Come purtroppo sappiamo il Governo Renzi, senza il consenso delle
opposizioni ed addirittura senza il consenso di una parte importante del
proprio partito, prosegue nello stravolgimento delle regole del gioco
della Repubblica Italiana con un’ampia riforma Costituzionale e
l’approvazione di una nuova legge elettorale che ripresenta,
sostanzialmente immutate, le criticità del porcellum dato che nega un
voto eguale, personale, libero e diretto.
In tutto questo paiono assolutamente
evidenti le responsabilità della Corte Costituzionale. L’anno scorso uno
dei temi più dibattuti è stato quello relativo alle conseguenze della sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014 che
ha dichiarato l’illegittimità della Legge elettorale che ha formato
l’attuale Parlamento. Tuttavia è proprio tale sentenza a consentire
quanto avviene oggi a causa di motivazioni illogiche, contraddittorie ed
in gran parte esorbitanti dei limiti del potere conferito alla Corte
stessa.
Con detta sentenza si era sostanzialmente
scoperta l’acqua calda, ovvero che il cd. “porcellum” era ed è
costituzionalmente illegittimo e ciò sia in riferimento al premio di
maggioranza che alla mancata possibilità per l’elettore di esercitare la
propria preferenza in ordine ad uno specifico candidato.
Sul punto la Corte Costituzionale nella
parte motiva della pronunzia, dopo aver dichiarato l’incostituzionalità,
si è purtroppo anche così espressa: “È evidente, infine, che la
decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo
modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la
Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in
occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si
dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta
in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova
normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere.
Essa, pertanto, non tocca in alcun
modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante
il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni
svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. Vale appena
ricordare che il principio secondo il quale gli effetti delle
sentenze di accoglimento di questa Corte, alla stregua dell’art. 136
Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, risalgono fino al
momento di entrata in vigore della norma annullata, principio «che suole
essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività”
di dette sentenze, vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti,
con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono
regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984).
Le elezioni che si sono svolte in
applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente
illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto
concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie
con la proclamazione degli eletti.
Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.
Rileva nella specie il principio
fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e
dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare
dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a
cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio –
è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di
spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le
Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere
sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono
in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di
deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la
continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad
esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere
precedenti «finchè non siano riunite le nuove Camere» (art. 61 Cost.),
come anche a prescrivere che le Camere, «anche se sciolte, sono
appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la
conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (art. 77,
secondo comma, Cost.)”.
Dunque di cosa stiamo dibattendo? La
Corte chiaramente ha affermato che la composizione attuale dei due rami
del Parlamento costituisce situazione giuridica esaurita e che dunque la
legittimazione a legiferare delle Camere ad oggi permane. Tuttavia la
situazione è ben diversa rispetto a quanto prospettato nella citata
sentenza che risulta affetta da gravi errori sia sotto il profilo logico
che giuridico. La Corte Costituzionale ha sbagliato clamorosamente
mettendo in dubbio addirittura il suo ruolo di garanzia della
democrazia. Per i giuristi è venuto il momento di smettere di voltarsi
dall’altra parte e dire le cose come stanno, le conseguenze infatti sono
troppo gravi. Ma andiamo con ordine.
In primo luogo occorre chiedersi quali
siano i poteri della Corte Costituzionale e se conseguentemente la
stessa avesse o meno la possibilità di pronunciarsi, con gli effetti
propri del giudicato, su qualcosa di diverso dalla mera declaratoria di
incostituzionalità della norma oggetto del suo esame o di quelle
consequenziali ad essa. Effettivamente vi sono solidi argomenti
giuridici per ritenere che la pronunzia in merito all’attuale
legittimazione del Parlamento sia, oltre che palesemente errata, anche
assolutamente incidentale e dunque non vincolante nel nostro ordinamento e ciò in quanto la
determinazione degli effetti dell’incostituzionalità di una norma non
rientra affatto nei poteri che la Costituzione conferisce ai sensi
dell’art. 134 alla Corte stessa. In claris non fit interpretatio.
A fondamento della propria presa di
posizione circa la piena legittimazione dell’attuale Parlamento la Corte
Costituzionale richiama due norme di legge. Tuttavia proprio
menzionando tali norme la Corte finisce per evidenziare compiutamente
gli evidenti vizi del proprio ragionamento. Le norme richiamate infatti
codificano gli effetti della declaratoria d’incostituzionalità
sancendone la piena retroattività. Esaminiamo pertanto le due norme
richiamate dalla Corte Costituzionale:
-L’art. 136 Cost., a piena conferma il ragionamento dello scrivente, dispone: “Quando
la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o
di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal
giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Dunque
è la Costituzione a determinare quali siano gli effetti della
declaratoria d’incostituzionalità e non la Corte Costituzionale. Secondo la Costituzione la norma dichiarata incostituzionale non viene abrogata ma perde efficacia nell’ordinamento. La
perdita di efficacia è qualcosa di ben più profondo di una semplice
abrogazione di norma in quanto presuppone la retroattività degli effetti
della pronuncia della Corte. Di palmare evidenza che se
un Parlamento illegittimo nella sua composizione continua
tranquillamente a legiferare gli effetti della norma dichiarata
incostituzionale permangono vivi più che mai nell’ordinamento, anzi
in verità più il Parlamento legifera e più gli effetti della legge
dichiarata incostituzionale si diffondono e si moltiplicano! Se poi il
Parlamento da il via ad un ampia revisione Costituzionale, volta
peraltro a cancellare la sovranità e l’indipendenza del paese, siamo
davvero difronte ad un atto sostanzialmente eversivo che la Corte non ha
saputo fermare sul nascere.
