Il
concetto di “distruzione creatrice” elaborato da Schumpeter descrive
come, in un contesto di libero mercato, le industrie nuove e più
efficienti tendano ad estromettere quelle più datate, generando crescita
economica. La perversione di questo processo, per come operata dallo
Stato, può essere invece definita “distruzione non creatrice”. Lo Stato
sovvenziona palesemente alcune industrie e alcuni gruppi (compreso se
stesso ed i propri dipendenti), mentre surrettiziamente annienta la
ricchezza complessiva ed il benessere sociale, riducendo la crescita
economica e la prosperità generale.
Gli atti di prestidigitazione e di
inganno perpetrati dallo Stato consistono nel catalizzare l’attenzione
sui sussidi generosamente elargiti con la sua mano destra, adombrando
abilmente la ben più grande distruzione, operata a suon di tasse e
regolamentazione, con la sua mano sinistra. Come ha rilevato Bastiat,
economista francese del 19° secolo, nel suo saggio Ciò che si vede e ciò che non si vede,
si riscontrano due effetti ben precisi in ogni intervento dello Stato:
effetti visibili ed effetti impercettibili. Esso mira a far sì che ci si
concentri solo sull’attività economica intesa a riparare le “finestre”,
non importa quanto reali o immaginarie, (i sussidi), evitando
accuratamente di evocare tutte le finestre che lui stesso rompe, le case
che demolisce, e la gente distratta dal costruirne di nuove e di
migliori (la distruzione).
Lo Stato, ad esempio, propaganda
incessantemente l’effetto di stimolo della spesa in tempo di guerra, in
grado di sovvenzionare tutte quelle aziende che producono materiale
bellico e di supportare tutti coloro che lavorano in quelle industrie.
Ma le tasse con cui si sovvenziona tutto ciò sono estratte da una vasta
fetta della popolazione, che sperimenta sulla propria pelle come la
ricchezza possa essere drenata e distrutta. Ma la distruzione non
termina a questo punto. Con una minor ricchezza a disposizione,
decrescono inevitabilmente anche le capacità delle persone di
risparmiare e di investire in capitale umano e fisico. L’innovazione
nelle industrie che producono burro viene repressa, così come la
produzione per soddisfare le richieste viene compressa, quando non del
tutto sprecata. La crescita economica sarà destinata ad un inevitabile
arresto.
Tutta la spesa pubblica può essere
assimilata alla spesa bellica per la sua prerogativa di deviare la
produzione da ciò che le persone desiderano e a cui conferiscono valore
(l’invisibile), a ciò che le medesime non vogliono e non apprezzano.
Tutto questo provoca la distruzione in più di una maniera. Con quanta
più ricchezza viene drenata per sovvenzionare la produzione di pistole a
spese della produzione di burro, tanti più disoccupati si
riscontreranno nelle fabbriche casearie. La vita ed i piani delle
persone vengono sconvolti. Queste devono andarsene e cercare altrove un
differente impiego. Le relazioni sociali e familiari vengono
scombussolate, imponendo dei pesanti costi psichici a carico degli
individui coinvolti. Nel frattempo, la spoliazione legale operata dallo
Stato rende obsoleta, distrae ed annienta qualsiasi forma di capitale:
sia esso fisico, umano e sociale.
Sappiamo bene che gli effetti della
distruzione soverchiano di gran lunga quelli generati dall’elargizione
dei sussidi, per il semplice fatto che le tasse sono esatte in maniera
coercitiva. E anche perché la distruzione non implica solamente la
distrazione immediata di risorse impiegate in beni e servizi che gli
individui prediligono maggiormente (il burro), bensì anche la
frustrazione degli investimenti e dell’innovazione, la mortificazione
degli accordi volontariamente convenuti per ottenere mutui benefici, e
l’imposizione di costi psichici nei confronti di coloro che sono
costretti a modificare le proprie abitudini comportamentali: a fronte di
tutti ciò, possiamo essere sicuri che la distruzione eccede di gran
lunga i benefici delle sovvenzioni. Possiamo pertanto essere sicuri che
il risultato netto combinato dei sussidi e della distruzione darà luogo
ad una distruzione netta.
Tutti i programmi statali hanno il
medesimo tipo di impatto negativo netto sulla società. Un programma di
assistenza sociale, ad esempio, si connota per essere altamente
distruttivo. In tal caso, un gruppo privilegiato di anziani viene
sussidiato, mentre un gruppo svantaggiato di tax payer sarà
obbligato a pagare il conto. Risparmi, investimenti ed innovazione sono
ampiamente soffocati nell’ambito del complessivo contesto sociale. La
crescita ed il progresso si contraggono. Numerosi e svariati impatti
sociali ed economici negativi andranno a colpire le famiglie, il lavoro,
il modo di pensare, aggravando una situazione già di per sé negativa.
