Quando i ribelli sono arrivati a
Damasco è scappato con la famiglia. Faceva l’orefice e i jihadisti gli
hanno rubato tutto. Vive grazie alla Caritas e agli zi
Prima che scoppiasse la guerra nel 2011, Dimah (nome di fantasia che
usiamo per ragioni di sicurezza) viveva a Damasco con la moglie e i due
figli. Gli attacchi dei ribelli, i razzi quotidiani
lanciati a pochi metri da casa sua e le autobombe degli attentatori
kamikaze hanno sconvolto la sua vita, come quella di milioni di altri
siriani, e l’hanno costretto a scappare. Dimah, 50 anni, si è rifugiato
in Italia, vive con la famiglia a Matelica e ha accettato di raccontare a
tempi.it la sua storia.
L’ARRIVO DEI RIBELLI.
Come molti altri cristiani, Dimah viveva nel quartiere di Bab Touma
nella capitale. Faceva l’orefice, ma quando «i ribelli sono riusciti a
prendere le periferie di Damasco sono entrati anche nel mio negozio: mi
hanno rubato tutto, circa 15 chili d’oro, e poi hanno distrutto il
locale».
La perdita del lavoro non ha scoraggiato Dimah, che ha deciso di scappare solo quando la sua vita, quella della moglie e delle due figlie di otto e quattro anni è stata messa davvero in pericolo: «Hanno cominciato presto a lanciare razzi. Non c’era giorno che non ne arrivasse uno, anche a soli dieci metri da casa mia. Per due anni non siamo usciti di casa, per paura di essere uccisi da una bomba, poi ho capito che era giunto il momento di scappare: come potevamo andare avanti così?».
La perdita del lavoro non ha scoraggiato Dimah, che ha deciso di scappare solo quando la sua vita, quella della moglie e delle due figlie di otto e quattro anni è stata messa davvero in pericolo: «Hanno cominciato presto a lanciare razzi. Non c’era giorno che non ne arrivasse uno, anche a soli dieci metri da casa mia. Per due anni non siamo usciti di casa, per paura di essere uccisi da una bomba, poi ho capito che era giunto il momento di scappare: come potevamo andare avanti così?».
DA DAMASCO A MATELICA. Il 29 maggio 2013, alle
quattro di mattina, Dimah e la sua famiglia sono partiti: «Sono stato
fortunato. Io ho il passaporto italiano perché ho vissuto in Italia 15
anni, altrimenti nessun paese ci avrebbe fatto entrare. Un amico
tassista mi ha aiutato e ci ha portato in Libano. Da lì siamo arrivati
in questo paese e da un anno viviamo in un piccolo appartamento a
Matelica, dove dei miei zii ci stanno aiutando a tirare avanti».
«MI HANNO RUBATO TUTTO».
Dimah ha lasciato a Damasco i suoi genitori: «Non potevo portare anche
loro. Sono vecchi e soprattutto non ho più soldi. I ribelli mi hanno
rubato tutto, ho lavorato per 30 anni ma non ho più una lira, come dite
voi. Loro odiano noi cristiani,
forse perché il presidente Assad ci aiuta o perché siamo buoni e
tranquilli. Questi sono mercenari arrivati da fuori per ammazzare la
gente. Dicono che vogliono la pace ma non è vero. A Maloula hanno distrutto tutto, i miei genitori avevano là una casa: l’hanno saccheggiata e poi bruciata».
I RAPIMENTI. Ognuno in Siria ha in famiglia una
tragedia da raccontare, storie di violenza legate agli orrori della
guerra. Anche Dimah ne ha tante e ne racconta alcune: «La sorella di mia
moglie è sposata, il fratello di suo marito è stato rapito e picchiato.
Anche lui faceva l’orefice: gli hanno rubato la macchina e svuotato il
negozio, poi quando hanno capito che non aveva più niente per fortuna
l’hanno rilasciato. Al cugino di mio padre non è andata così bene:
l’hanno rapito per strada, picchiato a sangue e chiesto alla famiglia 50
milioni siriani di riscatto. Quasi un milione di euro. Per loro era
troppo e così si sono messi d’accordo per un riscatto di 20 milioni
siriani. La famiglia ha pagato e i ribelli hanno liberato l’uomo, che è
morto appena sei ore dopo per le troppe percosse subite: per un mese non
hanno fatto altro che pestarlo tutti i giorni».
Ecco perché «anch’io sono scappato. Temevo che questo succedesse anche a me e alla mia famiglia. Questi casi noi li abbiamo vissuti sulla nostra pelle, ma tutti hanno una storia simile da raccontare».
Ecco perché «anch’io sono scappato. Temevo che questo succedesse anche a me e alla mia famiglia. Questi casi noi li abbiamo vissuti sulla nostra pelle, ma tutti hanno una storia simile da raccontare».
IL DRAMMA DEL LAVORO.
Nonostante le difficoltà, oggi la famiglia di Dimah si trova bene in
Italia: «È stato un trauma lasciare la Siria, ma le mie figlie
quest’anno sono andate a scuola: la più grande parla e scrive bene
l’italiano, fa la terza elementare e va benissimo. La più piccola va
all’asilo ma già parla bene l’italiano». Restano i problemi
economici: Dimah sopravvive solo grazie all’aiuto dei suoi zii. «Loro
stanno facendo tutto per me. Anzi di più. Io non ho più niente, vorrei
un lavoro per dare da mangiare alla mia famiglia ma non l’ho ancora
trovato. Grazie a Dio il vescovo e la Caritas ci danno una mano: mi
aiutano a cercare lavoro e ci mandano un po’ di alimenti per mangiare.
Tengo duro per le mie figlie: loro non c’entrano niente. Ma io voglio
lavorare, non sono abituato a vivere così».
«QUELLO CHE SCRIVETE È FALSO». La sua speranza è di
tornare in Siria un giorno: «Spero che ritorni la pace ma la guerra va
avanti da più di tre anni e non si sa quando finirà. Non so neanche se
tornerò mai in Siria». Al dolore per il suo paese e la sua condizione se
ne aggiunge un altro: «Quello che si dice in Italia sulla guerra in
Siria è completamente falso. I giornali scrivono che la gente come me
scappa da Assad e dallo Stato ma non è vero. I ribelli dicono di essere
venuti per la pace e invece ammazzano e distruggono tutto. Due mesi fa è
morta una mia cugina di primo grido di 11 anni. Camminava per strada
quando è esplosa un’autobomba. La sua famiglia è viva per miracolo. Ho
dei filmati che ritraggono i ribelli che tagliano la testa alla gente e
poi ci giocano a calcio. In che cosa crede questa gente? Come fate voi a
sostenerli?».
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