Nonostante le tante chiacchiere sulla minaccia globale portata dallo
Stato Islamico la guerra all’organizzazione jihadista continua ad essere
blanda e inconcludente sotto tutti i punti di vista.
Dopo aver impiegato centinaia di migliaia di militari in Iraq,
Afghanistan e in tante missioni di stabilizzazione, per fare la guerra
al califfo Abu Bakr al-Baghdadi l’Occidente non riesce a mettere insieme
più di qualche migliaio di istruttori e consiglieri militari da tenere
ben lontani dalla prima linea e qualche decina di aerei da
combattimento che in sei mesi hanno effettuato lo stesso numero di
sortite che durante la campagna aerea del Kosovo del 1999 si registrava
in meno di una settimana.
Sul terreno infatti i risultati sono ridicoli se si considera la potenza militare degli Stati membri della Coalizione.
Non è un caso che gli iracheni abbiano lanciato la terza offensiva per riprendere Tikrit impegnando soprattutto milizie sciite e consiglieri iraniani (pasdaran) e senza neppure avvisare Washington di cui a Baghdad si fidano ormai in pochi.
Non è un caso che gli iracheni abbiano lanciato la terza offensiva per riprendere Tikrit impegnando soprattutto milizie sciite e consiglieri iraniani (pasdaran) e senza neppure avvisare Washington di cui a Baghdad si fidano ormai in pochi.
Il
mondo continua a inorridire per le esecuzioni sommarie compiute dagli
uomini dell’IS, per i sequestri e le stragi di cristiani o per lo
scempio delle vestigia di antiche civiltà ma non facciamo nulla per
fermarli.
Il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha definito nei
giorni scorsi “inaccettabili” rapimenti e uccisioni di cristiani in
Siria ma se fossero davvero “inaccettabili” faremmo qualcosa per
impedirli o per far pagare un caro prezzo al Califfato. Invece ci si
limita a dire che sono “inaccettabili” per poi accettarli senza fare
nulla.
Contro lo Stato Islamico l’Occidente intero sta facendo la figura
della pecora. Dall’agosto scorso, quando si costituì la Coalizione per
combattere un nemico che ci stava quasi simpatico finché si limitava ad
attaccare il “tiranno” siriano Bashar Assad, sono stati effettuati
pochi raid aerei e non è stato conseguito nessun successo strategico
mentre l’IS allarga le sue operazioni al Sahel, alla Libia, al Libano
esportando il suo logo in tutto il mondo islamico forte del grandioso
successo conseguito e giustamente sbandierato: il Califfato combatte
contro il mondo intero da oltre sei mesi e sta vincendo.
Può permettersi addirittura il lusso di fare propaganda nelle lingue dei “crociati”
per sobillare immigrati islamici e convertiti residenti in Europa.
Diciamo quasi ogni giorno che gli uomini dell’IS sono bravissimi nella
propaganda ma in realtà siamo noi incapaci di contrastarla con un
messaggio altrettanto forte e vincente.
Nella
guerra della propaganda e della percezione non siamo riusciti a
elaborare una strategia (nonostante gli specialisti americani delle
Operazioni Psicologiche del Pentagono ci lavorino da mesi) in grado di
contrastare quella dell’IS con messaggi chiari e vincenti.
La differenza è che loro agiscono mentre noi chiacchieriamo. Loro
hanno un modello, uno “stile di vita” da esportare, noi invece non
abbiamo il coraggio e gli attributi per difendere e imporre il nostro.
Loro prendono schiavi e sequestrano infedeli come si faceva mille
anni or sono e se non sei in grado di pagare un riscatto vieni ucciso.
Noi
non abbiamo il coraggio neppure di imporre il rispetto delle nostre
leggi agli immigrati né di chiudere le frontiere ai clandestini.