Ma quanto è grande la “distruzione non
creativa” operata dallo Stato? Enorme. Rothbard ha suggerito che tutte
le spese ascrivibili allo Stato siano da considerarsi come degli
sprechi. E come possiamo avere un’idea della portata di tale distruzione
netta? Come punto di riferimento, possiamo considerare i cambiamenti a
lungo termine in termini di efficienza dell’industria americana, così
come possiamo considerare il gravame fiscale sopportato dai
contribuenti.
Nel 1880, l’industria americana (in
termini reali) generava un indice di redditività del capitale investito
pari al 7 per cento. Oggi, quel saggio è pari al 4 per cento. Si
supponga che le imprese conservino tutta quella redditività per poi
reinvestirla. Ciò vuol dire che esse cresceranno ad un ritmo del 7 per
cento annuo se valutate nel 1880 e del 4 per cento se considerate nel
2007. Ancorché le industrie non ritengano tutti i propri guadagni, il
forte decremento della redditività suggerisce che l’importante
rallentamento del tasso di crescita è avvenuto a causa dell’affermarsi
dello Stato. Le variazioni delle aliquote di imposta coincidono con la
crescita più lenta e la attestano. Si assuma ora che l’aliquota fiscale
nel 1880 fosse pari a zero, e che l’odierna aliquota sia del 30 per
cento. Ne consegue che al giorno d’oggi un ritorno sugli utili del 7 per
cento sarebbe inevitabilmente ridotto, a fronte dell’incidenza delle
imposte, al 4,9 per cento. Un’aliquota d’imposta del 40 per cento
ridurrebbe il rendimento al 4,2 per cento. Quanto più lo Stato assorbe
rendimenti e dirotta la ricchezza verso utilizzi non efficienti, sia il
livello di tassazione che la soglia di crescita, inevitabilmente più
lenta, rifletteranno tale distorsione.
Non essendo tutti degli storici o dei
centenari, un gran numero di americani è inconsapevole che il tasso di
crescita negli USA ha subito un rallentamento di tale portata. Ma
ammesso e non concesso il riconoscimento della perdita visibile del
tasso di crescita, questi cittadini si renderebbero poi conto delle
tremende privazioni di ricchezza che tutto ciò comporta? Probabilmente
no. Poiché la crescita si calcola a partire da un importo base che si
fissa quale parametro iniziale, questa si capitalizza. Con un tasso di
crescita del 4 per cento annuo, la base cresce più lentamente e gli
incrementi sono molto più contenuti. Con un tasso di crescita del 7 per
cento, invece, non è solo il tasso di crescita ad essere più elevato, ma
anche gli incrementi sono sempre più consistenti. C’è un effetto
sostanziale di “crescita su crescita”, che è esattamente assimilabile
all’effetto della capitalizzazione degli interessi (interesse su
interesse). Mille dollari ne fruttano 50.000 dopo 100 anni, al tasso del
4 per cento annuo [applicando la formula dell’interesse composto, ndt].
Ne fruttano invece 868 mila, considerando lo stesso periodo di 100
anni, al saggio del 7 per cento. Sebbene il tasso di crescita sia solo
del 75 per cento superiore (7/4 = 1,75), la ricchezza finale è maggiore
più di 17 volte tanto (il 1700 per cento).
Si aggiungano, all’aspetto della
crescita rallentata, le perdite visibili o impercettibili, queste
sicuramente più difficili da identificare, in termini di innovazioni
tecnologiche, di istruzione, di assistenza sanitaria, di incremento
della popolazione, di longevità e di cultura. A tutto ciò si sommino, ad abundantiam,
le privazioni in termini di qualità dei servizi coercitivamente erogati
dagli Stati, andando a soppiantare i servizi che sarebbero emersi in
un libero mercato. Ma non è finita: si aggiunga lo spreco assoluto di
risorse generato dagli Stati che costringono e imbrigliano l’attività
umana in canali, che non sarebbero altrimenti percorsi. In totale,
pertanto, la distruzione deve essere molto più grande di ciò che quel 75
per cento di caduta del tasso di crescita suggerirebbe. Di seguito,
assumeremo che l’attuale tasso di distruzione operata dallo Stato sia
superiore di un fattore del 125 per cento, rispetto a quanto accadeva
nel 1880.
Per renderci concretamente conto delle
due facce dello Stato, dobbiamo esplicitamente mostrare le logiche di
funzionamento dei sussidi indirizzati ad alcune imprese (armi) e la
contestuale distruzione che si dispiega in altre (burro).
Si identifichi lo stadio produttivo originario, quello del 1880, denotandolo come BPAST. Si supponga che, nel 1880, l’effetto delle sovvenzioni aumentasse del 20 per cento quel livello (0.2 BPAST), e che, parimenti, l’ effetto della distruzione ne determinasse una contrazione del 30 per cento (-0.3 BPAST). L’effetto netto sull’andamento dell’ economia del 1880 è allora - 0.1 BPAST.
La misura della tassazione è abbastanza indicativa di questo trend,
atteso che, considerando tutti i livelli di governo, a quell’epoca
questa si assestava, con tutta probabilità, intorno al 10 per cento. E,
con quel livello, l’effetto di trascinamento sull’economia del 1880
poteva dirsi relativamente modesto.
