capo del Consiglio
Rivoluzionario di Alabsmo, dopodiché Raineri è riuscito a fuggire in
tempo, mentre le due ragazze sono finite prigioniere. Ma anche questa
fonte (Al Akhbar) è da prendere con riserva, perché è dichiaratamente vicina a Hezbollah, parte in causa nel conflitto civile siriano.
La varietà di versioni su gruppi e schieramenti,
comunque, fornisce almeno un’impressione chiara: in Siria sai con chi
entri, ma non chi ti troverai accanto una volta entrato. Il Cns è una
galassia di movimenti armati in continuo mutamento. I confini fra Cns e
Al Nusrah e quest’ultima e l’Isis non sono netti. I rapporti fra queste
tre formazioni passano dall’ostilità aperta all’alleanza tattica
temporanea, nei momenti di debolezza. Al Nusrah, tanto per dire, era
nemica del Cns finché era forte, poi quando è sorta la minaccia comune
dell’Isis è diventata alleata, ma quando sono iniziati i raid della
Coalizione sull’Isis ha ricominciato la sua azione terrorista anche ai
danni del Cns. Inoltre non è neppure possibile stabilire quanto il Cns
sia infiltrato da formazioni islamiste, che poi passano armi e bagagli
(ed esperienza) ad Al Nusrah, o anche all’Isis. In questa circostanza,
anche affidarsi alla protezione di un gruppo armato ritenuto amico,
diventa un gioco d’azzardo. Se non possono in alcun modo essere accusate
di essere delle “fiancheggiatrici del terrorismo” (come molti si
affrettano a dire, sui social network, basandosi solo su informazioni
dubbie, a dir poco), Greta e Vanessa possono certamente essere
rimproverate per eccesso di fiducia nei confronti dei loro referenti
locali.
Il problema del terrorismo, semmai, si pone adesso.
Infatti, la prima notizia della liberazione di Greta e Vanessa non
l’abbiamo ricevuta dalla Farnesina (che fino a ieri pomeriggio ha
mantenuto un rigoroso silenzio), ma da tweet di formazioni ribelli
vicine ad Al Nusrah, rilanciati dal canale tv Al Mubasher, del network arabo Al Jazeera.
Solo successivamente è arrivata la conferma dal governo italiano. E
infine sono partiti i rabbiosi commenti dell’Isis: “Questi cani del
Fronte al Nusrah rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i
simpatizzanti dello Stato islamico”. Quindi erano nelle mani di Al
Nusrah, da quanto apprendiamo da queste fonti. E, non essendoci stato
alcun blitz delle forze speciali italiane, come è stato possibile il
rilascio, in cosa è consistito l’intenso “lavoro di squadra dell’Italia”
osannato dal governo Renzi? Dalle istituzioni non arriva alcun
commento, ma sull'account Twitter @ekhateb88, ritenuto vicino
ai ribelli anti-Assad, viene postata la notizia dell’avvenuto pagamento
di un riscatto pari a 12 milioni di dollari. Questa affermazione è stata
poi rilanciata dalla Tv al Aan, di Dubai e dal quotidiano britannico Guardian.
Se così fosse (ed è su questa cifra, 12 milioni, che
è subito nata la polemica contro il governo, animata dalla Lega Nord),
avremmo fornito un finanziamento a fondo perduto alla jihad islamica. E
questo in un periodo in cui il terrorismo è attivissimo, all’indomani
della strage di Parigi, nello stesso giorno in cui, in Belgio, un
sanguinoso blitz della polizia ha smantellato una cellula
che preparava attentati. Il governo italiano, come è noto a tutti, ha
sempre trattato. L’unica volta che ha rifiutato categoricamente di
farlo, l’ostaggio è stato ucciso: si chiamava Aldo Moro. Pagare un
riscatto ai terroristi islamici, tuttavia, non fa altro che alimentare
il loro business dei rapimenti, che, assieme al contrabbando del
petrolio, alle raccolte fondi negli ambienti islamici radicali e alle
razzie, è una delle prime fonti di profitto. Il nostro governo ritiene
che questa sia la miglior tattica per liberare i prigionieri. Gran
Bretagna, Usa e Francia preferiscono tentare i blitz di liberazione e
fra i loro ostaggi si conta il maggior numero di vittime, in effetti.
Vuoi perché vengono assassinati prima da terroristi che sanno di non
poter negoziare, vuoi perché restano uccisi nei falliti tentativi di
liberazione. L’Italia impiega sicuramente tattiche differenti, ma quanto
rende sicura la vita degli italiani all’estero? Se rapire un italiano
paga (e paga, a quanto pare), possiamo solo immaginare quanti altri
nostri connazionali verranno rapiti ancora. E di italiani all’estero ce
n’è sempre: giornalisti, missionari, impiegati di filiali in aree ad
alto rischio, volontari e cooperanti come le due ragazze.
Non è realistico pretendere che il governo cambi tattica
e passi ad un atteggiamento di intransigenza nei confronti dei
rapitori: non lo ha mai fatto e gli esempi dei falliti blitz americani,
britannici e francesi dimostrano che non sia neppure un metodo
promettente. Non si può neppure pensare di richiamare a casa tutti gli
italiani che operano in zone pericolose. Quel che dovrebbe cambiare è
semmai la mentalità di chi corre rischi portando aiuti in aree di
guerra. Che sia più consapevole dei pericoli ai quali va ad esporsi e al
danno che può infliggere all’intera comunità nel caso la sua personale
impresa (encomiabile quanto si voglia) dovesse finire in un sequestro.
Il governo potrebbe e dovrebbe aiutare i singoli in quest’opera di
responsabilizzazione, non accogliendo a braccia aperte ogni iniziativa
umanitaria, ma scoraggiando (anche attivamente) quelle che appaiono, già
da subito, troppo rischiose. Non si tratterebbe di scoraggiare
l’altruismo, ma di incoraggiare la responsabilità. Un altruista morto, o
rapito, non può più fare del bene a nessuno. E se il proprio slancio di
generosità finisce in una trattativa con degli jihadisti, domandiamoci
poi a chi possa far bene.
irrisolti
16-01-2015
fonte: http://www.lanuovabq.it
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