Loro puntano su sangue e guerra per galvanizzare il loro pubblico
(islamico) e terrorizzarci. Ci riescono bene perché dopo decenni di
cultura della pace, peacekeeping, peace support operations e linguaggio
politicamente corretto l’opinione pubblica occidentale ha ormai rimosso
dal suo vocabolario parole quali combattere, uccidere, guerra, conquistare, vincere.
Facciamo persino fatica a capire la causa del Califfato basata
sull’imposizione di valori culturali e religiosi, che noi aborriamo
soprattutto perché abbiamo perso di vista i nostri.
Loro
combattono per imporre un mondo orribile che noi evidentemente non
detestiamo abbastanza da muovergli guerra per davvero. Pur di ucciderci e
conquistarci sono pronti a morire nel jihad mentre noi siamo pronti a
tutto pur di non dover combattere. Loro hanno un progetto politico e
militare da perseguire nel tempo, noi tiriamo a campare con l’orizzonte
delle nostre leadership limitato alle prossime elezioni. Loro sono dei
mostri, noi dei conigli.
Il vero problema non è la loro propaganda ma l’assenza della nostra,
l’incapacità dell’Occidente di esibire e propugnare un modello culturale
e sociale vincente, la nostra codardia di fronte alla morte subita e
inferta.
In Italia alcuni media hanno persino deciso di autocensurarsi
rifiutandosi di mostrare i truci video dell’IS come se non guardandoli
cessassero di esistere mentre sappiamo benissimo che chi vorrà vederli
continuerà a poterlo fare on line. Sarebbe comprensibile che qualche
governo occidentale in affanno chiedesse ai media di non dare spazio
alla propaganda del Califfo ma che siano i media stessi a censurarsi
suscita perplessità.
Facciamo
gli struzzi, mettiamo la testa sotto la sabbia, guardiamo i reality
invece dei video del Califfato ma questo non renderà più credibili i
primi nè meno veri i secondi.
La nostra opinione pubblica è terrorizzata dall’IS perché non vede
risposte concrete da parte delle leadership occidentali, né sul piano
bellico né sul fronte interno.
Di fatto non abbiano attuato nessuna deterrenza contro minacce e
aggressioni, neppure dopo che numerosi rapporti d’intelligence ci hanno
avvisato delle dimensioni del problema. Invece di chiudere moschee e
incarcerare o espellere migliaia di islamisti radicali presenti in
Europa continuiamo a tollerare chi ci odia e attende la buona occasione
per colpirci.
In
Danimarca ai “foreign fighters” che rientrano dal jihad in Siria
vengono pagati persino gli studi universitari nell’ambito di programmi
di recupero che la dicono lunga su quanto l’Occidente si sia rammollito.
Un sondaggio della BBC presso
la popolazione musulmana britannica fotografa un diffuso sostegno
popolare ai jihadisti e alla loro causa mentre in Italia lo studio di Michele Groppi sul radicalismo islamico pubblicato dal CEMISS non
ha avuto nessuna eco benché dipinga un quadro dir poco impressionante
circa la presenza di jihadisti e loro fiancheggiatori.
Del resto della ventina di Paesi che hanno inviato aerei nella
Coalizione l’Italia è l’unico a non autorizzare i piloti a bombardare
l’IS in Iraq.
Benché
direttamente minacciati dai jihadisti in Libia non solo non aiutiamo
gli egiziani a spazzare via l’IS da Derna e dintorni ma continuiamo ad
accogliere migliaia di clandestini ogni settimana pur sapendo che così
facendo arricchiamo i terroristi islamici che con quel denaro ci fanno
la guerra.
Due settimane or sono scafisti/miliziani/terroristi hanno sparato a
una motovedetta italiana che soccorreva clandestini senza incontrare
alcuna resistenza da parte dell’equipaggio ma soprattutto (cosa grave)
senza nessuna successiva reazione o rappresaglia militare italiana.