Con un volo pindarico, andiamo adesso al
2007. Lo Stato è cresciuto in maniera ipertrofica. Il livello dei suoi
sussidi è estremamente più cospicuo, così come quello della sua
distruzione. Ipotizziamo che le sovvenzioni siano aumentate del 50 per
cento rispetto al 1880. Cioè, l’effetto sullo stadio produttivo odierno
(che chiameremo BNOW) è pari a 0,2 x 1,5 = 0,3. La misura dei sussidi
del giorno d’oggi equivale al 30 per cento di quanto viene prodotto. Si
supponga che l’effetto distruttivo si sia oltremodo rafforzato,
scontando un’amplificazione ben maggiore, diciamo del 125 per cento
rispetto alla precedente situazione. Ciò significa che l’effetto di
distruzione è ora -0,3 x 2,25 = -0,675 BNOW.
La distruzione netta, parametrata ai giorni nostri, su BNOW è quindi 0,3 -0,675 = -0,375.
Di fatto, quel saggio del 37,5 per cento si approssima assai al livello
di pressione fiscale a cui si è attualmente soggetti. Supponendo che il
grado di distruzione operata dallo Stato sia incrementato molto più
rapidamente rispetto a quello dei sussidi elargiti (125 per cento
rispetto al 50 per cento), si ottiene un risultato numerico
apprezzabile, che riproduce diversi aspetti: (1) la riduzione della
efficienza delle imprese dal 7 al 4 per cento, e (2) l’aumento della
tassazione sulle medesime imprese (la quale andrà poi ad impattare sui
singoli individui).
Si supponga ora che il settore
produttivo in un mercato libero sia in grado di produrre e di crescere
al ritmo del 7 per cento annuo, sia nel passato che ai nostri giorni.
Avvalendoci di una stima spannometrica, il tasso di crescita reale nel
1880, dopo la spoliazione operata dallo Stato, era pari allo 0,9 x 7 per
cento = 6,3 per cento. Oggi, tale tasso di crescita reale è invece pari
allo 0.625 x 7 per cento = 4.375 per cento. Questi valori sono
solamente ipotetici, ma la loro notevole divergenza offre una stima
ragionevolmente accurata ed un limite minimo dell’effetto netto della
distruzione statale realizzata attraverso i suoi sussidi. Come la
tassazione è balzata a livelli considerevoli, il tasso di crescita
dell’economia si è contratto di circa il 30 per cento, vale a dire il
rapporto tra i tassi di crescita netti (6.3 – 4.375) ed il tasso di
crescita relativo al primo periodo preso in considerazione (6.3).
Ma perché la distruttività dello Stato
marcia a ritmi molto più serrati rispetto al livello dei sussidi che lo
stesso fornisce? Vi sono diverse ragioni. Da un punto di vista
economico, con l’esazione delle imposte, vengono drenate risorse
passibili di essere impiegate in progetti a cui viene attribuito un
minor valore, ma in cui le imprese avrebbero desiderato investire. Di
seguito, si distraggono i fondi impiegabili nella realizzazione di
progetti più apprezzati. Di fatto, non appena tali imprese tentano di
ottenere dei finanziamenti per il loro conseguimento, si imbattono in
crescenti costi di approvvigionamento del capitale, dovendo far fronte a
tassi di interesse sempre più elevati.
Un’ulteriore ragione consiste nel fatto
che le regolamentazioni dello Stato sono ineludibilmente interrelate
alle sue misure di sussidio e tassazione, ed esse immettono nuovi
livelli assoluti di distruttività, passibili di ostacolare
l’innovazione, di costringere le imprese a sottrarre risorse ricorrendo
all’evasione e all’elusione, nonché di spingerle alla delocalizzazione.
In terzo luogo, l’interventismo statale introduce una stabile condizione di incertezza nella conduzione degli affari.
Quarta considerazione, non dobbiamo
scordarci degli “effetti di network”. Come la distruttività si diffonde,
questa deteriora ed annichilisce le inter-relazioni tra i diversi
comparti industriali.
In quinto luogo, non appena le imprese
intuiscono che la politica è in grado di influenzare il loro operare,
queste tenderanno opportunisticamente a ricercare le rendite
parassitarie, incontrando il favore politico, in modo che il favoritismo
e la distruzione della logica concorrenziale aumentino oltremodo.
Una sesta conseguenza: lo Stato è in grado di catturare le industrie a cui fornisce i sussidi.
La sola ed unica creatività dello Stato
si esplica nel concepire i propri trucchi [e nel dispensare illusioni,
ndt] per ingannare il pubblico. Ma non ci rimane che constatare che,
alla fine di tutto questo processo, non resta altro che una gigantesca
“distruzione non creatrice”.
Traduzione di Cristian Merlo - lunedì, marzo 24, 2014
fonte: http://vonmises.it
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