Papa Francesco, quello osannato
dall'unanimismo progressista, dice: «Non si può prendere in giro la
fede. Se insultano mia madre, tiro un pugno». Un'uscita agghiacciante, a
cui oggi vogliamo opporre lo splendido discorso di Benedetto XVI a
Ratisbona, quando contrappose la razionalità occidentale al concetto di
jihad
Il 12 settembre 2006 Joseph Ratzinger, allora Papa in carica, tenne una lectio magistralis all’Università di Ratisbona dal titolo Fede, ragione e università – Ricordi e riflessioni,
incentrata sul rapporto tra fede e ragione e fondamentale per la
teologia cristiana e il pensiero contemporaneo tutto. In essa,
riallacciandosi alle riflessioni del dotto imperatore bizantino Manuele
II Paleologo, Ratzinger andava al cuore della grande anomalia
occidentale, l’incontro tra il “logos” greco e la fede cristiana, e la
metteva in relazione con il concetto di jihad islamica, che punta
tutt’oggi a “diffondere la fede per mezzo della spada”. Ne
ripubblichiamo oggi una parte. Sì, proprio oggi che il suo successore,
l’unanimemente osannato Papa Francesco (soprattutto dall’unanimismo
progressista), ha rilasciato le seguenti dichiarazioni, a proposito
della vicenda di Charlie Hebdo (che poi è appunto un
massacro “con la spada per diffondere la fede”): «Abbiamo l’obbligo di
parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. E vero
che non si può reagire violentemente, ma se qualcuno dice una parolaccia
contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può
provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere
in giro la fede». Non sappiamo come reagiranno a questa vera e propria
teorizzazione della repressione religiosa i numerosi e sguaiati fan che
Bergoglio ha nelle redazioni, nei partiti politici, nei talk show. Noi,
sappiamo che l’Occidente ha avuto un grande Papa, Benedetto XVI, che ha
difeso la sua eccezionalità davanti al mondo, e a maggior ragione
vogliamo tornare a leggercelo.
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell’università
e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri,
contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo
presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di
insegnante accademico all’università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il
tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole
cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso
c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra
i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei
docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e
naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus,
in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli
studenti dell’intera università, rendendo così possibile un’esperienza
di universitas – una cosa a cui anche Lei,
Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto
che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono
incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel
tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così
insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione
– questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio,
era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che
anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del “tutto” dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune
si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della
ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia
che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una
stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva –
di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così
radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo
della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione
della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una
convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando
recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury del
dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli
tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi
ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non
quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo si estende su tutto
l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e
si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo,
ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come
si diceva – tre “Leggi” o tre “ordini di vita”: Antico Testamento –
Nuovo Testamento – Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa
lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella
struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema “fede e ragione“, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād,
della guerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2,
256 si legge: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”. È probabilmente
una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in
cui Maometto stesso era ancora senza potere e
minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le
disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa.
Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento
tra coloro che possiedono il “Libro” e gli “increduli”, egli, in modo
sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi
inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la
domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere,
dicendo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi
troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede
che egli predicava”. L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo
così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione
della fede mediante la violenza è cosa irragionevole.
La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima.
“Dio non si compiace del sangue – egli dice -, non agire secondo
ragione, σὺν λόγω, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto
dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede
ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente,
non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima
ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di
strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa
minacciare una persona di morte…”
L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente.
La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse
anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita
un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che
Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche
dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi
la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche
l’idolatria.
A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione,
un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che
agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia.
Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto
dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo
Vangelo con le parole: “In principio era il λόγος“. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce σὺν λόγω, con logos. Logos significa insieme ragione e parola
– una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come
ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul
concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e
tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro
sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice
l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco
non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si
erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì
la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) –
questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della
necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e
l’interrogarsi greco.
fonte: http://www.lintraprendente.it
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