Aspetto gravissimo che conferma al nemico la nostra debolezza
incoraggiando così nuove aggressioni. Immaginate che effetto avrebbe un
video dell’IS che riprendesse una motovedetta italiana catturata dai
miliziani. Eppure di fatto Roma è belligerante contro l’IS dall’agosto
scorso quando iniziò ad armare i curdi: bombardare direttamente il
Califfato o annientare miliziani e scafisti non cambierebbe
l’esposizione della Penisola al rischio di attentati.
Il
vero contrasto al Califfato, anche in termini di propaganda, lo si fa
con i fatti non con le chiacchiere. In Occidente si continua a dire che
non bisogna chiamare “Stato” il Califfato per non riconoscerlo come tale
ma di fatto lo è: ha persino un’amministrazione pubblica e scolastica,
batte moneta ed è grande quanto la Gran Bretagna. Chiamarlo in un altro
modo lo renderà meno Stato?
Se dopo l’attacco alla nostra motovedetta la Difesa avesse reso noto
un video con una fregata della Marina che affonda a cannonate
l’imbarcazione dei miliziani o un UAV Predator che individua gli
aggressori e un Tornado che con una bomba di precisione li fa esplodere
avremmo fatto passare il messaggio che chi attacca gli italiani muore.
Certo in qualche sagrestia e circoli radical chic qualche anima
bella avrebbe storto il naso ma se siamo in guerra allora “à la guerre
comme à la guerre” senza badare troppo a chi vorrebbe farci combattere
con le regole della briscola.
Evidentemente
non è il caso di schierare migliaia di soldati in Libia senza un piano
né solide alleanze ma azioni mirate contro i jihadisti a Derna o Sirte,
protezione dei terminal energetici sulla costa libica e respingimenti
assistiti dei clandestini sono tutte operazioni alla portata delle
nostre forze armate e che risponderebbero pienamente ai nostri interessi
nazionali.
Sia in termini concreti che di percezione è impellente dimostrare che
lo Stato Islamico non vincerà e chi lo segue verrà annientato.
Un’esigenza pressante anche per evitare che la propaganda dell’IS
(vincente a causa della nostra debolezza) trasformi le strade delle
nostre città in campi di battaglia .
Se per ogni esecuzione sommaria la Coalizione avesse raso al suolo
una città controllata dallo Stato Islamico a cominciare dalla “capitale”
Raqqa il califfo nero sarebbe già stato rovesciato, magari le stesse
tribù sunnite irachene e siriane che lo hanno sostenuto finora lo
avrebbero fucilato e poi impiccato a testa in giù.
Nel
2006 il generale David Petraeus convinse le tribù sunnite a schierarsi
contro al-Qaeda non certo con i fiori o impiegando i jet da
combattimento solo per la ricognizione ma dimostrando loro che “la tribù
più forte è quella degli al-ameriki” come disse un comandante tribale
nella provincia di al-Anbar aderendo ai cosiddetti “Comitati del
Risveglio.
Del resto nel 1943-45 noi italiani accogliemmo come liberatori gli
anglo-americani che certo non avevano risparmiato le bombe sulle nostre
città. Inutile farsi illusioni: in guerra, ieri come oggi, la migliore
propaganda è la vittoria.
Foto: Stato Islamico, US DoD, Reuters, Aeronautica Militare, TMNews
di Gianandrea Gaiani - 5 marzo 2015
fonte: http://www.analisidifesa.it
Giornalista
nato nel 1963 a Bologna, dove si è laureato in Storia Contemporanea,
dal 1988 ha collaborato con numerose testate occupandosi di analisi
storico-strategiche, studio dei conflitti e reportages dai teatri di
guerra. Attualmente collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il
Foglio, Libero, Il Corriere del Ticino e con il settimanale Panorama sul
sito del quale cura il blog “War Games”. Dal febbraio 2000 è direttore
responsabile di Analisi Difesa. Ha scritto Iraq Afghanistan - Guerre di
pace italiane.
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