D’altro canto una situazione
giuridica può dirsi logicamente esaurita unicamente laddove non continui
a determinare nuovi effetti (conseguenze) nell’ordinamento. Ad
ulteriore conferma dell’assoluta erroneità del ragionamento della Corte
Costituzionale basta anche solo rammentare che la Costituzione prevede
un meccanismo atto ad assicurare la
continuità dello Stato laddove dispone, ad esempio, a seguito delle
elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti “finché non
siano riunite le nuove Camere” (art. 61 Cost.). Pertanto non
corrisponde al vero neppure l’ulteriore esternazione che si legge in
sentenza ovvero che la perdita di poteri in capo al Parlamento avrebbe
creato pregiudizio al corretto funzionamento delle istituzioni
democratiche. Casomai il pregiudizio sussiste laddove si consente ad un Parlamento illegittimo di proseguire nella sua attività.
-l’art. 30 Legge n. 87/1953, ad ulteriore conferma delle tesi dello scrivente, recita: “La sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal suo deposito in Cancelleria, è trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e giustizia od al Presidente della Giunta regionale affinché si proceda immediatamente e, comunque, non oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo della decisione nelle medesime forme stabilite per la pubblicazione dell’atto dichiarato costituzionalmente illegittimo. La sentenza, entro due giorni dalla data del deposito viene, altresì, comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario adottino i provvedimenti di loro competenza. Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”. Dunque anche
la seconda delle norme richiamate dalla Corte Costituzionale a sostegno
delle proprie tesi in realtà non limita affatto la retroattività degli
effetti della pronuncia d’incostituzionalità di una legge in riferimento
ai soli rapporti giuridici tuttora pendenti. Ciò che afferma
la Corte Costituzionale non ha riscontro normativo e soprattutto, come
già detto, esula completamente dai poteri che la Costituzione le
conferisce. L’apodittico assunto della Corte circa la non
retroattività degli effetti della propria pronuncia dunque non può avere
gli effetti propri del giudicato.
Peraltro, ed è appena il caso di sottolinearlo, ai sensi dell’art. 1 Cost. “La sovranità appartiene al popolo”. Non
si riesce ad immaginare nulla che possa contravvenire maggiormente a
tale fondamentale precetto (non a caso espresso nell’articolo uno) di un
Parlamento che continui a legiferare nonostante la sua elezione sia
avvenuta in violazione del rispetto della sovranità popolare. Come può la Corte Costituzionale definire tale stato di cose una situazione giuridica “esaurita”? Molto semplicemente non può.
Altrettanto infondato è ritenere che la nomina a parlamentare sia un
fatto giuridico esaurito anche in riferimento all’art. 66 Cost. che
infatti dispone: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di
ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di
illegittimità e di incompatibilità”. Ergo se la nomina di
un Parlamentare diventa illegittima anche successivamente al voto può
comunque essere travolta con buona pace dell’assurdità di ritenere fatto
esaurito la nomina di un Parlamento. Le leggi precedenti alla
sentenza della Corte sono sicuramente legittime, quelle successive
invece, tra cui anche l’ampia riforma istituzionale, sono sic et
simpliciter un fatto illecito al limite del reato di usurpazione del
potere politico punito ex art. 287 c.p.
Ma a livello pratico tutto ciò cosa comporta? Comporta la
morte dello Stato di diritto e l’apertura di una fase di assoluta
incertezza degli equilibri istituzionali del paese. Infatti innegabilmente ancora
oggi è possibile sostenere in giudizio che qualsivoglia legge emessa
dal Parlamento successivamente alla pubblicazione della sentenza n.
1/2014 sia costituzionalmente illegittima. Solo laddove
tale questione arrivasse nuovamente sul tavolo della Corte
Costituzionale sarebbe possibile per la stessa pronunziare sentenza
avente efficacia di giudicato sul punto (augurandoci che questa volta la
Corte faccia diritto anziché politica), circostanza che non si
è verificata con la sentenza di cui si discute in cui oggetto del
contendere era unicamente la legge elettorale. Pertanto ad oggi
ogni nuova legge emanata dal Parlamento è potenzialmente passibile di
essere dichiarata illegittima dalla stessa Corte Costituzionale che del
tutto legittimamente potrebbe (anzi dovrebbe) mutare l’orientamento
espresso in via unicamente incidentale nella sentenza di cui si dibatte e
magari scusarsi con il popolo italiano per avere omesso di svolgere
correttamente i suoi compiti istituzionali.
Costituzionalmente parlando vi è anche
un altro organo istituzionale che ha il potere, anzi il dovere, di porre
fine a questa situazione di potenziale cortocircuito dovuta
dall’apertura di una fase di grave incertezza del diritto che potrebbe
esplicitarsi anche tra molti anni con conseguenze catastrofiche:
trattasi del Presidente della Repubblica, unico
soggetto giuridico che può sciogliere le Camere. Ma prima l’indecorso
Napolitano ed oggi Mattarella, in cui comunque nutro ancora qualche
flebile speranza, hanno latitato.
-Sul medesimo argomento si invita anche alla lettura dei seguenti
interessanti ed ampiamente condivisibili articolo di Antonio Riviezzo
– Ricercatore in Diritto costituzionale – Università di Sassari – Clicca qui e di Luciano Barra Caracciolo, Presidente della V Sez. del Consiglio di Stato – Clicca qui.
27 aprile 2015
www.studiolegalemarcomori.it
fonte: http://scenarieconomici.it
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